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lunedì 31 agosto 2020

Disturbi alimentari: origine e elaborazione della metafora del sintomo in psicoterapia

 

 Dalla pagina Instagram: @disturbialimentari_mentecorpo

L'organizzazione psicofisiologica, é estremamente influenzata dalla regolazione degli affetti (Beebe et al., 1992; Beebe, Lachmann, Jaffe, 1997), e ha un enorme impatto sulla nostra vita a più livelli. Alcuni studi longitudinali sulle rappresentazioni materne in gravidanza hanno dimostrato che é possibile anticipare eventuali esiti psicopatologici sin dalle prime battute, ovverosia già dal rapporto rappresentazionale che la madre stabilisce con il bambino quando é ancora in utero. Il modo in cui bambino viene pensato, infatti, avrà già una prima influenza sul successivo rapporto reale. Altrettanto dopo la nascita, le primissime interazioni possono essere altamente informative rispetto agli esiti adulti. Una madre responsiva e sensibile ai bisogni del bambino sarà in grado di fornirgli aspettative positive sulla possibilità di essere amato e accolto in senso ampio nei suoi bisogni. Nel corso dei primi mesi la psiche si forgia attraverso l'accudimento e il soddisfacimento dei bisogni fisiologici. La gestione dell'alimentazione, dalle poppate al passaggio all'alimentazione solida é un paradigma essenziale di osservazione per la comprensione di come la psiche del bambino potrà insediarsi nel corpo. Il contenimento materno dei bisogni e il rispecchiamento del bambino come essere umano individuale determinerà in maniera decisiva il modo in cui il bambino organizzerà se stesso a livello psicologico nel mondo da adulto (Winnicott, 1945, 1965, 1971). Si può affermare dunque che i disturbi dell'alimentazione molto spesso hanno la loro origine esattamente qui, ovverosia nei modi in cui da neonati abbiamo appreso ad organizzarci rispetto ai bisogni fisiologici e all'ambiente dal caregiver di riferimento.

Diversi studi (Pignatelli et al. 2016) hanno confermato la prevalenza di un vissuto di trascuratezza infantile legato a un esito DCA in età adulta. La trascuratezza o negligenza si manifesta spesso in maniera meno evidente rispetto agli abusi ma può avere esiti cumulativi devastanti principalmente per lo sviluppo dell'identità nucleare, un tema strettamente inerente ai disturbi alimentari: dove c'è il sintomo alimentare possiamo trovare anche una descrizione della personalità e della sua formazione, il più delle volte unica e peculiare cioè che riflette la storia psicologica personale dell'individuo. "Per alcuni è addirittura sconosciuta persino l'esistenza di figure che accudiscano e aiutino; per altri è stato costantemente incerto il luogo dove tali figure potessero trovarsi. Per molti di più la probabilità che una figura che li accudiva reagisse aiutandoli è stata nella migliore delle ipotesi incerta, e nella peggiore nulla. Non vi è da sorprendersi se questi individui, una volta diventati adulti non credono alla possibilità che esista mai una figura veramente disponibile e fidata che si curi di loro. Ai loro occhi il mondo appare sconsolato e imprevedibile; ed essi reagiscono evitandolo e lottando contro di esso" (Bowlby 1973, La separazione dalla madre). I bambini trascurati sopravvivono come adulti con un senso di identità, valore di sè e senso di sicurezza fragile.

Non si tratta solo del cibo: poiché i Disturbi del Comportamento Alimentare sono una malattia psicologica, essi si innescano in un ambiente che favorisce l'instabilità emotiva e ne costituisce una metafora (simbolo). Ecco perché spesso risulta  fallimentare la decisione di semplicemente "smettere" (qualsiasi siano i sintomi); ciò di cui c'è bisogno è curare l'aspetto  emotivo, vale a dire le emozioni non regolate alla base di tutta la manipolazione del cibo. Questa è la prima e più importante cosa da sapere e ricordare sui disturbi alimentari per capire cosa sta succedendo e perché non si riesce a controllarlo. Spesso si cercano soluzioni rapide o semplicemente un nuovo piano dietetico. La psicoterapia aiuta a sciogliere i nodi degli stretti meccanismi di coping che sono stati costruiti emotivamente dal momento dell'insorgenza del disturbo intorno alle proprie metafore. Non esistono infatti soluzioni rapide per i disturbi alimentari, come d'altra parte per tutti gli altri tipi di disturbo psicologico. L'unica fretta che si dovrebbe avere è quella di imparare nuove modalità più salutari di gestire e quindi regolare le emozioni. Questa é possibilità sempre presente in una relazione terapeutica sicura.

Le complicanze fisiche più frequentemente associate ai disturbi alimentari sono quelle cardiovascolari, gastrointestinali e muscolo-scheletrico. Proprio poiché una delle caratteristiche più importanti dei DCA riguarda la scissione mente corpo, il sintomo psicologico viene gestito ed espresso attraverso il soma. Spesso insieme alla dismorfofobia, é presente una scarsa capacità di prendersi cura di sè in senso ampio (spesso associata al neglect infantile), con rigidità e inflessibilità nel giudizio negativo su di sè. I sintomi fisici dunque risultano paradossalmente come subordinati alla sofferenza e al dolore psicologico che in quel momento occupano la vita dell'individuo nella sua interezza, come uno schermo che la attraversa e che prende tutto lo spazio del pensiero. La vita verrà organizzata intorno alla gestione del sintomo perché il sintomo é anche un modo di distrarsi dal dolore e ne costituisce un simbolo. Le complicanze fisiche che si aggravano con il progredire del disturbo vengono poi perlopiù sottovalutate perché il sintomo é funzionale al mantenimento di un equilibrio generale e si inquadrano nell'ambito di una mancanza di cure generalizzata per cui quasi diventano "l'ultimo dei problemi". Per questo motivo insieme al supporto medico é indispensabile una figura psicoterapeutica di riferimento, che spesso potrà coordinarsi in un lavoro congiunto con il nutrizionista e le altre figure che si occupano di stabilizzare la salute del paziente. La richiesta di aiuto é fondamentale ed è il primo modo della persona per interrompere il meccanismo di base di gestione problematica della sofferenza. È il modo sano, diverso di poter dire: "Io mi prendo cura di me oggi, oggi mi prendo cura di me davvero, faccio qualcosa per me e non contro di me".

Le nostre emozioni sono parte integrante del comportamento alimentare. Da sempre il cibo é associato all'idea del conforto e della cura. Quando questi elementi mancano nella nostra vita, il bisogno affettivo può essere esternalizzato in una concretizzazione mediante il cibo del simbolo originario (quello che manca). In questo senso simbolo e metafora sono particolarmente pregnanti per i disturbi alimentari. L'organizzazione del sintomo infatti sarà strettamente correlata al vissuto personale di mancanza. Attorno alla mancanza ci si potrà organizzare con un rifiuto, una protesta, una ribellione, una domanda, una sfida. In linea generale la battaglia del sintomo vuole essere giocata in un rapporto ma finisce per diventare un discorso solitario che ammala la persona. Per questo motivo é necessario un rapporto terapeutico tale che fornendo una lente nuova per osservare insieme il sintomo possa abbracciare e riformulare i significati personali che si stanno mettendo in gioco e che rimangono incastrati nella loro ripetizione. Rispetto al sintomo infatti non é sufficiente una comprensione razionale, la terapia deve agire come una goccia che scava nella pietra delle convinzioni acquisite nelle relazioni passate in tutti gli anni trascorsi, e ripetute nel presente da relazioni traumatiche o che ripetono adattamenti disfunzionali
 
La guarigione avviene nell'ambito relazionale (si sperimenta, non si capisce). La comprensione razionale dura il tempo di questa lettura. La comprensione emotiva modifica le azioni e lo stile di vita perché ha cambiato il modo in cui ci sentiamo con gli altri (le azioni sono diverse perché é cambiato il sentimento e di conseguenza il pensiero, non viceversa). Il sintomo alimentare invece é vissuto tutto in solitudine. La mente isolata é una mente solitamente affaticata, stanca, che tende ad ammalarsi di impoverimento (la fame controllata, gestita, o incontrollabile, su cui ci si ossessiona è data dal vuoto e ciò che sta a indicare) e governa in questa maniera il cibo, così come le relazioni interpersonali.


lunedì 13 aprile 2015

Di Jonathan Shedler - La relazione terapeutica nella terapia psicodinamica rispetto a quella CBT (cognitivo-comportamentale)

I primi legami d'attaccamento costituiscono un modello per le relazioni successive.
Come risultato di ciò, ripetiamo questi modelli nelle nostre relazioni per tutta la vita. Poiché sono presenti sin dall'inizio, questi pattern possono essere per noi invisibili come lo è l'acqua per un pesce.
Tuttavia essi danno forma al nostro destino.

La terapia comprende una relazione, e i pazienti portano al suo interno la propria sagoma e i propri pattern. Come terapeuti, entriamo nel campo gravitazionale dei modelli relazionali problematici dei pazienti, facendo esperienza e partecipando ad essi. Attraverso il riconoscimento della nostra inevitabile partecipazione a questi modelli, possiamo aiutare i nostri pazienti a capirli e rielaborarli.

Questa è una terapia che cambia la vita. Questo è il cuore della terapia psicodinamica.

Caroline, una donna sulla trentina, è elegante, colta, di successo. Si presenta con un portamento regale e assomiglia e si veste con abiti simili a quelli di una modella di Vogue. E' corteggiata dal tipo di uomini che la maggior parte delle donne può solo fantasticare di avere. Eppure è sola. Non  è stata capace di mantenere una relazione intima e soffre di attacchi di depressione.
Kate Moss, top model e icona di stile, su una copertina di Vogue Brasile.
Caroline ha fatto diversi tentativi di terapia. Racconta che, purtroppo, non è mai cambiato davvero nulla, e che i terapeuti finiscono sempre per desiderare di ottenere la sua approvazione.

I colleghi addestrati in CBT e altre terapie "evidence-based" raramente attribuiscono un significato al commento di Caroline sulle sue precedenti relazioni terapeutiche. Alcuni azzardano che Caroline può aver bisogno di un terapeuta molto "sicuro" che non si senta intimidito dai suoi sguardi, il suo successo, o il suo status sociale.

Da un punto di vista psicodinamico, è irrilevante se il terapeuta di Caroline è sicuro o insicuro a livello personale. Lei non ha bisogno di un terapeuta sicuro. Ha bisogno di un terapeuta con sufficente consapevolezza di sé e coraggio da notare quella botta di insicurezza che si prova in presenza di Caroline, e gestirla come informazione, utilizzandola al servizio della comprensione.

Tale terapeuta potrebbe dire: "Sai, sei venuta qui per ricevere il mio aiuto eppure in molte delle nostre interazioni, sono consapevole di provare la vaga sensazione di volerti impressionare o guadagnare la tua approvazione, che chiaramente non ti aiuta affatto. Sto cercando di capire che significa, e se potrebbe essere una finestra su cui affacciarsi per comprendere qualcosa di importante a proposito delle tue relazioni, più in generale. Forse questo è qualcosa di familiare per te".

Mr. Quinn, autore della statua raffigurante Kate Moss afferma di averla vista come una "moderna afrodite". Kate ha commentato che la statua sembrerebbe elevarla a mito ma ha anche affermato di amarla particolarmente perchè stabilisce una differenza netta tra com'è realmente e come appare. Per l'intervista vedi: http://www.telegraph.co.uk/news/celebritynews/3122144/Kate-Moss-gold-statue-unveiled-at-British-Museum.html

E lì, la terapia vera e propria può iniziare.

Caroline non avrebbe potuto descrivere cosa è andato storto nelle sue relazioni: ciò che ha fatto per cercare di attirare vicino a sé le persone è proprio ciò che preclude reciprocità e intimità.
Le donne erano invidiose o rispettose. Gli uomini la vedevano come una potenziale conquista, o "out of their league" - al di fuori della loro portata. In entrambi i casi, ogni tipo di legame intimo era impossibile.

Caroline non era in grado di comunicare questo al suo terapeuta; lei lo mostrava.
Ciò che il paziente fa nella stanza con il terapeuta rivela pattern relazionali che durano da tutta una vita.  Nella relazione terapeutica, questi modelli possono essere riconosciuti, compresi, e rielaborati.

Questo è fondamentale per la terapia psicodinamica e assente in altri tipi di terapie.

Un importante autore e leader teorico della CBT ha scritto un articolo su miti e realtà della CBT. Un mito, secondo questo autore, è che la CBT minimizza l'importanza della relazione terapeutica. Per mostrare che non è così, ha spiegato che i terapeuti CBT "fanno molte cose per costruire una forte alleanza. Ad esempio, lavorano in collaborazione con i clienti...chiedono un feedback...e si comportano come esseri umani autentici, caldi, empatici, interessati, premurosi".

Questo è il tipo di rapporto che mi aspetterei di ricevere dal mio parrucchiere o dall'intermediario immobiliare. Da uno psicoterapeuta, mi aspetto qualcosa di diverso. L'autore CBT sembrava non avere idea che la relazione terapeutica fornisce una speciale finestra sul mondo interno del paziente, o un laboratorio relazionale e un santuario in cui i pattern di tutta una vita possono essere riconosciuti e compresi, e altri, nuovi, creati.

Alcuni pazienti possono sentirsi soddisfatti con terapeuti che "collaborano" durante lo svolgimento di una terapia seguendo un manuale di istruzioni (si può leggere un blog di Jonathan Shedler sulla terapia "manualizzata" qui). Coloro che vogliono cambiare il loro destino vorranno un terapeuta con consapevolezza di sé, conoscenza, e coraggio per osservare e parlare di ciò che conta.

Jonathan Shedler, Ph.D ( http://jonathanshedler.com/ ) è Professore Associato presso la University of Colorado School of Medicine. Insegna e conduce laboratori per il pubblico professionale nazionale e internazionale e fornisce consulenza clinica e supervisione ( http://jonathanshedler.com/consultation/ ) in teleconferenza a professionisti della salute mentale in tutto il mondo.

fonte: https://www.psychologytoday.com/blog/psychologically-minded/201503/the-therapy-relationship-in-psychodynamic-therapy-versus-cbt

venerdì 13 febbraio 2015

Il caso clinico di Connie - di Stephen Mitchell: relazionalità e attaccamento nel trattamento psicoanalitico

 
A questo punto dell’evoluzione delle idee psicologiche,
la teoria dell’attaccamento e quella psicoanalitica,
anziché fornire percorsi alternativi, ci offrono la straordinaria possibilità
di una convergenza che porta ricchezza ad entrambi i modelli.
(Mitchell, 2000)

 Stephen Mitchell in un dipinto di Philip Ringstrom fonte: http://www.iarpp.net/resources/enews/vol11no1/index.html

E' stato recentemente pubblicato l'interessante volume di Morris Eagle "Attaccamento e psicoanalisi-Teoria, ricerca e implicazioni cliniche" (Raffaello Cortina, 2013). Il libro, si pone sulla scia della riflessione teorica più recente a proposito delle implicazioni cliniche della teoria dell'attaccamento (Bowlby, 1969, 1973, 1980).
Nel 2002, Peter Fonagy aveva pubblicato un libro dall'analogo titolo; "Psicoanalisi e teoria dell'attaccamento". Il libro ha trovato una tiepida accoglienza tra i ricercatori e gli psicoanalisti. La tradizione teorica dell'attaccamento così come quella di ricerca e quella psicoanalitica, sono considerate come appartenenti ad ambiti differenti.
Nel 2003 Fonagy annovera nel suo "Psicopatologia evolutiva" (il cui titolo originale è "Psychoanalytic theories, perspective from developmental psychopathology") il Modello della teoria dell'attaccamento di Bowlby tra le teorie psicoanalitiche considerate alla luce del processo evolutivo.
Un argomento di dibattito riguarda la possibilità di considerare la teoria dell'attaccamento nell'ambito del trattamento psicoterapeutico, e in particolare, psicoanalitico.
Il libro di Eagle, in tal senso, consente di riflettere a proposito del rapporto tra teoria dell'attaccamento e psicoanalisi, vagliando le aree di possibile contatto. Ciò che rende particolarmente interessante lo sforzo di Eagle è il fatto che l'autore considera oltre alla teoria psicoanalitica "classica" cioè pulsionale, gli approcci più recenti della psicoanalisi relazionale.
Una differenziazione spesso sottolineata riguarda infatti ciò che è considerato psicologia empirica, psicoterapia e psicoanalisi. Tale differenziazione riguarda nello specifico le differenti tradizioni d'origine a cui questi ambiti fanno capo. E' tuttavia ormai estremamente diffusa l'abitudine a fare riferimento a più livelli di considerazione (outcome, descrizioni cliniche, etc.) alla teoria dell'attaccamento.
In una recente ricerca Mikulincer, Shaver, Avihou-Kanza (2011), hanno proposto un approccio multidisciplinare allo studio delle narrative del sogno. Gli autori hanno associato lo studio sul materiale onirico mediante il metodo CCRT alle dimensioni di ansietà ed evitamento dell’attaccamento adulto. I risultati del CCRT hanno mostrato – in linea con la teoria dell’attaccamento – che W caratterizzate da ricerca di vicinanza, e RO e RS negative erano correlate ad ansietà, mentre W caratterizzati da distanziamento e RO negative erano correlate all’evitamento.
Uno degli obiettivi di questa ricerca era, oltre alla validazione empirica dell’indagine sui sogni come materiale informativo e utile ai fini della valutazione delle dinamiche relazionali, quello di trovare una corrispondenza tra una misura self-report dell’attaccamento e “marker motivazionali e cognitivi dell’insicurezza dell’attaccamento nelle narrative dei sogni” (Mikulincer, Shaver, Avihou-Kanza, 2011, p. 115), in relazione alla possibilità di collegare un aspetto “conscio” (ibidem) – quello del comportamento di attaccamento – con una misura “meno conscia” (ibidem) ovvero psicodinamicamente orientata come quella delle categorie derivate dagli autori dal metodo CCRT. Gli autori hanno affermato che: "I sogni possono contribuire significativamente alla comprensione di sé e al dialogo tra paziente e terapeuta" (Mikulincer, Shaver, Avihou-Kanza, 2011, p. 119).
Recentemente (2013) è stato pubblicato il volume di Beebe e Lachmann “The origins of Attachmnent. Infant research and Adult Treatment”. Il testo sembra indagare, come suggerisce il titolo, le origini dell’attaccamento nelle prime interazioni faccia a faccia madre-bambino.  La creazione di un modello psicoanalitico basato sulle interazioni reali e le successive applicazioni di questa teoria al trattamento adulto (regolazione interattiva/attenzione al contesto, microinterazioni non verbali, modelli di psicoterapia basati sull’attivazione fisiologica, principi di salienza, disconferma delle aspettative negative, regolazione attesa, rottura e riparazione, momenti affettivi intensi) era già stato proposto dagli stessi autori nel 2002, nel testo “Infant Research e Trattamento degli adulti”.

Un tributo personale a Mitchell. Sulla mia specchiera, due carte M&M's e Orfeo Milka, e una foto della mia città natale.

Il caso clinico di Connie (Mitchell, 2000).
Mitchell utilizza il caso di Connie per descrivere come le problematiche dell'attaccamento si rivelano a diversi livelli nella relazionalità per fornire una cornice entro cui pensare la matrice interattiva che si delinea nel processo psicoanalitico. "Da quando Bowlby ha presentato la sua rivoluzionaria teoria dell'attaccamento sono state introdotte ed elaborate altre prospettive relazionali centrate sulla permeabilità affettiva, sulle configurazioni di sé e oggetto e sull'intersoggettività (...) Tali sviluppi suggeriscono che questo è un momento particolarmente appropriato per esplorare le convergenze tra psicoanalisi e teoria dell'attaccamento". (Mitchell, 2000, p. 102). 
Connie richiede una terapia a causa di un persistente senso di tristezza, per la mancata elaborazione del lutto per la morte della madre. Suo padre che dopo l'evento la mandò in collegio, era un uomo provato e fragile a cui lei non doveva far pesare i suoi bisogni.
In secondo luogo sentiva che c'era qualcosa di diverso in lei, che le altre persone avevano ma che a lei mancava. Le sembrava che gli altri avessero un "Sé" ovvero un senso di chi sono e delle radici solide. Connie era sposata e aveva avuto un figlio. Il bambino presentava problemi di separazione. 
Connie sentiva con grande intensità e vergogna che il figlio era parte di lei: l'esperienza della gravidanza, aveva riattivato in lei ricordi relativi alla perdita della madre, in quanto perdita di parti di se stessa. Diventando madre, sperava di ritrovare la madre e le parti perse di se stessa. La perdita di Connie riguardava infatti non solo la madre, ma se stessa e tutto il suo mondo infantile. La gravidanza riempiva quel vuoto. Secondo Loewald, non siamo separati dagli altri significativi, ma co-creiamo esperienze emotive intense e condividiamo tali emozioni in modi che non corrispondono alle categorie discrete sé-altro e interno-esterno (permeabilità affettiva). Afferma Mitchell: "i residui delle esperienze di attaccamento (...) non includono solo modelli cognitivi del mondo interpersonale, ma anche stati affettivi di connessione indifferenziata con le figure di attaccamento organizzati intorno ad affetti positivi come l'euforia o la calma tranquillizzante, e attorno ad affetti negativi come la depressione, l'angoscia o il terrore. In questa visione, ciò che Connie ha bisogno di raggiungere nel corso dell'analisi non è una separazione netta da sua madre e da suo figlio, ma una maggiore capacità di contenere esperienze diverse, sia di unione con loro sia di differenziazione da loro". L'attaccamento all'assenza della madre costituiva di fatto il senso del Sé centrale per Connie. La continua elaborazione inconscia del lutto della madre serviva a mantenere il legame con lei, e con l'unica parte di se stessa di cui era a conoscenza. Il dolore definiva chi era, ovvero tutto ciò che conosceva di se. In mancanza di una figura di attaccamento sicura il suo sentire prendeva il posto di un punto di riferimento umano. L'attaccamento all'assenza era anche una bussola per orientarsi rispetto a quello che poteva aspettarsi dal mondo, e il modo in cui le relazioni avrebbero funzionato. 
Mitchell avverte che qualcosa nelle esperienze presenti di Connie rigeneravano la sua tristezza, qualcosa a cui stava rinunciando nel presente e che aveva perduto nel passato. Mitchell iniziò a parlare con Connie di cibo, perchè tra i suoi argomenti preferiti. Connie era salutista e mangiava molte verdure. Si concedeva però un pacchetto di M&M's ogni pomeriggio. Mitchell preferiva le Milky-Ways. Connie iniziò a riflettere su come con la morte della madre aveva perso una figura che si occupasse della sua alimentazione, come lei faceva ora con il figlio. In effetti lei mangiava inizialmente tutto quello che le sembrava ragionevole, ma poi finiva per concedersi tutto ciò che le capitava a portata di mano: non c'era nessuno che badasse alle ripercussioni sulla sua salute.
Connie non aveva mai fatto esperienza del preoccuparsi della sua salute e della sua sicurezza, non poteva concedersi di lasciarsi andare al desiderio e al piacere facendo affidamento sul fatto che qualcun altro avrebbe supervisionato il suo comportamento. Connie aveva dovuto svolgere da sola il ruolo di caregiver di se stessa. Ciò aveva generato in lei un senso cronico di tristezza e mancanza.
L'approccio di Connie alla cioccolata era prototipico del modo di organizzare le sue relazioni: immaginava quello che poteva avere e poi desiderava le cose che non superavano quei limiti. Con il marito, un uomo incapace di grande intimità aveva imparato che per sopravvivere doveva adattarsi a quanto era disponibile e non avanzare alcuna richiesta.
Bowlby suggerisce che nel contesto di un attaccamento sicuro è possibile utilizzare una base per esplorare il mondo. L'attaccamento nel contesto terapeutico tra Mitchell e Connie, le permise di esplorare il mondo interno ed esterno delle sue preferenze personali, i suoi desideri e i suoi impulsi. Se tale tipo di attaccamento manca, il bambino impara precocemente a svolgere da solo tale funzione, a un costo elevato: l'opportunità di abbandonarsi alla propria esperienza.
L'esperienza di attaccamento terapeutica aveva consentito a Connie di vivere qualcosa che le era mancato durante l'infanzia: la possibilità di abbandonarsi; l'assenza era stata rimpiazzata dalla presenza coerente di Mitchell, che consentiva la sua nascita: "La mente è in realtà transpersonale e contestuale ed emerge nelle interazioni con altre menti" (Mitchell, 2000, p. 111).
Il problema della spendibilità clinica della teoria dell’attaccamento sembra riguardare maggiormente i rapporti relativi alle rispettive tradizioni teoriche di riferimento, che un'effettiva incompatibilità tra di loro.
L’attaccamento svolge un ruolo centrale come dispositivo motivazionale biologico che spinge alla ricerca di sicurezza. John Kerr ha fatto riferimento in una comunicazione personale alla stanza d’analisi come metafora della Strange Situation (Mitchell, 2000). Considerare la teoria dell’attaccamento da un punto di vista strettamente “empirico” ne riduce il raggio d’azione potenziale. Un esempio paradigmatico analogo in tal senso è il comportamento sessuale.
Mitchell fornisce un elegante esempio di come possiamo utilizzare oggi la teoria dell’attaccamento all'interno della cornice concettuale della psicoanalisi relazionale.
Per rendere possibile l'integrazione tra teoria dell'attaccamento e psicoanalisi, forse sarebbe utile capire di quale psicoanalisi si parla, e ridefinire allo stesso modo il concetto di attaccamento.
La domanda che permane pertanto sembra piuttosto: quale esigenza teorica sottende la necessità di mantenere questa differenza?

mercoledì 31 luglio 2013

Il cigno nero (Aronofsky, 2010): la perfezione nella capacità di lasciar andare

Il mio personaggio è ossessionato dalla perfezione, come molte ballerine vere. Io invece, con il mio lavoro, ambisco a trovare soprattutto la bellezza, la quale credo non sia qualcosa di perfetto, anzi spesso ha a che fare con il disordine, il caos e l'imperfezione. 
(Natalie Portman) 

Thomas: In questi quattro anni ti ho vista sempre cercare come un’ossessa la perfezione in ogni singolo passo, ma mai ti ho vista lasciarti andare alle emozioni. Mai. Tutta questa disciplina per cosa?
Nina: Solo essere perfetta.
Thomas: Che hai detto?
Nina: Voglio essere perfetta.
Thomas: La perfezione non è solo un problema di controllo. E’ necessario metterci il cuore. Sorprendi te stessa e sorprenderai chi ti guarda.

Thomas: L'unico vero ostacolo al tuo successo sei tu: liberati da te stessa. Perditi, Nina.

                                     
 
Darren Aronofsky porta in scena per la seconda volta, dopo The wrestler (2008), la storia di un'atleta. In questo caso si tratta di una ballerina, Nina Sayers (Natalie Portman). Il regista lascia immediatamente allo spettatore la possibilità di immergersi nel mondo interno della protagonista, attraverso la rappresentazione di un sogno in cui Nina, vestita di bianco, danza tormentatamente con un ballerino dall'aspetto inquietante e cupo.
Il ritratto della protagonista assume sin dalle prime battute caratteristiche polarizzate. Il bianco e il nero sono i colori maggiormente presenti nel film, a rappresentare il "cigno bianco" e la parte oscura di sé che Nina dovrà fronteggiare sempre più dolorosamente nell'evolvere del film.
Nina è una ballerina che dedica la maggior parte del suo tempo all'esercizio; non vengono presentati altri aspetti della sua realtà.
Il primo incontro con la parte oscura di sé, avviene mediante la conoscenza di Lily, l'antagonista nella corsa verso il ruolo principale, con cui si confronta, scoprendosi immediatamente ai suoi stessi occhi fragile e insicura.

Quindi in metropolitana, quando con maggiore chiarezza, le sembra di osservare la parte più sicura e aggressiva di sé stessa (il "cigno nero"), camminare decisa verso di lei.
La lettura psicologica del personaggio è subito appassionante. Viene presentata una personalità borderline, intesa sia come quadro diagnostico, per le relazioni instabili e intense con idealizzazione e svalutazione, alterazione dell'identità, impulsività, comportamento automutilante, instabilità affettiva ideazione paranoide e gravi sintomi dissociativi, che come organizzazione di personalità secondo Kernberg. 
Ma ciò che realmente caratterizza il personaggio è l'ossessività. La ricerca della perfezione.
Questa ricerca combacia con un estremo autocontrollo e disciplina, che isola la protagonista dal resto della realtà. L'incapacità di Nina di lasciarsi andare riguarda anche un'inibizione e timidezza profonda contro la quale cerca di scagliarsi con difficoltà, quando si accorge di non riuscire ad assolvere al compito fondamentale assegnato dal ruolo: rappresentare il cigno bianco e il cigno nero.
Ma la corsa verso la ricerca della parte oscura di sé porta Nina verso la distruzione. Il cigno nero che è in Nina è distruttivo, carico di invidia e di smania di successo, voglia di affermarsi e godere del trionfo. 
Un tentativo di affrontare questi aspetti più nascosti della sua personalità viene rappresentato nella scena del bar, in cui il personaggio viene arricchito di una nuova sfumatura, più sensuale: Nina prova a lasciarsi andare e assume delle sostanze.
In una serie di scene sfocate viene ritratta magistralmente dal regista la manifestazione che assume l'alterazione della coscienza della protagonista, data in questo caso dall'alcool e dalle droghe, ma che in generale, lungo tutto il corso del film assume le forme di uno stato al confine tra la realtà e la fantasia. Al punto che lo stesso spettatore stenta a differenziare i due aspetti.
Le difficoltà di Nina si aggravano, e con esse la conflittualità interna, che sfocia sempre più in una chiara manifestazione del Sé dissociato.
La protagonista infine, nel momento culminante della sua performance perde il contatto con la realtà, fino a giungere al limite della follia, che trova vincitore il cigno nero, la distruttività.
Nina capisce che sta combattendo in realtà contro nessun altro che la propria ossessione, ma è tardi.
Ciò che le rimane da fare quindi, è raggiungere l'apice dei suoi sforzi, e danzare per l'ultima volta, davanti a tutti, come aveva sempre sognato conquistando l'obiettivo della perfezione.
Il personaggio di Nina Sayers mostra bene gli aspetti della personalità ossessiva: la distruttività, l'incapacità di rinunciare alla perfezione, e l'anancasmo.
In generale il film esaspera i tratti nevrotici femminili per eccellenza: la competizione, l'insicurezza, la ricerca della perfezione e l'insoddisfazione data dall'inevitabile fallimento nel tentativo di conquistare una meta irraggiungibile. In tal senso il personaggio offre una buona opportunità di riflessione sulle manifestazioni della sofferenza psichica declinate al femminile.

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