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lunedì 31 agosto 2020

Disturbi alimentari: origine e elaborazione della metafora del sintomo in psicoterapia

 

 Dalla pagina Instagram: @disturbialimentari_mentecorpo

L'organizzazione psicofisiologica, é estremamente influenzata dalla regolazione degli affetti (Beebe et al., 1992; Beebe, Lachmann, Jaffe, 1997), e ha un enorme impatto sulla nostra vita a più livelli. Alcuni studi longitudinali sulle rappresentazioni materne in gravidanza hanno dimostrato che é possibile anticipare eventuali esiti psicopatologici sin dalle prime battute, ovverosia già dal rapporto rappresentazionale che la madre stabilisce con il bambino quando é ancora in utero. Il modo in cui bambino viene pensato, infatti, avrà già una prima influenza sul successivo rapporto reale. Altrettanto dopo la nascita, le primissime interazioni possono essere altamente informative rispetto agli esiti adulti. Una madre responsiva e sensibile ai bisogni del bambino sarà in grado di fornirgli aspettative positive sulla possibilità di essere amato e accolto in senso ampio nei suoi bisogni. Nel corso dei primi mesi la psiche si forgia attraverso l'accudimento e il soddisfacimento dei bisogni fisiologici. La gestione dell'alimentazione, dalle poppate al passaggio all'alimentazione solida é un paradigma essenziale di osservazione per la comprensione di come la psiche del bambino potrà insediarsi nel corpo. Il contenimento materno dei bisogni e il rispecchiamento del bambino come essere umano individuale determinerà in maniera decisiva il modo in cui il bambino organizzerà se stesso a livello psicologico nel mondo da adulto (Winnicott, 1945, 1965, 1971). Si può affermare dunque che i disturbi dell'alimentazione molto spesso hanno la loro origine esattamente qui, ovverosia nei modi in cui da neonati abbiamo appreso ad organizzarci rispetto ai bisogni fisiologici e all'ambiente dal caregiver di riferimento.

Diversi studi (Pignatelli et al. 2016) hanno confermato la prevalenza di un vissuto di trascuratezza infantile legato a un esito DCA in età adulta. La trascuratezza o negligenza si manifesta spesso in maniera meno evidente rispetto agli abusi ma può avere esiti cumulativi devastanti principalmente per lo sviluppo dell'identità nucleare, un tema strettamente inerente ai disturbi alimentari: dove c'è il sintomo alimentare possiamo trovare anche una descrizione della personalità e della sua formazione, il più delle volte unica e peculiare cioè che riflette la storia psicologica personale dell'individuo. "Per alcuni è addirittura sconosciuta persino l'esistenza di figure che accudiscano e aiutino; per altri è stato costantemente incerto il luogo dove tali figure potessero trovarsi. Per molti di più la probabilità che una figura che li accudiva reagisse aiutandoli è stata nella migliore delle ipotesi incerta, e nella peggiore nulla. Non vi è da sorprendersi se questi individui, una volta diventati adulti non credono alla possibilità che esista mai una figura veramente disponibile e fidata che si curi di loro. Ai loro occhi il mondo appare sconsolato e imprevedibile; ed essi reagiscono evitandolo e lottando contro di esso" (Bowlby 1973, La separazione dalla madre). I bambini trascurati sopravvivono come adulti con un senso di identità, valore di sè e senso di sicurezza fragile.

Non si tratta solo del cibo: poiché i Disturbi del Comportamento Alimentare sono una malattia psicologica, essi si innescano in un ambiente che favorisce l'instabilità emotiva e ne costituisce una metafora (simbolo). Ecco perché spesso risulta  fallimentare la decisione di semplicemente "smettere" (qualsiasi siano i sintomi); ciò di cui c'è bisogno è curare l'aspetto  emotivo, vale a dire le emozioni non regolate alla base di tutta la manipolazione del cibo. Questa è la prima e più importante cosa da sapere e ricordare sui disturbi alimentari per capire cosa sta succedendo e perché non si riesce a controllarlo. Spesso si cercano soluzioni rapide o semplicemente un nuovo piano dietetico. La psicoterapia aiuta a sciogliere i nodi degli stretti meccanismi di coping che sono stati costruiti emotivamente dal momento dell'insorgenza del disturbo intorno alle proprie metafore. Non esistono infatti soluzioni rapide per i disturbi alimentari, come d'altra parte per tutti gli altri tipi di disturbo psicologico. L'unica fretta che si dovrebbe avere è quella di imparare nuove modalità più salutari di gestire e quindi regolare le emozioni. Questa é possibilità sempre presente in una relazione terapeutica sicura.

Le complicanze fisiche più frequentemente associate ai disturbi alimentari sono quelle cardiovascolari, gastrointestinali e muscolo-scheletrico. Proprio poiché una delle caratteristiche più importanti dei DCA riguarda la scissione mente corpo, il sintomo psicologico viene gestito ed espresso attraverso il soma. Spesso insieme alla dismorfofobia, é presente una scarsa capacità di prendersi cura di sè in senso ampio (spesso associata al neglect infantile), con rigidità e inflessibilità nel giudizio negativo su di sè. I sintomi fisici dunque risultano paradossalmente come subordinati alla sofferenza e al dolore psicologico che in quel momento occupano la vita dell'individuo nella sua interezza, come uno schermo che la attraversa e che prende tutto lo spazio del pensiero. La vita verrà organizzata intorno alla gestione del sintomo perché il sintomo é anche un modo di distrarsi dal dolore e ne costituisce un simbolo. Le complicanze fisiche che si aggravano con il progredire del disturbo vengono poi perlopiù sottovalutate perché il sintomo é funzionale al mantenimento di un equilibrio generale e si inquadrano nell'ambito di una mancanza di cure generalizzata per cui quasi diventano "l'ultimo dei problemi". Per questo motivo insieme al supporto medico é indispensabile una figura psicoterapeutica di riferimento, che spesso potrà coordinarsi in un lavoro congiunto con il nutrizionista e le altre figure che si occupano di stabilizzare la salute del paziente. La richiesta di aiuto é fondamentale ed è il primo modo della persona per interrompere il meccanismo di base di gestione problematica della sofferenza. È il modo sano, diverso di poter dire: "Io mi prendo cura di me oggi, oggi mi prendo cura di me davvero, faccio qualcosa per me e non contro di me".

Le nostre emozioni sono parte integrante del comportamento alimentare. Da sempre il cibo é associato all'idea del conforto e della cura. Quando questi elementi mancano nella nostra vita, il bisogno affettivo può essere esternalizzato in una concretizzazione mediante il cibo del simbolo originario (quello che manca). In questo senso simbolo e metafora sono particolarmente pregnanti per i disturbi alimentari. L'organizzazione del sintomo infatti sarà strettamente correlata al vissuto personale di mancanza. Attorno alla mancanza ci si potrà organizzare con un rifiuto, una protesta, una ribellione, una domanda, una sfida. In linea generale la battaglia del sintomo vuole essere giocata in un rapporto ma finisce per diventare un discorso solitario che ammala la persona. Per questo motivo é necessario un rapporto terapeutico tale che fornendo una lente nuova per osservare insieme il sintomo possa abbracciare e riformulare i significati personali che si stanno mettendo in gioco e che rimangono incastrati nella loro ripetizione. Rispetto al sintomo infatti non é sufficiente una comprensione razionale, la terapia deve agire come una goccia che scava nella pietra delle convinzioni acquisite nelle relazioni passate in tutti gli anni trascorsi, e ripetute nel presente da relazioni traumatiche o che ripetono adattamenti disfunzionali
 
La guarigione avviene nell'ambito relazionale (si sperimenta, non si capisce). La comprensione razionale dura il tempo di questa lettura. La comprensione emotiva modifica le azioni e lo stile di vita perché ha cambiato il modo in cui ci sentiamo con gli altri (le azioni sono diverse perché é cambiato il sentimento e di conseguenza il pensiero, non viceversa). Il sintomo alimentare invece é vissuto tutto in solitudine. La mente isolata é una mente solitamente affaticata, stanca, che tende ad ammalarsi di impoverimento (la fame controllata, gestita, o incontrollabile, su cui ci si ossessiona è data dal vuoto e ciò che sta a indicare) e governa in questa maniera il cibo, così come le relazioni interpersonali.


mercoledì 25 gennaio 2017

“L'altro indispensabile” - Alla base dei meccanismi di rispecchiamento: la formazione dell'identità

 Amore è il fatto che tu sei per me 
il coltello col quale frugo dentro me stesso
Kafka


L’idea per la quale il Sé richiede un Altro per la sua definizione ha origini antiche.
Possiamo ricercare le origini di questa concezione, per fornire un inquadramento storico più completo, a partire dall’approccio filosofico della Fenomenologia di Hegel (1803-06; 1807) al Riconoscimento (Anerkennung) per cui: “L’autocoscienza raggiunge il suo appagamento solo in un’altra autocoscienza” (trad. it., cit., vol. I, p. 151). Prima di Hegel, e della sua teoria che include un Altro per conoscere la realtà fu Cartesio (1637) nel suo Discorso sul Metodo, a parlare di coscienza intesa come Io. Per Cartesio l’Io pensante (Cogito) determina la realtà e gli oggetti esterni sono solo sue rappresentazioni. Hegel mosse le sue intuizioni sul tema Sé/Altro mutuando da Hobbes (1651) le basi per la descrivere lo Stato moderno a partire dal superamento dello stato-di-natura. Nella guerra di tutti contro tutti secondo Hobbes (1651) si scatenano tre tipi di passioni: la competizione, la diffidenza e la gloria. La fondazione dello Stato di diritto richiede secondo Hegel (1817), il superamento di tale condizione a favore della Lotta per il Riconoscimento (Hegel, 1807). Prima di Hegel, fu Fichte (1794; 1796) ad occuparsi del tema del Riconoscimento Sé/Altro come base per la fondazione del diritto di Stato, tuttavia il suo pensiero era caratterizzato da un maggiore soggettivismo, che viene superato nel sistema teorico di Hegel. Nella Fenomenologia dello Spirito (Hegel, 1807), l’autore descrive tale dialettica – esemplificata nella costruzione servo-padrone – come l’incontro di due autocoscienze. La Lotta per il Riconoscimento, rappresenta il momento di sfida, ossia di conflitto tra le autocoscienze per affermare la propria indipendenza. Essa è innescata da un fraintendimento fondamentale, ovverosia che riconoscersi debba significare escludere l’Altro, fino ad uccidersi o ad uccidere. Viceversa il riconoscimento autentico avviene soltanto a patto che l’Altro sia incluso. Il prezzo del sacrificio dell’indipendenza è pagato dal servo per ottenere la possibilità di ingaggiarsi nella dinamica di riconoscimento, senza cui non è possibile la sua stessa esistenza: “La coscienza infelice è la coscienza di sé come dell’essenza duplicata e ancora del tutto impigliata nella contraddizione. Assistiamo così alla lotta contro un nemico, contro cui la vittoria è piuttosto una sottomissione: aver raggiunto un contrario significa piuttosto smarrirlo nel suo contrario” (Hegel, 1807). Le implicazioni di questa dinamica si complicano ulteriormente dal fatto che la dipendenza del servo è relativa, in quanto l’autonomia del padrone dipende dal suo lavoro e dal suo stesso riconoscimento. La risoluzione della Lotta avviene nei termini di quanto viene attualmente descritto come intersoggettività, ovverosia la possibilità reciproca di vedere riconosciuta la propria libertà, nell’indipendenza dell’Altro, ovverosia superare la dialettica del conflitto. Questa concezione verrà ripresa da Marx (1849) per descrivere il rapporto tra salariato e capitalista.
Anche Husserl (1931) ha inteso l’Altro come la base dell’intersoggettività: la possibilità di conoscere gli altri avviene soltanto attraverso sé stessi e superando la soggettività solipsistica mediante l’approccio empatico (Husserl, 1952): “se vi fosse la possibilità di accedere direttamente all’altro in ciò che gli è essenzialmente proprio, allora l’altro sarebbe meramente un momento dell’essenzialmente mio e, in definitiva, io e l’altro non saremmo che la medesima cosa” (HUA I, p. 139).
Nella concezione di Emmanuel Lévinas (1961) troviamo un approccio opposto, che ha contribuito a coniare l'utilizzo contemporaneo dell’Altro come radicalmente distinto. Secondo Lévinas, l’Altro è antecedente al Sé e la sua semplice presenza equivale ad una richiesta che viene formulata prima ancora che la persona possa materialmente rispondere sia essendo d’aiuto che ignorando la richiesta formulata. In questo senso l’Altro assume gli stessi connotati dell’Altro concepito da Sartre (1943): ‘L'enfer, c'est les autres’ nell’accezione che trova una buona interpretazione in un versetto della Divina Commedia di Dante: ‘Tu vuo' ch'io rinovelli disperato dolor che 'l cor mi preme/ già pur pensando, pria ch'io ne favelli’. E’ interessante osservare come lo stesso approccio viene presentato nel recente lavoro di George Atwood (2012) The Abyss of madness per illustrare le origini dei processi dissociativi, che possono essere considerati modelli di disconoscimento dell’umanità dell’essere nella continuità spazio-temporale. Sartre (1943) ha concepito l’Altro come uno specchio che rimanda al Sé: “E tuttavia io lo sono, non lo respingo mai come un’immagine estranea, ma mi è presente come un me che io sono senza conoscerlo, perché lo scopro solo nella vergogna (in certi casi, nell’orgoglio). Sono la vergogna o la fierezza che mi rivelano lo sguardo altrui e me stesso al limite dello sguardo; che mi fanno vivere, non conoscere, la situazione di guardato”. Questa idea e quella dell’incontro faccia a faccia di Lévinas (lo sguardo dell’altro) la cui prossimità o distanza sono fortemente sentiti, assumono ad ogni modo in alcuni punti l’idea espressa anche da Derrida (1998) a proposito dell’impossibilità di una pura presenza dell'Altro (l’Altro potrebbe non può essere pura alterità). Lévinas parla dell'Altro in termini di ‘insonnia’ e ‘veglia’. La condizione d’incontro secondo l’autore produce una sorta di estasi, che rimane per sempre aldilà di ogni tentativo di cattura pieno; questa condizione è indeterminabile (o infinita). Anche se si assassinasse l’Altro, la sua alterità rimarrebbe: essa non viene in nessun caso negata e non può essere controllata.

martedì 29 marzo 2016

Un artista del digiuno (Kafka, 1922)




La gabbia 
In questi ultimi decenni l’interesse pei digiunatori è molto diminuito. Mentre prima meritava metter su spettacoli di questo genere per proprio conto, oggi sarebbe assolutamente impossibile. Erano altri tempi quelli. 
Tutta la città si occupava allora del digiunatore; a ogni giorno di digiuno aumentava l’interesse del pubblico; tutti volevano vedere il digiunatore, almeno una volta al giorno; e negli ultimi giorni c’erano perfino degli abbonati che sedevano intere giornate davanti alla sua piccola gabbia; anche di notte avevano luogo delle visite alla luce delle fiaccole, per aumentare l’effetto; quando il tempo era bello la gabbia veniva trasportata all’aperto, e allora erano specialmente i bambini a cui veniva mostrato il digiunatore; mentre per gli adulti costituiva spesso solo uno spasso, a cui si partecipava perché era di moda, i bimbi lo guardavano ammirati a bocca aperta, tenendosi per precauzione per la mano, mentre egli, pallido, nella sua maglia nera, con le costole esageratamente sporgenti, sdegnando perfino una poltrona, se ne stava seduto sopra paglia sparsa qua e là, facendo a volte un cenno cortese con la testa, a volte rispondendo alle domande con un sorriso sforzato o allungando un braccio attraverso le sbarre per far palpare la sua magrezza; e finiva poi per sprofondarsi in se stesso senza occuparsi più di nessuno, neppure del battito dell’orologio – così importante per lui unico mobile della sua gabbia, per guardare fissamente cogli occhi semichiusi dinanzi a sé, succhiando di quando in quando un sorso d’acqua da un minuscolo bicchierino, per inumidirsi le labbra. 

Gli spettatori del digiunatore secondo il fumettista Crumb)

Oltre agli spettatori consueti e mutevoli c’erano anche dei guardiani fissi, scelti dal pubblico, che per una strana coincidenza eran di solito macellai e, sempre a tre per volta, avevan il compito di sorvegliare il digiunatore giorno e notte, perché, clandestinamente, non riuscisse a nutrirsi in qualche modo. Ma era solo una formalità, adottata per tranquillità della folla, poiché gli iniziati sapevano bene che il digiunatore, durante il periodo, non avrebbe toccato nessuna qualità di cibo, a nessun costo, neppure se vi fosse stato costretto; lo impediva il rispetto verso la sua arte. 
Ma naturalmente, non tutti i guardiani potevano intendere ciò; a volte si formavano dei gruppi di sorveglianti notturni che compivano il loro dovere molto superficialmente, si ritiravano di proposito in un cantuccio lontano, per darsi tutti a giuocar a carte, con l’intenzione evidente di dare al digiunatore il modo di fare un piccolo spuntino che, a loro parere, avrebbe potuto consumare ricorrendo a qualche segreta riserva. 

Per il digiunatore nulla era più penoso di questi guardiani; lo facevano diventare melanconico, gli rendevano terribilmente difficile il digiuno; a volte riusciva a vincere la sua debolezza e cantava durante la veglia finché aveva fiato, per mostrar a quella gente quanto ingiustamente sospettavano di lui, ma serviva a poco, perché quelli invece lo ammiravano per la sua abilità di mangiare perfino mentre cantava. Preferiva di molto quei guardiani che si sedevano proprio vicino alla gabbia e, non contenti della fioca illuminazione notturna della sala, lo illuminavano con lampadine elettriche tascabili, che l’impresario metteva a loro disposizione. 
Quella luce cruda non lo disturbava per nulla; tanto, dormire non poteva, mentre gli riusciva di appisolarsi un poco sempre, con qualsiasi illuminazione e a qualsiasi ora, anche se la sala era piena di gente e di fracasso; egli era dispostissimo a passare la notte con quei guardiani senza dormire mai; era pronto a scherzare con loro, a raccontare loro qualche storia della sua vita errante, ad ascoltare a sua volta i loro racconti, e tutto soltanto per tenerli svegli, per convincerli continuamente che non c’era nulla da mangiare nella gabbia e che egli digiunava come nessuno di loro avrebbe potuto fare. La sua felicità toccava il colmo, però, quando faceva giorno e, a sue spese, veniva portata loro un’abbondantissima colazione, su cui si gettavano con l’appetito proprio delle persone sane dopo una faticosa veglia notturna. 




C’era, è vero, della gente che vedeva in questa colazione una scandalosa circonvenzione dei guardiani da parte sua, ma era un andar troppo oltre, e quando si chiedeva a quelle persone, se fossero disposte ad assumersi la veglia notturna senza colazione, per andare in fondo alla cosa, si dileguavano, pur restando fedeli ai loro sospetti. Questo d’altronde faceva parte di quei sospetti che circondavano comunque l’arte del digiuno. Nessuno infatti, era in condizione di passar tutti quei giorni e quelle notti ininterrottamente come guardiano accanto al digiunatore, e nessuno dunque poteva sapere, per propria esperienza, se il digiuno veniva osservato davvero senza interruzioni, in maniera assoluta; solo il digiunatore in persona era in grado di saperlo e di essere così anche lo spettatore pienamente soddisfatto del suo digiuno.
Egli invece non era soddisfatto mai, per un’altra ragione: forse non era dimagrito per il digiuno tantoché alcune persone, pur dolenti, erano costrette a rinunciare a quello spettacolo perché non sopportavano la sua vista ma piuttosto perché non era soddisfatto di sé. Egli solo sapeva e nessuno iniziato lo sospettava quanto fosse facile il digiunare. Era la cosa più facile del mondo. Non lo nascondeva neanche, ma non gli si prestava fede e, nel migliore dei casi, lo si riteneva modesto, più spesso avido di pubblicità o addirittura un imbroglione, a cui il digiunare certo era facile, perché sapeva renderselo tale, e aveva anche la faccia tosta di lasciarlo intendere. Tutto questo ormai l’aveva dovuto sopportare, e nel corso degli anni ci s’era perfino abituato, ma nell’intimo questo malcontento lo rodeva sempre, tant’è vero che mai, dopo nessun periodo di digiuno questa testimonianza non gli si poteva negare aveva lasciato la gabbia spontaneamente. Come termine massimo del digiuno l’impresario aveva fissato quaranta giorni, non gli permetteva di superare mai quel limite, neppure nelle metropoli ... e non senza ragione. L’esperienza insegnava che sino a quaranta giorni si poteva aumentare gradatamente l’attenzione di una città con una pubblicità sempre più intensa; più a lungo il pubblico non rispondeva più; si notava una sensibile diminuzione dell’affluenza; c’era naturalmente qualche divario, sotto quest’aspetto, tra un paese, tra una città e l’altra, ma la regola era che quaranta giorni costituissero il limite massimo. 


Il quarantesimo giorno la porta della gabbia inghirlandata veniva aperta, una folla di spettatori entusiasmati gremiva l’anfiteatro, una banda militare suonava, due medici entravano nella gabbia per fare le misurazioni di rito al digiunatore, con un megafono venivano diffusi tra la gente i risultati dell’esame medico, e finalmente arrivavano due giovani signore, felici di esser state designate dalla sorte, per aiutare il digiunatore a uscire dalla gabbia, scendere due scalini e arrivare sino al tavolino ove era imbandito un pranzo da malati, preparato con cura. A questo punto il digiunatore si ribellava sempre. Porgeva di buon grado, sì, le braccia scheletriche alle signore chine su di lui, che gli tendevano le mani pronte per aiutarlo, ma non si voleva alzare. 
Il circo rappresentato da Juan Esplandiu

Perché smettere il digiuno proprio ora, dopo quaranta giorni? Avrebbe resistito ancora a lungo per un tempo illimitato; perché farlo smettere proprio ora ch’era nel punto culminante del digiuno, anzi non c’era ancora arrivato? Perché defraudarlo della gloria di continuare ancora a digiunare, di diventare non solo il più grande digiunatore di tutti i tempi questo, forse, lo era già ma di superare perfino se stesso sino a un punto incredibile, perché sentiva che le sue possibilità di digiunare erano addirittura illimitate? Perché quella folla che dimostrava di ammirarlo tanto, aveva tanta poca pazienza con lui? Se resisteva lui a digiunare ancora, perché non voleva resister lei? E levava lo sguardo verso gli occhi di quelle signore, apparentemente così gentili, in realtà così crudeli, scuotendo la testa troppo pesante per il suo debole collo. E poi era stanco, se ne stava bene lì nella paglia e doveva invece rizzarsi in tutta la sua lunghezza, per andare verso quel cibo, il cui solo pensiero gli procurava una nausea, che solo per riguardo alle signore cercava faticosamente di soffocare. Ma poi avveniva quel che capitava sempre. Interveniva l’impresario e senza dir una parola – la musica non permetteva di scambiarne neppure due levava le braccia sul digiunatore, come se invitasse il cielo a guardare una buona volta sulla paglia la sua opera, quel povero martire e questo il digiunatore lo era, ma in tutt’altro senso, - afferrava il poveretto per la esile vita, facendo credere, con un eccesso di precauzione, di aver a che fare con un oggetto molto fragile, per consegnarlo poi non senza averlo di nascosto scosso un poco, facendogli così oscillare in qua e in là senza controllo le gambe e il busto alle signore, che erano intanto mortalmente impallidite. 


Da quel momento il digiunatore tollerava tutto; la testa pendeva sul petto, come se fosse rotolata lì per caso, fermandosi per una qualche ragione inspiegabile; il corpo era tutto incavato; le gambe con le ginocchia serrate per istinto di conservazione, raspavano il suolo come se non fosse quello vero, ma lo stessero, a quel modo, soltanto cercando; e tutto il peso, per quanto modesto del suo corpo, gravava sopra una delle signore, che, cercando aiuto intorno e tutta ansimante – non s’era certo immaginata così quell’incarico onorifico – prima allungava il collo quanto era possibile, per preservare il viso dal contatto col digiunatore, ma poi, vedendo che non ci riusciva e che la sua più fortunata collega, non le veniva in soccorso, ma si contentava di reggere tremando davanti a sé la mano del digiunatore un mucchietto d’ossa – scoppiava in lacrime tra le risate di soddisfazione della sala, per venir subito sostituita da un inserviente pronto già da tempo. Poi veniva il pasto, di cui l’impresario faceva ingerire qualche boccone al digiunatore caduto in un dormiveglia simile a un deliquio, mentre parlava allegramente, per distrarre l’attenzione del pubblico dallo stato pietoso in cui il poveretto si trovava; poi veniva ancora un brindisi al pubblico e l’impresario dava a intendere che glielo aveva sussurrato il digiunatore stesso; la banda sottolineava tutto con una rumorosa fanfara finale, la folla si disperdeva e nessuno aveva più diritto di essere scontento dello spettacolo, tranne il digiunatore, lui soltanto sempre. 


Così aveva vissuto per molti anni con brevi e regolari intervalli di riposo, in mezzo a un apparente benessere, rispettato dal mondo, eppur quasi sempre immerso in una cupa malinconia, che diveniva sempre più cupa perché nessuno riusciva a prenderla sul serio. 
E come, d’altronde, consolarlo? Che poteva ancora desiderare? E se per caso capitava una volta una persona di buon cuore, che lo compativa e gli voleva spiegare come quella malinconia probabilmente venisse dal digiuno, poteva anche accadere, specie quando il digiuno era già molto lungo, che il digiunatore rispondesse con un impeto di furore e, tra lo spavento di tutti, si mettesse a scuotere le sbarre della gabbia come una bestia. 
Ma in casi simili l’impresario ricorreva a una punizione, che usava di preferenza. Scusava il digiunatore dinanzi al pubblico radunato, ammetteva che si poteva perdonare il contegno del digiunatore solo pensando a un’irascibilità, provocata dalla fame, e solo difficilmente immaginabile da chi era sazio; veniva poi, come di conseguenza, a parlare, per spiegarla nello stesso senso, dell’asserzione del digiunatore di poter prolungare il digiuno molto più di quel che già non facesse; lodava il nobile intento, la buona volontà, la grande abnegazione, contenuti certo anche in questa asserzione; ma tentava poi subito di svalutarla mostrando semplicemente delle fotografie, subito messe in vendita, in cui si vedeva il digiunatore giunto al quarantesimo giorno, in un letto, quasi esausto dalla debolezza. 

L'impresario

Questa maniera di storcere la verità, per quanto ben nota al digiunatore, riusciva pur sempre a snervarlo ogni volta ed era veramente troppo per lui. Quello che era la conseguenza di un’anticipata fine del digiuno, veniva presentata qui come la causa! Era impossibile lottare contro una simile incomprensione, contro questa universale incomprensione. Ogni volta era rimasto ad ascoltare ansiosamente e fiducioso, attaccato alle sbarre, l’impresario, ma quando comparivano le fotografie, abbandonava ogni volta la gabbia per ricadere con un sospiro sulla paglia, mente il pubblico tranquillizzato poteva riavvicinarsi e guardarlo. 

I testimoni di queste scene, quando ci ripensavano qualche anno dopo, non riuscivano quasi più a comprender sè stessi, perché nel frattempo era intervenuto quel mutamento cui s’è già accennato; ed era sopraggiunto quasi d’improvviso; ci sarà stata certo qualche ragione profonda; ma chi si prendeva la briga di andar a cercarla? Comunque un bel giorno il digiunatore, così viziato dal pubblico, si vide abbandonato dalla folla desiderosa di divertirsi, che affluiva ormai ad altri spettacoli. 
Un’ultima volta l’impresario se lo trascinò dietro in fretta per mezza Europa, per vedere se qua e là non rispuntasse l’antico entusiasmo; ma tutto fu vano; come per una segreta intesa si era destata una vera avversione per il digiuno come spettacolo. 
Naturalmente questo fenomeno non s’era potuto verificare in realtà da un momento all’altro e ora tornavano in mente, in ritardo, alcuni segni precursori di cui, a suo tempo, nell’ebbrezza del successo, non s’era tenuto abbastanza conto, né sufficientemente ostacolata l’apparizione; ma era troppo tardi ormai per combatterli in qualche modo. Era bensì certo che sarebbe tornato un giorno l’ora fortunata del digiuno, ma non era sufficiente conforto per quelli che vivevano allora. 
Cosa doveva fare il digiunatore? Uno, che s’era visto acclamare da migliaia di persone, non poteva esibirsi nei baracconi delle piccole fiere di campagna; per mettersi a fare un altro mestiere il digiunatore non solo era troppo vecchio, ma soprattutto troppo fanaticamente attaccato alla sua arte. Così egli congedò l’impresario, compagno di una carriera senza pari, e subito si fece scritturare da un gran circo; per riguardo alla sua suscettibilità non volle neppure vedere le clausole del contratto. 


Un gran circo con quella marea di persone, di animali e di arnesi, che si equilibrano e si completano l’un con l’altro, può sempre utilizzare chicchessia, in qualunque momento, anche un digiunatore, naturalmente purché abbia pretese relativamente modeste; inoltre, in questo caso particolare, non era soltanto lui a essere scritturato, ma anche il suo nome da tempo ormai celebre; anzi per la singolarità di quest’arte, che con l’aumentare degli anni non soffriva diminuzioni, non si poteva neanche dire che in questo caso un artista ormai invecchiato, non più nel pieno splendore dei suoi mezzi, si fosse rifugiato nel tranquillo impiego di un circo, ché anzi il digiunatore assicurava, e gli si poteva credere, che avrebbe continuato a digiunare come prima; affermava persino che, se lo lasciavano fare – e gli fu promesso senz’altro – avrebbe proprio ora stupito il mondo e con ragione; un’asserzione, questa, che, considerando l’umore del tempo – e il digiunatore nel suo entusiasmo se ne dimenticava facilmente suscitava nella gente del mestiere solo un sorriso. 


In fondo anche il digiunatore s’era reso conto del reale stato delle cose e considerò quindi naturale che non lo si mettesse con la sua gabbia nel mezzo della pista, come un numero sensazionale, ma fuori, in un posto del resto comodamente accessibile, in vicinanza delle stalle. Grandi cartelli variopinti incorniciavano la gabbia, spiegando al pubblico cosa c’era da vedere in quel luogo. Quando, durante le pause dello spettacolo, la gente s’affollava verso le stalle per vedere le bestie, era quasi inevitabile che passasse davanti al digiunatore e si soffermasse un attimo davanti a lui; forse c’era chi si sarebbe trattenuto ancora più a lungo se non ci fossero stati, nello stretto corridoio, quelli che venivano dietro e non comprendevano la ragione di quell’indugio sulla via che portava alle ambite stalle, rendendo così impossibile una visita più prolungata e pacata. Questa era anche la ragione per cui il digiunatore tremava al pensiero di queste ore di visita, di cui pure era ansioso come dello scopo della sua vita. Nei primi tempi non vedeva l’ora che queste pause dello spettacolo arrivassero; la vista di quella massa ondeggiante di gente, che s’avvicinava, l’aveva incantato, sinché non s’era presto convinto – anche la più tenace, quasi consapevole illusione non aveva resistito all’esperienza – che intenzionalmente erano tutti, senza eccezione, dei visitatori delle stalle. Lo spettacolo della gente che s’avvicinava da lontano, rimase la sensazione migliore, perché appena era giunta vicino a lui, egli veniva come sopraffatto dal gridìo e dalle dispute di due gruppi che si formavano di continuo: uno di coloro, che volevano guardarselo comodamente e presto divenne per il digiunatore il gruppo più sgradito ma non per una vera comprensione, bensì per capriccio e puntiglio; e un altro di coloro, che prima di tutto volevan giungere alle stalle. 

Passato il grosso del pubblico, venivano poi i ritardatari e proprio questi, cui nessuno impediva di fermarsi quanto volevano, gli passavano dinanzi, allungando il passo, senza quasi degnarlo di un’occhiata, per arrivare in tempo a veder gli animali. E non era davvero molto frequente il caso fortunato di un padre di famiglia che, arrivando lì coi figlioli, accennava col dito al digiunatore, spiegando loro minuziosamente di che si trattasse, ricordando i tempi andati, in cui aveva assistito a esibizioni simili ma molto più grandiose; i bambini, scarsamente preparati su questo argomento dalla scuola e dalla vita che poteva significare per loro patir la fame? continuavano a starsene lì, senza capire, ma nello splendore dei loro occhi incuriositi pareva di intravedere il riflesso di tempi nuovi, lontani ancora e più caritatevoli. Forse, si diceva a volte il digiunatore, tutto sarebbe andato meglio se non lo avessero collocato tanto vicino alle stalle. Così la gente aveva una scelta troppo facile, per tacere poi che le esalazioni delle stalle, l’irrequietezza delle bestie nella notte, il passaggio dei pezzi di carne cruda per le belve, i ruggiti che ne accompagnavano i pasti lo disturbavano molto e lo deprimevano continuamente. Non osava però rivolgersi alla direzione del circo per protestare; in fondo doveva alla presenza delle bestie quella folla di spettatori, tra cui poteva pur capitarne di quando in quando uno destinato a lui e chissà dove l’avrebbero cacciato, se richiamava l’attenzione della direzione sopra di sé e quindi anche sul fatto che, in conclusione, egli costituiva solo un ostacolo sulla via che conduceva alle stalle. 

E' ancora qui! - Stai ancora digiunando? Non smetti mai? - Perdonatemi...Ho sempre voluto che le persone ammirassero il mio digiunare...  

Un piccolo ostacolo, però, che si faceva sempre più piccolo: ci si abituò alla stranezza, in tempi come i nostri, di reclamare l’attenzione del pubblico sopra un digiunatore, e con questa abitudine il suo destino fu segnato. Poteva digiunare quanto voleva ... ed egli lo faceva; ma nulla lo poteva più salvare, nessuno più si curava di lui. Si provi qualcuno a spiegare l’arte del digiuno! A chi non la conosce, non si può darne un’idea. I bei cartelloni con le iscrizioni divennero sudici e illeggibili; e vennero strappati via e a nessuno venne in mente di sostituirli; la piccola tabella poi, col numero dei giorni di digiuno compiuti, che nei primi tempi veniva rinnovata ogni giorno, rimase per lungo tempo sempre la stessa, poiché dopo le prime settimane al personale del circo anche quella piccola fatica era parsa troppo; e così il digiunatore continuava a digiunare, come aveva sognato un tempo, e gli riusciva senza sforzo come aveva predetto, ma nessuno contava più i giorni, nessuno, nemmeno il digiunatore, sapeva quanto alta era ormai la sua prova e il suo cuore si sentì oppresso. E se una volta, in quel tempo, qualche sfaccendato si fermava dinanzi alla gabbia, considerava con ironia la cifra altissima e parlava di imbroglio, era, in questo senso, la più stupida menzogna che l’indifferenza e un’innata malignità avevan potuto inventare; poiché non era il digiunatore ad ingannare egli lavorava onestamente ma il mondo lo frodava del premio che si meritava. 

E passarono ancora molti giorni ed anche questo finì. Un giorno la gabbia dette nell’occhio a un custode, che chiese agli inservienti perché si tenesse lì quella gabbia ancora buona ad usarsi, senza utilizzarla, con tutta quella paglia fradicia; nessuno lo sapeva, sinché uno, col soccorso dei cartelli, non si ricordò del digiunatore. La paglia venne smossa con delle stanghe e vi si trovò il digiunatore. «Digiuni dunque ancora?» chiese il custode, «quando ti deciderai a smettere?». «Perdonatemi voi tutti» sussurrò il digiunatore; ma soltanto il custode che teneva l’orecchio accosto alle sbarre, lo intese. «Ma certo» disse il custode, toccandosi la fronte con un dito per accennare al personale lo stato in cui si trovava il poveretto, «ti perdoniamo.» «Ho voluto sempre che ammiraste il mio digiuno» continuò il digiunatore. «E noi, infatti, ne siamo ammirati» disse condiscendente il custode. «E invece non dovete ammirarlo» replicò il digiunatore. «E allora non lo ammireremo» rispose il custode, «ma poi perché non dobbiamo farlo?». «Perché sono costretto a digiunare» continuò il digiunatore. «Ma senti un po’» disse il custode «perché non ne puoi fare a meno?». «Perché io» disse il digiunatore, sollevando un poco la sua piccola testa e parlando con le labbra appuntite come per un bacio proprio all’orecchio del custode, «perché non riuscivo a trovar il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato non avrei fatto tante storie e mi sarei messo a mangiare a quattro palmenti come te e gli altri». Furono le sue ultime parole, ma nei suoi occhi spenti si leggeva ancora la ferma, anche se non più superba convinzione di continuare a digiunare. 
Lo ammiriamo! - Non dovreste. Perchè non ho scelta...Devo digiunare
«E ora fate ordine!» disse il custode; e il digiunatore fu sotterrato insieme alla paglia. Nella gabbia fu messa poi una giovane pantera. E vedere nella gabbia sì a lungo deserta dimenarsi quella fiera fu un sollievo per tutti, anche per gli spettatori più ottusi.
Non le mancava nulla. Il cibo che le piaceva, glielo portavano senza tante storie i guardiani; non sembrava neppure che la belva rimpiangesse la libertà; quel nobile corpo, perfetto e teso in ogni parte sin quasi a scoppiarne, pareva portare con sé anche la libertà; sembrava celarsi in qualche punto della dentatura; e la gioia di vivere emanava con tanta forza dalle fauci, che agli spettatori non era facile resistervi. Ma si dominavano, circondavano la gabbia e non volevano saperne di andar via. 

Racconti, a cura di Ervino Pocar, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1970

mercoledì 17 dicembre 2014

Lo sviluppo dell'Io nelle identificazioni di gruppo (radici teoriche in Freud, 1921)


“Se ricevo il gesto di tenerezza nella sfera della domanda, io sono appagato: 
quel gesto non è forse come un miracoloso condensato della presenza? 
Ma se invece lo ricevo (e ciò può essere simultaneo) nella sfera del desiderio, 
io sono inquieto: la tenerezza, a buon diritto, non è esclusiva; 
io devo perciò ammettere che ciò che ricevo, anche altri lo ricevono 
(talvolta mi è anzi dato di vederlo). 
Dove ti dimostri tenero, là individui il tuo plurale”
 (Barthes, 1977, Frammenti di un discorso amoroso)

Skins, la serie inglese culto è andata in onda la prima volta il 25 gennaio 2007 sul canale E4.

Nell’opera Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), Freud affronta il problema della relazione dell’individuo sia con l’Altro che all’interno del gruppo e della società. Freud afferma che l’Altro è sempre un “modello, un oggetto, amico o nemico” e definisce la natura della relazione oggettuale in contrapposizione ai fenomeni narcisistici che vengono realizzati indipendentemente da altre persone.
Freud affronta il tema della relazione gruppale: “Un gruppo si presenta come un insieme d’individui che hanno tutti sostituito il loro ideale dell’Io con lo stesso oggetto, il che porta all’identificazione del proprio Io”. Il gruppo può essere fondato secondo l’autore dalla mancanza d’indipendenza e iniziativa da parte dell’individuo. Freud cita Trotter (1916) che fa derivare i fenomeni psichici della massa da un istinto gregario, innato negli uomini e negli animali. Questo tipo d’istinto è in relazione alla pluricellularità e alla teoria della libido; esso è primario e indecomponibile. L’individuo si sente incompleto quando è solo, il contrasto con il gruppo equivale alla separazione da esso e ciò viene per questo motivo evitato. Per Trotter gli istinti primari sono: conservazione, nutrizione, istinto sessuale e gregario. Quest’ultimo può essere in contrasto con gli altri. La rimozione in tale contesto deriva dal senso di colpa che consente la possibilità di aggregazione (al contrario dell’antisocialità). L’istinto gregario tuttavia non è primario quanto l’istinto di conservazione e l’istinto sessuale. L’istinto di conservazione potrebbe essere uno spunto su cui riflettere ulteriormente: in cosa consiste di fatto? La paura che il bambino prova quando è solo per Freud  (1921) è desiderio insoddisfatto della madre che diventa angoscia. Essa non si calma con l’apparizione di un qualunque uomo, anzi può essere provocata dall’apparizione di un estraneo. 

Queste descrizioni ricordano molto la teoria bowlbiana dell’attaccamento (Bowlby, 1969, 1973, 1980). Il bambino però secondo Freud (1921) nasce privo di tale istinto; esso si crea nella nursery come effetto del rapporto con i genitori e come risultato della gelosia verso il fratello minore. Tale gelosia, una volta superata andrebbe secondo l’autore a creare il senso di comunità. Lo spirito di gruppo deriva pertanto dal superamento della gelosia. La socialità pertanto riguarda la trasformazione di un sentimento ostile in un “attaccamento positivo”, ovverosia in un’identificazione.

Freud (1921) in questo caso corregge l’affermazione di Trotter (1916) circa l’uomo come animale gregario, esso è invece un animale di un’orda, cioè un elemento costitutivo di un’orda guidata da un capo. Per Freud (1921) si distingue quindi una psicologia individuale e una di gruppo. Il capo del gruppo è libero, ha pensiero proprio forte e indipendente, la sua volontà non ha bisogno di essere rafforzata da quella degli altri. Egli è simile al Superuomo di Nietzsche (1883).
Come si sviluppa l’Io nelle identificazioni con il gruppo e in relazione ad un capo potente? L’individuo può ottenere diverse identificazioni in relazione a vari gruppi di cui fa parte, inoltre la rinuncia dell’ideale dell’Io in relazione all’ideale collettivo non è uguale in tutti i casi: tale scissione talvolta può coesistere, insieme al narcisismo conservato del soggetto. Per alcuni l’istinto gregario deriva dall’incarnazione del capo del proprio ideale dell’Io, mentre per altri, per i quali tale incarnazione non è completa, l’aggregazione avviene per identificazioni o mediante la suggestione. In questo passaggio dello sviluppo dell’Io rispetto al gruppo di Freud, possiamo rintracciare alcuni meccanismi di formazione della personalità secondo identificazioni veicolate dal gruppo, che verranno poi ampiamente descritte da Erickson (1982) nella disamina sulla formazione dell’identità in adolescenza. Freud spiega che il differenziarsi nel gruppo può produrre una difficoltà nel funzionamento psichico; causarne arresto o malattia. La separazione dell’Io dall’ideale dell’Io, non può durare a lungo senza generare uno scompenso. Quando Io e ideale dell’Io coincidono si ha sensazione di trionfo, quando sono in tensione, emerge il senso di colpa e di inferiorità. L’amore respinto ad esempio, diventa malinconia nel soggetto perché i rimproveri rivolti all’oggetto abbandonato ricadono sul .
Il bambino secondo Freud si lega agli altri mediante la deviazione della pulsione sessuale, che è l’unica reale spinta al legame. La tenerezza e l’attaccamento affettivo derivano pertanto dalla rimozione della pulsione sessuale. Le tendenze sessuali secondo Freud sono contrarie all’istinto gregario. Queste affermazioni di fatto sembrano essere spiegate più esaustivamente dalla concezione della motivazione complessa all’attaccamento di Lichtenberg (2012), ma possono essere apprezzate in quanto rivelano un Freud paradossalmente “relazionale”.

lunedì 24 marzo 2014

Donald W. Winnicott: stralcio da "Comunicare e non comunicare: studio su alcuni opposti" (1962) -


"Il gioco non è di fatto una questione di realtà interna, e neppure una questione di realtà esterna. Se il gioco non è né al di dentro, né al di fuori, dov'è? Fui vicino alla idea che esprimo nel mio lavoro La capacità di star da solo (1968b), in cui dissi che all'inizio il bambino è solo soltanto in presenza di qualcuno. Assistiamo all'impiego che un bambino fa di un oggetto transizionale, il primo processo di non-me e assistiamo al tempo stesso al primo uso che fa il bambino di un simbolo e la prima esperienza di gioco" (Gioco e realtà, 1971) .

"Nel corso della stesura di questo lavoro, mi sono trovato a sostenere il diritto di non comunicare. Questa era una mia intima protesta contro la spaventosa fantasia di essere sfruttato all'infinito, ovverosia contro la fantasia di essere mangiato o inghiottito, o ancora, contro la fantasia di essere scoperto.
Secondo me nella persona sana c'è un nucleo della personalità che corrisponde al vero Sè, questo nucleo non comunica mai con il mondo degli oggetti percepiti e il singolo individuo sa che esso non deve mai essere in comunicazione con la realtà esterna o influenzato da questa. Sebbene le persone sane comunichino e godano di questo comunicare, è pure vero l'altro fatto, ossia che ogni individuo è isolato, costantemente non comunicante, costantemente ignoto, di fatto non scoperto. Al centro di ogni persona c'è un elemento incomunicato, inviolabile, che è sacro e va preservato.
Il problema è: come stare isolato senza dover perciò essere distaccato? La risposta potrebbe venire dalle madri che possono comunicare con i loro piccoli solo nella misura in cui essi sono per loro oggetti soggettivi. Nel momento in cui gli infanti cominciano a percepire obiettivamente le madri, essi hanno già appreso a dominare diverse tecniche di comunicazione indiretta, la più evidente delle quali è il linguaggio. Esiste tuttavia un periodo transizionale, che mi ha particolarmente interessato, nel corso del quale si presentano oggetti e fenomeni transizionali che cominciano a fondare nel bambino l'uso dei simboli.
Secondo me, una condizione importante per lo sviluppo dell'Io sta in questa zona della comunicazione dell'individuo con fenomeni soggettivi, che sola dà la sensazione del reale. Nelle circostanze più favorevoli ha luogo l'accrescimento e il bambino possiede ora tre linee di comunicazione: la comunicazione che silenziosa per sempre, la comunicazione esplicita, indiretta e piacevole, e questa terza o intermedia forma di comunicazione che dal gioco si diffonde in esperienze culturali di ogni tipo.
La comunicazione silenziosa è legata al concetto del narcisismo primario? Le idee che siamo venuti esponendo hanno una portata pratica: esse ci suggeriscono che nel nostro lavoro dobbiamo tener conto del fatto che la non comunicazione del paziente può essere un contributo positivo, e ci impongono di chiederci se la nostra tecnica permette al paziente di comunicarci che non comunica. Il paziente può comunicare questo, solo se noi siamo pronti a cogliere il segnale con cui ce lo comunica e sappiamo distinguerlo dal segnale del disagio legato ad un'impossibilità a comunicare. In quanto stiamo dicendo c'è riferimento al concetto di essere solo in presenza di qualcuno, condizione che costituisce anzitutto un evento naturale della vita infantile e che in seguito è subordinata all'acquisizione di una  capacità di ritirarsi senza perdere l'identificazione con ciò da cui si è ritratti. Questa capacità si manifesta anche sotto forma di capacità di concentrarsi su un compito.
Ho cercato di dimostrare l'esigenza di riconoscere questo aspetto della salute: il Sè centrale non comunicante, immune per sempre dal principio di realtà, e silenzioso per sempre. Qui la comunicazione non è non-verbale; è assolutamente personale, come la musica delle sfere; essa rientra nell'esser vivo. E nello stato di salute, è da questo che sorge naturalmente la comunicazione.
La comunicazione esplicita è piacevole e implica tecniche estremamente interessanti, compreso il linguaggio. I due estremi, la comunicazione esplicita che è indiretta e la comunicazione silenziosa o personale, che fa sentire reali, hanno ciascuna il proprio costo, e nella zona culturale intermedia esiste per molti, ma non per tutti, una modalità di comunicazione che è un compromesso quanto mai prezioso".

venerdì 7 marzo 2014

Identità in adolescenza e comportamenti a rischio



Immagine tratta dal film "Christiane F. - Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino" (in tedesco Wir Kinder vom Bahnhof Zoo) Al concerto di David Bowie, insieme a due amici, Pollo e Bernd, Christiane decide di sniffare eroina per la prima volta. Ha 13 anni. Il film è tratto dalla vera storia di Christiane Vera Felscherinow.


Nel corso del ciclo di vita l’individuo sperimenta momenti di continuità e cambiamento volti a  favorire il processo di costruzione dell’identità. Tale sviluppo avviene per stadi. Ogni stadio è caratterizzato da uno specifico compito evolutivo che potrà produrre un esito positivo o negativo, a seconda di come verrà gestito. Durante l’adolescenza l’identità inizia a stabilirsi nel momento di crisi normativa, caratterizzato solitamente da un certo grado di confusione che, una volta risolta, lascerà il posto all’identità nucleare definita (Erickson, 1982).

Adolescenza e trasgressione sono dunque intimamente legate: per crescere un adolescente deve sfidare e mettere in discussione le regole che gli adulti gli hanno insegnato; per poterle fare proprie, modificarle o rifiutarle. Le norme si configurano come abitudini impartite dai genitori sin dall’infanzia nel corso delle interazioni volte alla regolazione degli stati fisiologici di fame/sonno/attivazione/interazione (Stern, 1985). Con la crescita la regolazione dello stato fisiologico si estende all’area del comportamento sociale e l’adulto trasmette, a questo punto anche verbalmente, delle regole di condotta. In ogni sistema regolamentare, sono impliciti ideali e valori di appartenenza ad un gruppo sociale: l’etica.

Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad un incremento del tasso di disagio nei minori di 18 anni, individuati come "a rischio psicosociale". L’età dei minori che presentano tali problematiche tende ad abbassarsi sempre di più. La trasgressività è una componente fondamentale dell’adolescenza; tuttavia la possibilità di differenziare tra la ricerca di affermazione della propria autonomia e identità, e il segnale di uno stato di disagio permette di capire come poter rispondere in modo utile a tali condotte. E' importante che i genitori siano sensibili rispetto ai segnali lanciati dai figli adolescenti. Adolescenti che presentano disturbi del comportamento hanno maggiore probabilità di incorrere in una serie di ulteriori difficoltà future.
Vengono definiti comportamenti a rischio, quelle condotte che vanno contro le norme, i valori ed i principi della comunità sociale di appartenenza e che sono indici di disadattamento (violenza a scuola, violenze sull’ambiente, uso di droga e spaccio, piccoli reati). 
Il termine rischio si riferisce quindi ad un insieme eterogeneo di comportamenti accomunati dalla loro valenza trasgressiva e possono distinguersi in ordine di gravità.

•Trasgressioni in generale
•Comportamenti aggressivi
•Violazione delle norme
•Abuso di sostanze e alcool
•Attività delinquenziali

Le caratteristiche psicologiche maggiormente legate alle condotte a rischio riguardano:

1)Aggressività, scarso autocontrollo, disturbi della condotta in età scolare e da comportamento delinquenziale, disturbo antisociale di personalità in adolescenza e in età adulta,
2)Insicurezza, ansia, isolamento sociale, bassa autostima nel periodo scolare; sintomi successivi di depressione, scarsa autostima in età adolescenziale ed adulta.

Le teorie psicoanalitiche hanno fornito una serie di possibili letture rispetto alle condotte a rischio: un inadeguato sviluppo dell’Io e Super-Io, in favore dell’Es; la ribellione verso l’autorità; il desiderio inconscio di punizione; l’aggressività legata alla paura e alla frustrazione. Per Winnicott (1984) il comportamento antisociale è il risultato di una carenza affettiva. L'adolescente mediante il comportamento a rischio mira con rabbia ad ottenere ciò che ritiene gli sia mancato, pertanto è un/a bambino/a deprivato che è diventato un/a ragazzo/a deviante in seguito all’esposizione ad un ambiente traumatico e privo di contenimento affettivo. Numerose ricerche hanno sottolineato la continuità evolutiva tra trauma, maltrattamento, disturbi psicopatologici e condotte violente, abuso di droga e alcool, come esito di un senso del Sé inaridito e frammentato.

Un fattore spesso presente nei soggetti a rischio è l’impulsività. Si tratta di una tendenza ad assumere forme pratiche di condotta in maniera incontrollata per difetto di capacità elaborativa e inibitoria. L'impulsività può essere determinata da fattori temperamentali, non necessariamente patologici, ma si manifesta in maniera spiccata quale sintomo di determinati quadri diagnostici: ADHD, disturbi della condotta, disturbi dell’umore, disturbi dell’alimentazione, dipendenze, epilessia, schizofrenia etc. L’impulsività può essere innescata da diversi meccanismi psicologici che riflettono il funzionamento mentale e l’organizzazione personologica del soggetto, nelle evenienze più frequenti esiste un offuscamento della coscienza o un disturbo della volontà, oppure una spinta affettiva particolarmente intensa.

Le caratteristiche psico-sociali dell’adolescente a rischio possono condurre anche a comportamenti a “limite”, dove vige la necessità di vivere al di là delle norme, quindi con un cattivo rapporto con l’autorità e un rifiuto per le regole. L’atteggiamento svalutativo che assumono questi adolescenti è sintomo di un’immagine di Sé negativa; incapacità di stabilire normali rapporti sociali, cariche aggressive dirette contro i vari componenti del nucleo familiare o contro se stessi, disagio esistenziale, radicale insofferenza nei confronti di sé e del mondo. Spesso ciò si rivela attraverso comportamenti auto-aggressivi, negli attacchi al corpo perpetrati tramite condotte anoressiche o bulimiche, all’integrità fisica e sociale minacciata da comportamenti a rischio, abuso di droghe e di velocità. Tale deficit dell’immagine di Sé, può incidere inoltre su una scarsa capacità progettuale, poiché è più facile identificarsi con ciò che “non si dovrebbe essere”, piuttosto che lottare per conquistare un sentimento di realtà in ruoli accettabili, ma “irraggiungibili con propri mezzi interiori”, conseguentemente avviene, come la chiama Erikson la “scelta di identità negativa”.

Le manifestazioni autoaggressive più allarmanti dell’adolescente riguardano il problema dei tentativi di suicidio, ma si osservano anche altre condotte autoaggressive quali: l'automutilazione impulsiva e gli equivalenti del suicidio. L'automutilazione impulsiva avviene in modo del tutto imprevedibile, dopo una crisi d’angoscia o di agitazione, il giovane attacca il corpo con maggiore o minore violenza. Gli equivalenti del suicidio riguardano quelle condotte nel corso delle quali la vita del soggetto è messa in pericolo dal punto di vista di un osservatore esterno, ma nel corso delle quali il soggetto nega il rischio che si è assunto. Esempi di equivalenti del suicidio sono gli incidenti in motorino o altri comportamenti di irresponsabilità verso la propria incolumità simili. 

L’adolescente usa la tendenza ad agire principalmente per autodefinirsi: elabora la propria realtà interna instabile e in continuo mutamento dinamico mediante una realizzazione concreta verso l’esterno. I comportamenti a rischio possono essere una risposta caratteristica che gli adolescenti mettono in atto rispetto ai compiti evolutivi. Tali comportamenti a rischio diventano allarmanti quando si configurano in un determinato quadro psichico, caratterizzato da rigidità e pervasività del comportamento reiterato.

Bibliografia:
Ammaniti, M. (2002), Manuale di psicopatologia dell’adolescenza. Raffaello Cortina Editore, Roma.
Erickson, E. (1982), I cicli della vita. Armando Editore, Roma 1984.
Marcelli, D., Bracconier, A. (1999), Adolescenza e psicopatologia. Masson, Parigi 1983.
Stern, D. (1985), Il mondo interpersonale del bambino. Bollati Boringhieri, Torino 1987.
Winnicott, D. (1984), Il bambino deprivato. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1986.

domenica 15 settembre 2013

David Foster Wallace - Imparare a pensare, la libertà di scegliere


"Questa è l'acqua" (Discorso ai laureati del Kenyon College, 2005)

Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: «Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?». I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: «Che cavolo è l’acqua?».
Negli Stati Uniti un discorso per il conferimento delle lauree non può prescindere dall’impiego di storielle d’impianto parabolico a scopo didascalico. Tra le convenzioni imposte dal genere, questa storiella è una delle migliori e con meno fronzoli… ma non temete: non sono qui nella veste del pesce anziano e saggio che spiega cos’è l’acqua ai pesci più giovani. Non io sono l’anziano pesce saggio. Il succo della storiella dei pesci è semplicemente che le realtà più ovvie, onnipresenti e importanti sono spesso le più difficili da capire e da discutere. Detta così sembrerà una banalità bella e buona, ma il fatto è che nelle trincee quotidiane dell’esistenza da adulti le banalità belle e buone possono diventare questione di vita o di morte, ed è su questo che vorrei soffermarmi in questa splendida mattinata tersa.
Certo, un discorso come questo presuppone che vi parli in primo luogo del significato della vostra cultura umanistica, che cerchi di spiegarvi perché la laurea che state per prendere ha un effettivo valore umano e non solo un tornaconto materiale. Vediamo perciò di affrontare il cliché in assoluto più diffuso in questo genere di discorsi, e cioè che lo scopo di una cultura umanistica non è tanto rimpinzarvi di erudizione quanto «insegnarvi a pensare».

                                         


Se siete come ero io ai tempi dell’università, sentirvi dire una cosa del genere non vi sarà mai piaciuto, e anzi troverete un po’offensivo che qualcuno pretenda di insegnarvi come si pensa, visto che il solo fatto di essere entrati in un’università così prestigiosa dimostra che ne siete capaci. Ma partirò dal presupposto che il cliché degli studi umanistici non abbia niente di offensivo, perché la vera, fondamentale educazione a pensare che dovremmo ricevere in un luogo come questo non riguarda tanto la capacità di pensare, quanto semmai la facoltà di scegliere a cosa pensare. Se la vostra totale libertà di scegliere a cosa pensare sembra fin troppo ovvia per sprecare il fiato a parlarne, vi chiederei di pensare ai pesci e all’acqua mettendo da parte, solo per qualche istante, ogni scetticismo sul valore delle perfette ovvietà.

Eccovi un’altra storiella didascalica. Ci sono due tizi seduti in un bar nel cuore selvaggio dell’Alaska. Uno è credente, l’altro è ateo, e stanno discutendo l’esistenza di Dio con quella foga tutta speciale che viene fuori dopo la quarta birra. L’ateo dice: «Guarda che ho le mie buone ragioni per non credere in Dio. Ne so qualcosa anch’io di Dio e della preghiera. Appena un mese fa mi sono lasciato sorprendere da quella spaventosa tormenta di neve lontano dall’accampamento, non vedevo niente, non sapevo più dov’ero, c’erano quarantacinque gradi sottozero e così ho fatto un tentativo: mi sono inginocchiato nella neve e ho urlato: “Dio, sempre ammesso che Tu esista, mi sono perso nella tormenta e morirò se non mi aiuti!”». A quel punto il credente guarda l’ateo confuso: «Allora non hai più scuse per non credere – dice -, sei qui vivo e vegeto». L’ateo sbuffa come se il credente sia uno scemo integrale: «Non è successo un bel niente, a parte il fatto che due eschimesi di passaggio mi hanno indicato la strada per l’accampamento».

È facile analizzare questa storiella secondo i criteri classici delle scienze umanistiche: la stessa identica esperienza può significare due cose completamente diverse per due persone diverse che abbiano due diverse impostazioni ideologiche e due diversi modi di attribuire un significato all’esperienza. Siccome diamo grande valore alla tolleranza e alla diversità ideologica, la nostra analisi di stampo umanistico non ci consente nel modo più assoluto di dire che l’interpretazione dell’uno è vera e quella dell’altro è falsa o disdicevole. Il che va benissimo, solo che così facendo trascuriamo puntualmente l’origine di tali impostazioni e credenze individuali, la loro origine, cioè, all’interno di quei due tizi. Quasi che l’orientamento di fondo di una persona rispetto al mondo e al significato della sua esperienza sia cablato in automatico, come l’altezza o il numero di scarpa, o assorbito dalla cultura come la lingua. Quasi che il nostro modo di attribuire un significato non sia questione di scelta personale e deliberata, di decisione consapevole.

C’è poi la questione dell’arroganza. Il non credente liquida con estrema petulanza e sicumera l’eventualità che gli eschimesi avessero qualcosa a che fare con la preghiera di aiuto. D’altro canto i credenti che mostrano un’arrogante sicurezza nelle loro interpretazioni non si contano nemmeno. E forse sono anche peggio degli atei, almeno per la maggior parte di noi qui riuniti, ma il fatto è che il problema dei dogmatici religiosi è identico a quello dell’ateo della storiella: arroganza, convinzione cieca, una ristrettezza di idee che si traduce in una prigionia completa al punto che il prigioniero non sa nemmeno di essere sotto chiave. Il punto, secondo me, è che il mantra delle scienze umanistiche – «insegnami a pensare» – in parte dovrebbe significare proprio questo: essere appena un po’meno arrogante, avere un minimo di «consapevolezza critica» riguardo a me stesso e alle mie certezze… perché un’enorme percentuale delle cose di cui tendo a essere automaticamente certo risultano, a ben vedere, del tutto erronee e illusorie. Io l’ho imparato a mie spese e altrettanto, ho il sospetto, toccherà a voi.

Ecco un esempio dell’erroneità assoluta di una cosa della quale tendo a essere automaticamente certo. Tutto nella mia esperienza diretta corrobora la convinzione profonda che io sono il centro esatto dell’universo, la persona più reale, concreta e importante che esista. Affrontiamo raramente questa forma di naturale e basilare egocentrismo perché socialmente parlando è disgustosa anche se, sotto sotto, ci accomuna tutti. È la nostra modalità predefinita, inserita nei circuiti fin dalla nascita. Pensateci: non avete vissuto una sola esperienza che non vi vedesse al suo centro esatto. Per voi il mondo è una cosa che vi sta davanti o dietro, a sinistra o a destra, sullo schermo del televisore o su quello del computer. I pensieri e i sentimenti degli altri devono esservi comunque comunicati, i vostri invece sono così vicini, pressanti, reali. Insomma, ci siamo capiti. Ma state tranquilli, non mi preparo a tenervi una predica sulla compassione, l’eterodirezione o tutte le altre cosiddette «virtù». Non è questione di virtù quanto della scelta di impegnarmi a modificare o a tenere a freno la mia naturale modalità predefinita, che è per forza di cose profondamente e letteralmente egocentrica, e vede e interpreta tutto attraverso la lente dell’io. Le persone capaci di adattare a tal punto la loro modalità predefinita sono spesso considerate l’esatto opposto dei «disadattati», termine che, vi posso assicurare, non ha niente di casuale.

Dato il contesto accademico è naturale domandarsi fino a che punto questo adattamento della modalità predefinita coinvolga il sapere o l’intelletto. La risposta, com’è prevedibile, è che dipende da che cosa intendiamo sapere. La conseguenza forse più pericolosa di una cultura accademica, almeno nel mio caso, è che legittima la mia tendenza a essere cerebrale, a perdermi nelle astrazioni anziché prestare semplicemente attenzione a quello che mi succede davanti agli occhi. Anziché prestare attenzione a quello che mi succede dentro. Sono sicuro che ormai sapremo quanto sia difficile tenere alta la soglia di attenzione e non farsi ipnotizzare dall’ininterrotto monologo che si svolge dentro la testa. Quello che ancora non sapete è quanto sia alta la posta in gioco.

Sono passati vent’anni da quando mi sono laureato e nel frattempo ho capito poco alla volta che il cliché secondo il quale le scienze umanistiche «insegnano a pensare» in realtà sintetizza una verità molto profonda e importante. «Imparare a pensare» di fatto significa imparare a esercitare un certo controllo su come e su cosa pensare. Significa avere quel minimo di consapevolezza che permette di scegliere a cosa prestare attenzione e di scegliere come attribuire un significato all’esperienza. Perché se non sapete o non volete esercitare questo tipo di scelta nella vita da adulti, sarete fregati. Un vecchio cliché vuole che la mente sia un ottimo servo ma un pessimo padrone. Questo, come molti altri cliché in apparenza fiacchi e banali, in realtà esprime una grande, terribile verità. Non è certo un caso che gli adulti che si suicidano con armi da fuoco si sparino quasi sempre… alla testa. E la verità è che erano quasi tutti già morti da un pezzo quando hanno premuto il grilletto. E date retta a me, il valore reale e schietto della vostra cultura umanistica dovrebbe essere proprio questo: impedire di trascorrere la vostra comoda vita da adulti da morti, inconsapevoli, schiavi della vostra testa e della vostra naturale modalità predefinita che vi impone una solitudine unica, completa e imperiale giorno dopo giorno.
Potrà sembrare un’iperbole, o un’astrazione priva di senso. Perciò mettiamola sul piano pratico.       

                                     

Il fatto è che voi laureandi non avete ancora ben chiaro che cosa significhi realmente “giorno dopo giorno”. Ci sono interi aspetti della vita americana da adulti che vengono bellamente ignorati da chi tiene discorsi come questo. I genitori e le persone di una certa età qui presenti sanno benissimo a cosa mi riferisco. Mettiamo, per dire, che sia una normale giornata nella vostra vita da adulti: la mattina vi alzate, andate al vostro impegnativo lavoro impiegatizio da laureati, sgobbate per nove o dieci ore e alla fine della giornata siete stanchi, siete stressati e volete solo tornare a casa, fare una bella cenetta, magari rilassarvi un paio d’ore e poi andare a letto presto perchè il giorno dopo dovete alzarvi e ripartire daccapo. Ma a quel punto vi ricordate che a casa non c’è niente da mangiare - questa settimana il vostro lavoro impegnativo vi ha impedito di fare la spesa - e così dopo il lavoro vi tocca prendere la macchina e andare al supermercato. A quell’ora escono tutti dal lavoro, c’è un traffico mostruoso e il tragitto richiede molto più del necessario e, quando finalmente arrivate, scoprite che il supermercato è strapieno di gente perchè a quell’ora tutti gli altri che come voi lavorano cercano di ficcarsi nei negozi di alimentari, e il supermercato è orribile, illuminato al neon e pervaso da quelle musichette e canzoncine capaci solo di abbruttire e voi dareste qualsiasi cosa per non essere lì, ma non potete limitarvi a entrare e uscire; vi tocca girare tutti i reparti enormi, iperilluminati e caotici per trovare quello che vi serve, manovrare il carrello scassato in mezzo a tutte le altre persone stanche e trafelate col carrello, e ovviamente ci sono i vecchi di una lentezza glaciale, gli strafatti e i bambini iperattivi che bloccano la corsia e a voi tocca stringere i denti e sforzarvi di chiedere permesso in tono gentile ma poi, quando finalmente avete tutto l’occorrente per la cena, scoprite che non ci sono abbastanza casse aperte anche se è l’ora di punta, e dovete fare una fila chilometrica, il che è assurdo e vi manda in bestia, ma non potete prendervela con la cassiera isterica, oberata com’è quotidianamente da un lavoro così noioso e insensato che tutti noi qui riuniti in questa prestigiosa università nemmeno ce lo immaginiamo…fatto sta che finalmente arriva il vostro turno alla cassa, pagate il vostro cibo, aspettate che una macchinetta autentichi il vostro assegno o la vostra carta di credito e vi sentite augurare “buona giornata” con una voce che è esattamente la voce della morte, dopodichè mettete quelle raccapriccianti buste di plastica sottilissima nell’esasperante carrello dalla ruota impazzita che tira a sinistra, attraversate tutto il parcheggio intasato, pieno di buche e di rifiuti, e cercate di caricare la spesa in macchina in modo che non esca dalle buste rotolando per tutto il bagagliaio lungo il tragitto, in mezzo al traffico lento, congestionato, strapieno di Suv dell’ora di punta, eccetera, eccetera.

Ci siamo passati tutti, certo: ma non rientra ancora nella routine di voi laureati, giorno dopo settimana dopo mese dopo anno. Pero’ finirà col rientrarci, insieme a tante altre squallide, fastidiose routine apparentemente inutili…
Ma non è questo il punto. Il punto è che la scelta entra in gioco proprio nelle boiate frustranti e di poco conto come questa. Perchè il traffico congestionato, i reparti affollati e le lunghe file alla cassa mi danno il tempo per pensare, e se non decido consapevolmente come pensare e a cosa prestare attenzione, saro’ incazzato e giù di corda ogni volta che mi tocca fare la spesa, perchè la mia modalità predefinita naturale dà per scontato che situazioni come questa contemplino davvero esclusivamente ME. La mia fame, la mia stanchezza, il mio desiderio di tornare a casa, e avro’ la netta impressione che tutti gli altri mi intralcino.

E chi sono tutti questi che mi intralciano? Guardali là, fanno quasi tutti schifo mentre se ne stanno in fila alla cassa come tanti stupidi pecoroni con l’occhio smorto e niente di umano; e che odiosi poi quei cafoni che parlano al forte al cellulare in mezzo alla fila. Certo che è proprio un’ingiustizia: ho sgobbato tutto il santo giorno, muoio di fame, sono stanco e non posso nemmeno andare a casa a mangiare un boccone e a distendermi un po’ per colpa di tutte queste stupide, stramaledette persone. Oppure, se gli studi umanistici fanno propendere la mia modalità predefinita verso una maggiore coscienza sociale, posso trascorrere il tempo imbottigliato nel traffico di fine giornata a inorridire per tutti gli enormi, stupidi Suv, Hummer e pickup con motore da 12 valvole che bloccano la corsia bruciando tutti e centottanta i litri di benzina che hanno in quei loro serbatoi spreconi e egoisti, posso riflettere sul fatto che gli adesivi patriottici o religiosi sembrano sempre appiccicati sui veicoli più grossi e schifosamente egoisti, guidati dagli autisti più osceni, spericolati e aggressivi, che di norma parlando al cellulare mentre ti tagliano la strada per guadagnare sei stupidi metri nel traffico congestionato, e posso pensare che i figli dei nostri figli ci disprezzeranno per aver sperperato tutto il carburante del futuro, mandando in malora il clima, e a quanto siamo viziati, stupidi, egoisti e ripugnanti, e a come fa tutto veramente schifo e chi più ne ha più ne metta…


Guardate che se scegliete di pensarla così non c’è niente di male, lo facciamo in tanti, solo che pensarla così diventa talmente facile e automatico che non richiede una scelta. Pensarla così è la mia modalità predefinita naturale. E’ il mio modo automatico e inconsapevole di affrontare le parti noiose, frustranti e caotiche della mia vita da adulto quando agisco in base alla convinzione automatica e inconsapevole che sono io il centro del mondo, e che sono le mie sensazioni e i miei bisogni immediati a stabilire l’ordine di importanza delle cose. Il fatto è che in frangenti come questo si puo’ pensare in tanti modi diversi. Nel traffico, con tutti i veicoli che mi si piazzano davanti e mi intralciano, non è da escludere che a bordo dei Suv ci sia qualcuno che in passato ha avuto uno spaventoso incidente e ora ha un tale terrore di guidare che il suo analista gli ha ordinato di farsi un Suv mastodontico per sentirsi più sicuro alla guida; o che al volante dell’Hummer che mi ha appena tagliato la strada ci sia un padre che cerca di portare di corsa in ospedale il figlioletto ferito o malato che gli siede accanto, e la sua fretta è maggiore e più legittima della mia: anzi, sono io a intralciarlo. Oppure posso scegliere di prendere mio malgrado in considerazione l’eventualità che tutti gli altri in fila alla cassa del supermercato siano annoiati e frustrati almeno quanto me, e che qualcuno magari abbia una vita nel complesso più difficile, tediosa e sofferta della mia. Vi prego ancora una volta di non pensare che voglia darvi dei consigli morali, o che vi stia dicendo che “dovreste” pensarla così, o che qualcuno si aspetta che lo facciate automaticamente, perchè è difficile, richiede forza di volontà e impegno mentale e, se siete come me, certi giorni non ci riuscirete proprio, o semplicemente non ne avrete nessuna voglia.

Ma quasi tutti gli altri giorni, se siete abbastanza consapevoli da offrirvi una scelta, potrete scegliere di guardare in modo diverso quella signora grassa con l’occhio smorto e il trucco pesante in fila in cassa che ha appena sgridato il figlio: forse non è sempre così; forse è stata sveglia tre notti di seguito a stringere la mano al marito che sta morendo di cancro alle ossa. O forse è quella stessa impiegata assunta alla Motorizzazione col minimo salariale che soltanto ieri ha aiutato vostra moglie a risolvere un problema burocratico da incubo facendole una piccola gentilezza di ordine amministrativo. Non è molto verosimile, d’accordo, ma non è nemmeno da escludere: dipende solo da cosa volete prendere in considerazione.

Se siete automaticamente certi di sapere cosa sia la realtà e chi e che cosa siano davvero importanti - se volete operare in modalità predefinita - allora anche voi, come me, probabilmente trascurerete tutte le eventualità che non siano inutili o fastidiose. Ma se avrete davvero imparato a prestare attenzione, allora saprete che le alternative non mancano. Avrete davvero la facoltà di affrontare una situazione caotica, chiassosa, lenta, iperconsumistica, trovandola non solo significativa ma sacra, incendiata dalla stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa a tutte le cose. Misticherie non necessariamente vere. L’unica cosa Vera con la V maiuscola è che riuscirete a decidere come cercare di vederla. Questa, a mio avviso, è la libertà che viene dalla vera cultura, dall’aver imparato a non essere disadattati; riuscire a decidere consapevolmente che cosa importa e che cosa no.

Riuscire a decidere che cosa venerare…
Ecco un’altra cosa vera. Nelle trincee quotidiane della vita da adulti l’ateismo non esiste. Non venerare è impossibile. Tutti venerano qualcosa. L’unica scelta che abbiamo è che cosa venerare. E un motivo importantissimo per scegliere di venerare un certo dio o una cosa di tipo spirituale - che sia Gesù Cristo o Allah, che sia YHWH o la dea madre della religione Wicca, le Quattro Nobili Verità o una serie di principi etici inviolabili - è che qualunque altra cosa veneriate vi mangerà vivi. Se venerate il denaro e le cose, se è a loro che attribuite il vero significato della vita, non vi basteranno mai. Non avrete mai la sensazione che vi bastino. E’ questa la verità. Venerate il vostro corpo, la vostra bellezza e la vostra carica erotica e vi sentirete sempre brutti, e quando compariranno i primi segni del tempo e dell’età, morirete un milione di volte prima che vi sotterrino in via definitiva.  Sotto un certo aspetto lo sappiamo già tutti benissimo: è codificato nei miti, nei proverbi, nei cliché, nei luoghi comuni, negli epigrammi, nelle parabole; è la struttura portante di tutte le grandi storie. Il segreto consiste nel dare un ruolo di primo piano alla verità nella consapevolezza quotidiana. Venerate il potere e finirete col sentirvi deboli e spaventati, e vi servirà sempre più potere sugli altri per tenere a bada la paura. Venerate l’intelletto, spacciatevi per persone in gamba, e finirete col sentirvi stupidi, impostori, sempre sul punto di essere smascherati. E così via.


Guardate che l’aspetto insidioso di queste forme di venerazione non è che sono malvagie o peccaminose, è che sono inconsapevoli. Sono modalità predefinite. Sono il genere di venerazione in cui scivolate per gradi, giorno dopo giorno, diventando sempre più selettivi su quello che vedete e sul metro che usate per giudicare senza rendervi nemmeno ben conto di farlo. E il cosiddetto “mondo reale” non vi dissuaderà dall’operare in modalità predefinita, perchè il cosiddetto “mondo reale” degli uomini, del denaro e del potere vi accompagna con quel suo piacevole ronzio alimentato dalla paura, dal disprezzo, dalla frustrazione, dalla brama e dalla venerazione dell’io. La cultura odierna ha imbrigliato queste forze in modi che hanno prodotto ricchezza, comodità, libertà personale a iosa. La libertà di essere tutti sovrani dei nostri minuscoli regni formato cranio, soli al centro di tutto il creato. Una libertà non priva di aspetti positivi. Cio’ non toglie che esistano svariati generi di libertà, e il genere più prezioso è spesso taciuto nel grande mondo esterno fatto di vittorie, conquiste e ostentazione.

Il genere di libertà davvero importante richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri e di sacrificarsi costantemente per loro, in una miriade di piccoli modi che non hanno niente a che vedere col sesso, ogni santo giorno. Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo: essere continuamente divorati dalla sensazione di aver avuto e perso qualcosa di infinito.
So che questa roba forse non vi sembrerà divertente, leggera o altamente ispirata come invece dovrebbe essere nella sostanza un discorso per il conferimento delle lauree. Per come la vedo io è la verità sfrondata da un mucchio di cazzate retoriche. Ovvio che potete prenderla come vi pare. Ma vi pregherei di non liquidarlo come uno di quei sermoni che la dottoressa Laura impartisce agitando il dito. Qui la morale, la religione, il dogma o le grandi domande stravaganti sulla vita dopo la morte non c’entrano. La Verità con la V maiuscola riguarda la vita prima della morte. Riguarda il valore vero della vera cultura, dove voti e titoli di studio non c’entrano, c’entra solo la consapevolezza pura e semplice: la consapevolezza di cio’ che è così reale e essenziale, così nascosto in bella vista sotto gli occhi di tutti da costringerci a ricordare di continuo a noi stessi: “Questa è l’acqua, questa è l’acqua; dietro questi eschimesi c’è molto più di quello che sembra”. Farlo, vivere in modo consapevole, adulto, giorno dopo giorno, è di una difficoltà inimmaginabile. E questo dimostra la verità di un altro cliché: la vostra cultura è realmente il lavoro di una vita, e comincia…adesso. Augurarvi buona fortuna sarebbe troppo poco.


Wallace D. F. (2010),"Questa è l'acqua". Einaudi Editore.

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