Immagine tratta dal film "Christiane F. - Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino" (in tedesco Wir Kinder vom Bahnhof Zoo) Al concerto di David Bowie, insieme a due amici, Pollo e Bernd, Christiane decide di sniffare eroina per la prima volta. Ha 13 anni. Il film è tratto dalla vera storia di Christiane Vera Felscherinow.
Nel corso del ciclo di vita l’individuo sperimenta momenti di continuità e cambiamento volti a favorire il processo di costruzione dell’identità. Tale sviluppo avviene per stadi. Ogni stadio è caratterizzato da uno specifico compito evolutivo che potrà produrre un esito positivo o negativo, a seconda di come verrà gestito. Durante l’adolescenza l’identità inizia a stabilirsi nel momento di crisi normativa, caratterizzato solitamente da un certo grado di confusione che, una volta risolta, lascerà il posto all’identità nucleare definita (Erickson, 1982).
Adolescenza e trasgressione sono dunque intimamente legate: per crescere un adolescente deve sfidare e mettere in discussione le regole che gli adulti gli hanno insegnato; per poterle fare proprie, modificarle o rifiutarle. Le norme si configurano come abitudini impartite dai genitori sin dall’infanzia nel corso delle interazioni volte alla regolazione degli stati fisiologici di fame/sonno/attivazione/interazione (Stern, 1985). Con la crescita la regolazione dello stato fisiologico si estende all’area del comportamento sociale e l’adulto trasmette, a questo punto anche verbalmente, delle regole di condotta. In ogni sistema regolamentare, sono impliciti ideali e valori di appartenenza ad un gruppo sociale: l’etica.
Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad un incremento del tasso di disagio nei minori di 18 anni, individuati come "a rischio psicosociale". L’età dei minori che presentano tali problematiche tende ad abbassarsi sempre di più. La trasgressività è una componente fondamentale dell’adolescenza; tuttavia la possibilità di differenziare tra la ricerca di affermazione della propria autonomia e identità, e il segnale di uno stato di disagio permette di capire come poter rispondere in modo utile a tali condotte. E' importante che i genitori siano sensibili rispetto ai segnali lanciati dai figli adolescenti. Adolescenti che presentano disturbi del comportamento hanno maggiore probabilità di incorrere in una serie di ulteriori difficoltà future.
Vengono definiti comportamenti a rischio, quelle condotte che vanno contro le norme, i valori ed i principi della comunità sociale di appartenenza e che sono indici di disadattamento (violenza a scuola, violenze sull’ambiente, uso di droga e spaccio, piccoli reati).
Il termine rischio si riferisce quindi ad un insieme eterogeneo di comportamenti accomunati dalla loro valenza trasgressiva e possono distinguersi in ordine di gravità.
•Trasgressioni in generale
•Comportamenti aggressivi
•Violazione delle norme
•Abuso di sostanze e alcool
•Attività delinquenziali
Le caratteristiche psicologiche maggiormente legate alle condotte a rischio riguardano:
1)Aggressività, scarso autocontrollo, disturbi della condotta in età scolare e da comportamento delinquenziale, disturbo antisociale di personalità in adolescenza e in età adulta,
2)Insicurezza, ansia, isolamento sociale, bassa autostima nel periodo scolare; sintomi successivi di depressione, scarsa autostima in età adolescenziale ed adulta.
Le teorie psicoanalitiche hanno fornito una serie di possibili letture rispetto alle condotte a rischio: un inadeguato sviluppo dell’Io e Super-Io, in favore dell’Es; la ribellione verso l’autorità; il desiderio inconscio di punizione; l’aggressività legata alla paura e alla frustrazione. Per Winnicott (1984) il comportamento antisociale è il risultato di una carenza affettiva. L'adolescente mediante il comportamento a rischio mira con rabbia ad ottenere ciò che ritiene gli sia mancato, pertanto è un/a bambino/a deprivato che è diventato un/a ragazzo/a deviante in seguito all’esposizione ad un ambiente traumatico e privo di contenimento affettivo. Numerose ricerche hanno sottolineato la continuità evolutiva tra trauma, maltrattamento, disturbi psicopatologici e condotte violente, abuso di droga e alcool, come esito di un senso del Sé inaridito e frammentato.
Un fattore spesso presente nei soggetti a rischio è l’impulsività. Si tratta di una tendenza ad assumere forme pratiche di condotta in maniera incontrollata per difetto di capacità elaborativa e inibitoria. L'impulsività può essere determinata da fattori temperamentali, non necessariamente patologici, ma si manifesta in maniera spiccata quale sintomo di determinati quadri diagnostici: ADHD, disturbi della condotta, disturbi dell’umore, disturbi dell’alimentazione, dipendenze, epilessia, schizofrenia etc. L’impulsività può essere innescata da diversi meccanismi psicologici che riflettono il funzionamento mentale e l’organizzazione personologica del soggetto, nelle evenienze più frequenti esiste un offuscamento della coscienza o un disturbo della volontà, oppure una spinta affettiva particolarmente intensa.
Le caratteristiche psico-sociali dell’adolescente a rischio possono condurre anche a comportamenti a “limite”, dove vige la necessità di vivere al di là delle norme, quindi con un cattivo rapporto con l’autorità e un rifiuto per le regole. L’atteggiamento svalutativo che assumono questi adolescenti è sintomo di un’immagine di Sé negativa; incapacità di stabilire normali rapporti sociali, cariche aggressive dirette contro i vari componenti del nucleo familiare o contro se stessi, disagio esistenziale, radicale insofferenza nei confronti di sé e del mondo. Spesso ciò si rivela attraverso comportamenti auto-aggressivi, negli attacchi al corpo perpetrati tramite condotte anoressiche o bulimiche, all’integrità fisica e sociale minacciata da comportamenti a rischio, abuso di droghe e di velocità. Tale deficit dell’immagine di Sé, può incidere inoltre su una scarsa capacità progettuale, poiché è più facile identificarsi con ciò che “non si dovrebbe essere”, piuttosto che lottare per conquistare un sentimento di realtà in ruoli accettabili, ma “irraggiungibili con propri mezzi interiori”, conseguentemente avviene, come la chiama Erikson la “scelta di identità negativa”.
Le manifestazioni autoaggressive più allarmanti dell’adolescente riguardano il problema dei tentativi di suicidio, ma si osservano anche altre condotte autoaggressive quali: l'automutilazione impulsiva e gli equivalenti del suicidio. L'automutilazione impulsiva avviene in modo del tutto imprevedibile, dopo una crisi d’angoscia o di agitazione, il giovane attacca il corpo con maggiore o minore violenza. Gli equivalenti del suicidio riguardano quelle condotte nel corso delle quali la vita del soggetto è messa in pericolo dal punto di vista di un osservatore esterno, ma nel corso delle quali il soggetto nega il rischio che si è assunto. Esempi di equivalenti del suicidio sono gli incidenti in motorino o altri comportamenti di irresponsabilità verso la propria incolumità simili.
L’adolescente usa la tendenza ad agire principalmente per autodefinirsi: elabora la propria realtà interna instabile e in continuo mutamento dinamico mediante una realizzazione concreta verso l’esterno. I comportamenti a rischio possono essere una risposta caratteristica che gli adolescenti mettono in atto rispetto ai compiti evolutivi. Tali comportamenti a rischio diventano allarmanti quando si configurano in un determinato quadro psichico, caratterizzato da rigidità e pervasività del comportamento reiterato.
Bibliografia:
Ammaniti, M. (2002), Manuale di psicopatologia dell’adolescenza. Raffaello Cortina Editore, Roma.
Erickson, E. (1982), I cicli della vita. Armando Editore, Roma 1984.
Marcelli, D., Bracconier, A. (1999), Adolescenza e psicopatologia. Masson, Parigi 1983.
Stern, D. (1985), Il mondo interpersonale del bambino. Bollati Boringhieri, Torino 1987.
Winnicott, D. (1984), Il bambino deprivato. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1986.
Il soggetto che sogna
è l’intero soggetto.
Khan, 1975, p. 50
Masud Khan, psicoanalista inglese di origine indiana, fu paziente e allievo di
Ella Freeman Sharpe e di Donald Winnicott.
Tra i suoi principali contributi teorici ricordiamo il concetto di trauma
cumulativo; Khan (1963) partendo dai concetti espressi da Ferenczi, Winnicott,
Spitz e Bowlby, offre una prospettiva sul tema del trauma a cavallo tra la
tradizione delle relazioni oggettuali inglesi e una nuova prospettiva, più
francamente relazionale.
Il trauma cumulativo riguarda l’esperienza quotidiana e protratta di piccole
defaillànce nelle cure materne, che generano nel bambino delle microfratture
nella coesione del Sé. Tale genere di trauma non è riconoscibile come evento
scatenante che è possibile isolare, ma al contrario come una serie di circostanze
di distress e mancata sintonizzazione nella relazione con la madre, che appaiono
fattori secondari nella valutazione dello stato di salute mentale del bambino, ma
che tuttavia a lungo termine generano una situazione di frammentazione (Khan,
1963).
Nello specifico, il trauma cumulativo può caratterizzarsi per una serie di
abbandoni, rifiuti, intrusioni, silenzi, mancata assoluzione delle necessità
primarie del bambino di cure materne, che generano un vissuto di perdita ed
inerzia e che può portare ad uno stato di alienazione.
Khan che risente dell’influsso dell’opera della Klein, nonostante sia schierato
con il gruppo di mezzo degli indipendenti inglesi; indica nell’oggetto interno
idoleggiato e composito un ultimo residuo della concezione kleiniana di oggetto
interno.
L’oggetto composito riguarda l’introiezione di oggetti discordanti con il
proprio Sé in una sorta di precoce dissociazione a partire dall’infanzia; mentre
l’oggetto idoleggiato riguarda la possibilità di esteriorizzare gli aspetti
discondarnti del Sé verso l’esterno mediante degli agiti perversi. Secondo Khan
le perversioni sono un tentativo di autocura (Gazzillo, Silvestri, 2008).
Khan (1970) riflettendo sulla teoria freudiana elogia le scoperte del fondatore
della psicoanalisi, in particolare relativamente alle sue capacità autoanalitiche e
alla relazione amicale-transferale intrattenuta con l’amico Fliess. Secondo Khan,
un amico è colui che consente di sperimentare vicinanza e distanza, sentimenti di
ambivalenza nel processo autoconoscitivo(Gazzillo, Silvestri, 2008).
L’autore rivela le radici della sua formazione psicoanalitica riferendosi spesso
a Winnicott: “Ho incominciato a scoprire nel mio lavoro clinico con gli adulti,
che questi possono servirsi dello spazio onirico esattamente nello stesso modo in
cui il bambino usa lo spazio transizionale che gli offre il foglio di carta per i suoi
scarabocchi” (Khan, 1972).
Nello scritto Uso e abuso del sogno nell’esperienza psichica l’autore
approfondisce il tema della capacità ed incapacità di sognare, per spiegare come
nel primo caso ciò consenta la creazione di uno spazio immaginativo in cui il
sogno trova la possibilità di attualizzarsi; mentre nel secondo caso, di come
l’incapacità di simbolizzare interferisca nella formazione del sogno.Winnicott (1971) in Gioco e realtà indica nelle personalità schizoidi – in contrapposizione con
quelle caratterizzate da una più marcata impulsività – un opposto funzionamento in relazione al
sogno: mentre lo schizoide cerca di “uscire dal sogno” per avvicinarsi maggiormente ai fatti
della realtà esterna; le personalità impulsive al contrario, ricercano nel sogno la possibilità di
entrare in maggiore contatto con il proprio mondo interno.
Khan (1972) illustra quindi come sia una caratteristica essenziale e allo stesso
tempo comune, quella del momento in cui il paziente fa uno shift nel corso
dell’analisi nella qualità e nell’uso dei sogni. Il sogno – secondo Khan – contiene
materiale preconscio altamente descrittivo che viene represso nell’attività
intrapsichica del paziente.
E’ il concetto di transfert secondo l’autore ad aver adombrato quello
dell’interpretazione dei sogni; ma di fatto essi sono argomenti affini (Khan,
1972, p. 71).
Il lavoro di Khan sul sogno viene influenzato in particolare da due capitoli di
Gioco e realtà (Winnicott, 1971): “Sogno, fantasia e vita reale”, e “L’uso di un
oggetto ed entrare in rapporto mediante identificazioni”.
Nel volume, Winnicott presenta il caso clinico di una donna di mezz’età
afflitta dal continuo tormento della fantasia o “daydreaming”. Il caso viene
riportato da Winnicott (1971) come dissociazione primaria. La donna
distingueva tra il vivere reale entrando in contatto con gli oggetti, e la fantasia
onirica. Winnicott scrive: “tuttavia il fantasticare rimane un fenomeno isolato,
che assorbe energia ma che non contribuisce né al sogno né alla vita reale. In
qualche misura, il modo di fantasticare è rimasto statico per tutta la vita di questa
paziente; vale a dire che esso datava dai primissimi anni, poiché il modello era
già stabilito nel tempo in cui la paziente aveva due o tre anni. Ma era presente
già da allora, e probabilmente aveva avuto inizio con una “cura” per farle
smettere di succhiare il pollice” (p. 56).
Winnicott individua la differenza tra sogno e fantasia mediante i meccanismi
difensivi che ognuno dei due processi psichici utilizza: per il primo è
caratteristica la rimozione, mentre per il secondo la dissociazione. Attraverso il
processo analitico, la donna riesce a guadagnare l’integrazione e le sue fantasie
diventano più ancorate alla realtà. La differenza tra fantasia e stato dissociativo è
molto sottile, maggiormente qualitativa che quantitava. Spiega Winnicott:
La mia paziente è nella mia stanza per il suo trattamento ed un piccolo pezzo di cielo è
accessibile alla sua vista. E’ sera. Dice: “Io sono su quelle nuvole rosa dove posso
camminare”. Questo, naturalmente, potrebbe essere un volo dell’immaginazione.
Potrebbe essere un modo in cui l’immaginazione arricchisce la vita, così come potrebbe
essere materia per un sogno. Al tempo stesso per la mia paziente, questa cosa medesima
può essere qualche cosa che appartiene ad uno stato di dissociazione e non può
diventare conscio, nel senso che lì non c’è mai una persona intera per essere
consapevole dei due o più stati dissociati che sono presenti ogni volta nello stesso
momento. La paziente può stare seduta nella sua stanza, e pure senza fare assolutamente
nulla tranne che respirare, ha (nella sua fantasia) dipinto un quadro, oppure fatto
qualcosa di interessante nel suo lavoro, oppure ha fatto una passeggiata in campagna;
ma dal punto di vista dell’osservatore nulla di tutto questo è accaduto. In realtà niente è
probabile che accada, a causa del fatto che nello stato dissociato tante cose accadono.
D’altra parte, essa può stare seduta nella sua stanza pensando al lavoro di domani e
facendo programmi o pensando alle sue vacanze, e questo può essere una esplorazione
immaginativa del mondo e del luogo in cui sogno e vita sono la stessa cosa. In questo
modo oscilla dallo star bene alla malattia e di nuovo allo star bene [...] Questa
particolare donna ha talenti e potenzialità piuttosto eccezionali per varie forme di
espressione artistica di sé, e conosce abbastanza della vita in genere e del vivere, nonchè
della propria potenzialità, per riconoscere che, in termini di vita, lei sta perdendo
l’autobus, e che ha sempre perduto l’autobus (quasi fin dall’inizio della sua vita).
Inevitabilmente essa è una delusione per se stessa e per tutti quei parenti e amici che
nutrono speranza su di lei. Essa sente, quando la gente spera in lei, che gli altri
aspettano qualcosa di lei o da lei, e questo la porta a scontrarsi con la propria essenziale
inadeguatezza. Tutto ciò è motivo di intensa sofferenza e di risentimento nella paziente
ed è del tutto evidente che senza aiuto essa correva il rischio di suicidarsi, ciò che per lei
sarebbe stato semplicemente la cosa da raggiungere più vicina all’omicidio. Quando
giunge vicino all’omicidio comincia a proteggere il suo oggetto, così a quel punto ha
l’impulso di uccidere se stessa e in tal modo porre fine alle proprie difficoltà mediante
la propria morte e la loro cessazione. Il suicidio non porta soluzioni, soltanto la fine
della lotta.
(Winnicott, 1971, pp. 57-58).
Nel secondo capitolo citato da Khan (1972) di Gioco e realtà, l’autore indica
come Winnicott fa differenza tra il relazionarsi con l’oggetto e il fare uso
dell’oggetto: “Per usare un oggetto, il soggetto deve aver sviluppato una
capacità di usare gli oggetti” (p. 143). Questa capacità è un’altra conseguenza
della bontà dello sviluppo data dall’ambiente in cui il bambino cresce.
Tra l’uso dell’oggetto e la relazione con l’oggetto c’è uno spazio in cui il
bambino avrebbe dovuto poter sperimentare l’onnipotenza. Questi fenomeni
sono palesementi collegati alla realtà delle relazioni esterne, e non riguardano la
semplice proiezione.
Queste idee di Winnicott sono ricondotte da Khan al modo in cui il paziente
sogna in seduta.
L’autore racconta quindi il caso clinico di un paziente che nel pieno della sua
analisi racconta un sogno molto lungo e complesso, di cui tuttavia riesce a
ricordare sono una parte, nonostante esso occupi tutta la notte. Khan risponde al
paziente chiedendogli se egli abbia effettivamente dormito durante la notte. Il
paziente imbarazzato spiega che tale genere di sogni gli capitano sin
dall’adolescenza lasciandogli un senso di depersonalizzazione e sfinimento.
Il paziente in realtà non dorme, piuttosto finisce in un macabro e strano stato di
coscienza in cui rincorre episodi sempre più complessi del sogno rimanendo
impantanato in tale processo. Si tratta – anche in questo caso – di un stato
mentale dissociato in cui il paziente si rifugia per isolarsi dalla realtà circostante.
All’origine di questi episodi, il paziente associò degli incubi terrifici avuti
durante l’infanzia. I traumi infantili del paziente hanno impedito la sua capacità
di usare il sogno in modo maturo; ovvero come luogo in cui riporre i propri
desideri e modo per preservare il sonno. Il paziente non aveva i requisiti esposti
da Kahn (1962) nel precedente lavoro sulla capacità di sognare; per questo
motivo egli poteva fare soltanto incubi.
Ciò che Khan (1972) vuole mettere in evidenza e ribadire rispetto al lavoro di
Winnicott, è che la dissociazione può manifestarsi come uno stato onirico
spaventoso e terrificante in cui il paziente si rinchiude per affrontare il trauma e
per negare i suoi istinti libidici. Il paziente arriva al punto di scambiare il sogno
con sé stesso, tanto che emerge sin dalle prime battute dell’analisi il racconto di
un sogno che sembra “non finire mai”. L’analisi riesce quindi a porre fine a
questo stato dissociativo strettamente collegato al sogno perchè, come affermato
da Winnicott (1971), il paziente riesce a distinguere tra fantasia e realtà, sogno e
realtà, dissociazione e realtà, riacquistando la connessione con il mondo esterno.
Il secondo argomento che Kahn discute è quello dell’attualizzazione dello
spazio-onirico. L’analista deve essere in grado di distinguere tra il processo del
sognare e lo spazio analitico in cui il sogno si attualizza. Riprendendo la
definizione freudiana di sogno come appagamento di un desiderio, Khan (1972),
ribadisce che il sogno è una capacità strettamente connessa alle funzioni dell’Io
di usare la simbolizzazione (concetto base del freudiano lavoro onirico).
Khan illustra quindi il caso clinico di una ragazza di ventitre anni, in analisi da
tre anni; descritta dall’autore come un caso che corrisponderebbe oggi alla
diagnosi di disturbo borderline. La ragazza porta il seguente sogno in seduta:
Nel mio sogno sono nella mia stanza e Peter mi sta scopando. Mi rendo conto di quello
che sta accadendo e finisce.
Khan è impressionato dall’incipit del sogno “Nel mio sogno”; esso indica uno
spazio specifico del sogno. La ragazza nel corso delle associazioni fatte al sogno
arriva a capire, mediante il sogno stesso, che nello spazio onirico è stato
possibile per lei attualizzare l’esperienza del senso del Sé e della sua istintività
che era stata, fino a poco prima agita verso l’esterno.
Il sogno è definito dunque da Kahn come un processo biologico della psiche
umana che si configura come il risultato di uno sviluppo adeguato della persona,
facilitato da cure ottimali e holding ambientale durante l’infanzia.
Per Khan (1972) il sogno è un nuovo spazio transizionale in cui la persona
ripone i propri contenuti psichici. Se non si riesce a sviluppare tale capacità –
secondo l’autore – il risultato sarà la tendenza all’acting out, così come un
eccesso di senso opposto (dissociazione), porta l’individuo a chiudersi nel
proprio mondo onirico, senza riuscire a rivolgere lo sguardo al mondo reale.
L’attualizzazione dei contenuti inconsci nello spazio del sogno permette una
efficace elaborazione mediante l’uso della simbolizzazione.
Nell’ultimo lavoro sul sogno, Al di là dell’esperienza onirica, Khan (1975)
esprime una nuova ipotesi: “bisognerebbe distinguere tra l’esperienza onirica e il
significato del testo onirico che viene ricordato. La mia esperienza clinica mi ha
insegnato che il sognare è un’esperienza psichica del tutto diversa da quella
fornita dal testo onirico rievocabile” (pp. 48-49).
L’autore segue l’esempio di Starobinski nel saggio Hamlet et Oedipe (1970)
che aveva affermato: “l’inconscio non è soltanto linguaggio, è drammaturgia”, e
ribalta il concetto espresso da Pontalis (1955) “il soggetto che parla è l’intero
soggetto” per affermare che “il soggetto che sogna è l’intero soggetto” (Khan,
1975, p. 50). L’autore vuole chiarire il ruolo del Sé nel sogno:
Esiste un’esperienza onirica della quale nel testo onirico non vi è traccia; si tratta cioè di
due eventi che non sono né complementari né antitetici. Nell’esperienza complessiva di
sé, da parte di un individuo, possono a volte sovrapporsi, oppure restare separati e privi
di rapporti. Ma non dobbiamo dimenticarci che l’esperienza onirica esiste e influenza il
comportamento dell’individuo, anche quando non viene riconosciuta né descritta (con
parole o con immagini); e che si deve intervenire sull’assenza di un’esperienza vissuta
in una persona, senza cercare di articolarla nell’ambito del processo secondario.
(Khan, 1975, p. 52).
Ciò che Khan intende dire è che mediante l’esperienza onirica, il paziente può
esprimere parti del proprio Sé che sarebbero altrimenti irraggiungibili. Questo
genere di esperienza, è in grado di arricchire la vita della persona; così come la
sua assenza, al contrario, la impoverisce.
– Avete
sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del
mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: "Cerco Dio!
Cerco Dio!". E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che
non credevano in Dio, suscitò grandi risa. "È forse perduto?" disse
uno. "Si è perduto come un bambino?" fece un altro. "Oppure sta
ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?" gridavano e
ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li
trapassò con i suoi sguardi: "Dove se n'è andato Dio?" gridò "ve
lo voglio dire! L'abbiamo ucciso – voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini!
Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino
all'ultima goccia? Chi ci dette la spugna per cancellare l'intero orizzonte?
Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov'è
che si muove ora? Dov'è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il
nostro un eterno precipitare? E all'indietro, di fianco, in avanti, da tutti i
lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come
attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è
fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo
accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre
seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della
divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta
morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti
gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad
oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo
sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali
giuochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza
di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno
degni di essa? Non ci fu mai un'azione più grande: tutti coloro che verranno
dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di
quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!".
A questo
punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori:
anch'essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua
lanterna che andò in frantumi e si spense. "Vengo troppo presto"
proseguì "non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora
per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle
orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle
costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state
compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest'azione è ancor sempre più lontana
da loro delle più lontane costellazioni – eppure son loro che l'hanno
compiuta!"– .
Si racconta
ancora che l'uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse
chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone
fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente
in questo modo: "Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i
sepolcri di Dio?".
Sole d'autunno e alberi (Egon Schiele, 1912)
Dei predicatori della
morte.
Ci sono predicatori della
morte: e la terra è piena di uomini cui non si può predicare il distacco dalla
vita. Piena è la terra di superflui, corrotta è la vita dei troppi. Si potesse
attrarli fuori da questa vita allettandoli con la “vita eterna”! “Gialli”: così
si chiamano i predicatori della morte, o “neri”. Ma voglio mostrarveli anche in
altri colori. Ci sono dei terribili, che portano dentro l’animale da preda e
non hanno altra scelta che tra i piaceri e l’autodilaniarsi. Ma anche i loro
piaceri sono un autodilaniarsi. Non sono neppure diventati uomini questi
terribili: possano predicare il distacco dalla vita e loro stessi allontanarsi
in quella direzione! Ci sono i tisici dell’anima: sono appena nati e già
cominciano a morire e sono alla ricerca di dottrine della stanchezza e della
rinuncia. Vorrebbero essere morti, e noi dovremmo approvare questa loro
volontà! Guardiamoci dal destare questi morti e dal ferire queste bare viventi!
Incontrano un malato o un vecchio o un cadavere e subito dicono: “La vita è
confutata!”. Ma loro soli sono confutati e il loro occhio che scorge quel solo
aspetto dell’esistenza. Avvolti in fitta melanconia e avidi di piccoli casi
fortuiti che portino la morte: così essi attendono stringendo i denti. Oppure:
prendono dolciumi e deridono la propria puerilità: sono aggrappati alla loro
festuca di vita e ridono di essere ancora aggrappati a una festuca. La loro
sapienza risuona: “Stolto è chi rimane in vita, ma tanto stolti siamo anche
noi! E questo è appunto ciò che ha di più stolto la vita!” – “La vita è solo
sofferenza” – così dicono altri e non mentono: ma allora fate in modo di
cessare voi di esistere. Allora fate in modo che cessi la vita che è solo
dolore!
E così suona la dottrina
della vostra virtù: “Devi uccidere te stesso! Devi sottrarti a te stesso!”
“Voluttà è peccato”, dicono gli uni che predicano la morte “tiriamoci in
disparte e non generiamo figli!”
“Generare è fatica”,
dicono gli altri “perché partorire ancora? Non si partoriscono che infelici!” E
anche loro sono predicatori della morte. “La comprensione è necessaria” dicono
i terzi. “Prendete quel che ho! Prendete quel che sono! Tanto meno mi legherà a
sé per la vita!” Se fossero compassionevoli fino in fondo, rovinerebbero la
vita al loro prossimo. Essere cattivi – sarebbe la loro vera bontà. Ma essi
vogliono disfarsi della vita: che cosa gli importa se con le loro catene e i
loro regali legano altri più saldamente alla vita? – E anche voi, cui la vita è
selvaggio lavoro e inquietudine: non siete molto stanchi della vita? Non siete
molto maturi per la predica della morte?
Voi tutti, cui è caro il
selvaggio lavoro e ciò che è rapido, nuovo, estraneo, – voi che sopportate male
voi stessi, la vostra diligenza è maledizione e volontà di dimenticare voi
stessi.
Se voi credeste di più
alla vita, vi dareste meno in preda all’attimo. Ma per attendere non avete in
voi stessi sufficiente contenuto: nemmeno per essere pigri! Al di sopra di
tutto risuona la voce di quelli che predicano la morte: e la terra è piena di
quelli cui non si può non predicare la morte. O “la vita eterna”: per me è lo
stesso, – purché essi ci vadano al più presto!
Così parlò Zarathustra.
Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno. Adelphi
"Questa è l'acqua" (Discorso ai laureati del Kenyon College, 2005)
Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: «Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?». I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: «Che cavolo è l’acqua?». Negli Stati Uniti un discorso per il conferimento delle lauree non può prescindere dall’impiego di storielle d’impianto parabolico a scopo didascalico. Tra le convenzioni imposte dal genere, questa storiella è una delle migliori e con meno fronzoli… ma non temete: non sono qui nella veste del pesce anziano e saggio che spiega cos’è l’acqua ai pesci più giovani. Non io sono l’anziano pesce saggio. Il succo della storiella dei pesci è semplicemente che le realtà più ovvie, onnipresenti e importanti sono spesso le più difficili da capire e da discutere. Detta così sembrerà una banalità bella e buona, ma il fatto è che nelle trincee quotidiane dell’esistenza da adulti le banalità belle e buone possono diventare questione di vita o di morte, ed è su questo che vorrei soffermarmi in questa splendida mattinata tersa. Certo, un discorso come questo presuppone che vi parli in primo luogo del significato della vostra cultura umanistica, che cerchi di spiegarvi perché la laurea che state per prendere ha un effettivo valore umano e non solo un tornaconto materiale. Vediamo perciò di affrontare il cliché in assoluto più diffuso in questo genere di discorsi, e cioè che lo scopo di una cultura umanistica non è tanto rimpinzarvi di erudizione quanto «insegnarvi a pensare».
Se siete come ero io ai tempi dell’università, sentirvi dire una cosa del genere non vi sarà mai piaciuto, e anzi troverete un po’offensivo che qualcuno pretenda di insegnarvi come si pensa, visto che il solo fatto di essere entrati in un’università così prestigiosa dimostra che ne siete capaci. Ma partirò dal presupposto che il cliché degli studi umanistici non abbia niente di offensivo, perché la vera, fondamentale educazione a pensare che dovremmo ricevere in un luogo come questo non riguarda tanto la capacità di pensare, quanto semmai la facoltà di scegliere a cosa pensare. Se la vostra totale libertà di scegliere a cosa pensare sembra fin troppo ovvia per sprecare il fiato a parlarne, vi chiederei di pensare ai pesci e all’acqua mettendo da parte, solo per qualche istante, ogni scetticismo sul valore delle perfette ovvietà.
Eccovi un’altra storiella didascalica. Ci sono due tizi seduti in un bar nel cuore selvaggio dell’Alaska. Uno è credente, l’altro è ateo, e stanno discutendo l’esistenza di Dio con quella foga tutta speciale che viene fuori dopo la quarta birra. L’ateo dice: «Guarda che ho le mie buone ragioni per non credere in Dio. Ne so qualcosa anch’io di Dio e della preghiera. Appena un mese fa mi sono lasciato sorprendere da quella spaventosa tormenta di neve lontano dall’accampamento, non vedevo niente, non sapevo più dov’ero, c’erano quarantacinque gradi sottozero e così ho fatto un tentativo: mi sono inginocchiato nella neve e ho urlato: “Dio, sempre ammesso che Tu esista, mi sono perso nella tormenta e morirò se non mi aiuti!”». A quel punto il credente guarda l’ateo confuso: «Allora non hai più scuse per non credere – dice -, sei qui vivo e vegeto». L’ateo sbuffa come se il credente sia uno scemo integrale: «Non è successo un bel niente, a parte il fatto che due eschimesi di passaggio mi hanno indicato la strada per l’accampamento».
È facile analizzare questa storiella secondo i criteri classici delle scienze umanistiche: la stessa identica esperienza può significare due cose completamente diverse per due persone diverse che abbiano due diverse impostazioni ideologiche e due diversi modi di attribuire un significato all’esperienza. Siccome diamo grande valore alla tolleranza e alla diversità ideologica, la nostra analisi di stampo umanistico non ci consente nel modo più assoluto di dire che l’interpretazione dell’uno è vera e quella dell’altro è falsa o disdicevole. Il che va benissimo, solo che così facendo trascuriamo puntualmente l’origine di tali impostazioni e credenze individuali, la loro origine, cioè, all’interno di quei due tizi. Quasi che l’orientamento di fondo di una persona rispetto al mondo e al significato della sua esperienza sia cablato in automatico, come l’altezza o il numero di scarpa, o assorbito dalla cultura come la lingua. Quasi che il nostro modo di attribuire un significato non sia questione di scelta personale e deliberata, di decisione consapevole.
C’è poi la questione dell’arroganza. Il non credente liquida con estrema petulanza e sicumera l’eventualità che gli eschimesi avessero qualcosa a che fare con la preghiera di aiuto. D’altro canto i credenti che mostrano un’arrogante sicurezza nelle loro interpretazioni non si contano nemmeno. E forse sono anche peggio degli atei, almeno per la maggior parte di noi qui riuniti, ma il fatto è che il problema dei dogmatici religiosi è identico a quello dell’ateo della storiella: arroganza, convinzione cieca, una ristrettezza di idee che si traduce in una prigionia completa al punto che il prigioniero non sa nemmeno di essere sotto chiave. Il punto, secondo me, è che il mantra delle scienze umanistiche – «insegnami a pensare» – in parte dovrebbe significare proprio questo: essere appena un po’meno arrogante, avere un minimo di «consapevolezza critica» riguardo a me stesso e alle mie certezze… perché un’enorme percentuale delle cose di cui tendo a essere automaticamente certo risultano, a ben vedere, del tutto erronee e illusorie. Io l’ho imparato a mie spese e altrettanto, ho il sospetto, toccherà a voi.
Ecco un esempio dell’erroneità assoluta di una cosa della quale tendo a essere automaticamente certo. Tutto nella mia esperienza diretta corrobora la convinzione profonda che io sono il centro esatto dell’universo, la persona più reale, concreta e importante che esista. Affrontiamo raramente questa forma di naturale e basilare egocentrismo perché socialmente parlando è disgustosa anche se, sotto sotto, ci accomuna tutti. È la nostra modalità predefinita, inserita nei circuiti fin dalla nascita. Pensateci: non avete vissuto una sola esperienza che non vi vedesse al suo centro esatto. Per voi il mondo è una cosa che vi sta davanti o dietro, a sinistra o a destra, sullo schermo del televisore o su quello del computer. I pensieri e i sentimenti degli altri devono esservi comunque comunicati, i vostri invece sono così vicini, pressanti, reali. Insomma, ci siamo capiti. Ma state tranquilli, non mi preparo a tenervi una predica sulla compassione, l’eterodirezione o tutte le altre cosiddette «virtù». Non è questione di virtù quanto della scelta di impegnarmi a modificare o a tenere a freno la mia naturale modalità predefinita, che è per forza di cose profondamente e letteralmente egocentrica, e vede e interpreta tutto attraverso la lente dell’io. Le persone capaci di adattare a tal punto la loro modalità predefinita sono spesso considerate l’esatto opposto dei «disadattati», termine che, vi posso assicurare, non ha niente di casuale.
Dato il contesto accademico è naturale domandarsi fino a che punto questo adattamento della modalità predefinita coinvolga il sapere o l’intelletto. La risposta, com’è prevedibile, è che dipende da che cosa intendiamo sapere. La conseguenza forse più pericolosa di una cultura accademica, almeno nel mio caso, è che legittima la mia tendenza a essere cerebrale, a perdermi nelle astrazioni anziché prestare semplicemente attenzione a quello che mi succede davanti agli occhi. Anziché prestare attenzione a quello che mi succede dentro. Sono sicuro che ormai sapremo quanto sia difficile tenere alta la soglia di attenzione e non farsi ipnotizzare dall’ininterrotto monologo che si svolge dentro la testa. Quello che ancora non sapete è quanto sia alta la posta in gioco.
Sono passati vent’anni da quando mi sono laureato e nel frattempo ho capito poco alla volta che il cliché secondo il quale le scienze umanistiche «insegnano a pensare» in realtà sintetizza una verità molto profonda e importante. «Imparare a pensare» di fatto significa imparare a esercitare un certo controllo su come e su cosa pensare. Significa avere quel minimo di consapevolezza che permette di scegliere a cosa prestare attenzione e di scegliere come attribuire un significato all’esperienza. Perché se non sapete o non volete esercitare questo tipo di scelta nella vita da adulti, sarete fregati. Un vecchio cliché vuole che la mente sia un ottimo servo ma un pessimo padrone. Questo, come molti altri cliché in apparenza fiacchi e banali, in realtà esprime una grande, terribile verità. Non è certo un caso che gli adulti che si suicidano con armi da fuoco si sparino quasi sempre… alla testa. E la verità è che erano quasi tutti già morti da un pezzo quando hanno premuto il grilletto. E date retta a me, il valore reale e schietto della vostra cultura umanistica dovrebbe essere proprio questo: impedire di trascorrere la vostra comoda vita da adulti da morti, inconsapevoli, schiavi della vostra testa e della vostra naturale modalità predefinita che vi impone una solitudine unica, completa e imperiale giorno dopo giorno. Potrà sembrare un’iperbole, o un’astrazione priva di senso. Perciò mettiamola sul piano pratico.
Il fatto è che voi laureandi non avete ancora ben chiaro che cosa significhi realmente “giorno dopo giorno”. Ci sono interi aspetti della vita americana da adulti che vengono bellamente ignorati da chi tiene discorsi come questo. I genitori e le persone di una certa età qui presenti sanno benissimo a cosa mi riferisco. Mettiamo, per dire, che sia una normale giornata nella vostra vita da adulti: la mattina vi alzate, andate al vostro impegnativo lavoro impiegatizio da laureati, sgobbate per nove o dieci ore e alla fine della giornata siete stanchi, siete stressati e volete solo tornare a casa, fare una bella cenetta, magari rilassarvi un paio d’ore e poi andare a letto presto perchè il giorno dopo dovete alzarvi e ripartire daccapo. Ma a quel punto vi ricordate che a casa non c’è niente da mangiare - questa settimana il vostro lavoro impegnativo vi ha impedito di fare la spesa - e così dopo il lavoro vi tocca prendere la macchina e andare al supermercato. A quell’ora escono tutti dal lavoro, c’è un traffico mostruoso e il tragitto richiede molto più del necessario e, quando finalmente arrivate, scoprite che il supermercato è strapieno di gente perchè a quell’ora tutti gli altri che come voi lavorano cercano di ficcarsi nei negozi di alimentari, e il supermercato è orribile, illuminato al neon e pervaso da quelle musichette e canzoncine capaci solo di abbruttire e voi dareste qualsiasi cosa per non essere lì, ma non potete limitarvi a entrare e uscire; vi tocca girare tutti i reparti enormi, iperilluminati e caotici per trovare quello che vi serve, manovrare il carrello scassato in mezzo a tutte le altre persone stanche e trafelate col carrello, e ovviamente ci sono i vecchi di una lentezza glaciale, gli strafatti e i bambini iperattivi che bloccano la corsia e a voi tocca stringere i denti e sforzarvi di chiedere permesso in tono gentile ma poi, quando finalmente avete tutto l’occorrente per la cena, scoprite che non ci sono abbastanza casse aperte anche se è l’ora di punta, e dovete fare una fila chilometrica, il che è assurdo e vi manda in bestia, ma non potete prendervela con la cassiera isterica, oberata com’è quotidianamente da un lavoro così noioso e insensato che tutti noi qui riuniti in questa prestigiosa università nemmeno ce lo immaginiamo…fatto sta che finalmente arriva il vostro turno alla cassa, pagate il vostro cibo, aspettate che una macchinetta autentichi il vostro assegno o la vostra carta di credito e vi sentite augurare “buona giornata” con una voce che è esattamente la voce della morte, dopodichè mettete quelle raccapriccianti buste di plastica sottilissima nell’esasperante carrello dalla ruota impazzita che tira a sinistra, attraversate tutto il parcheggio intasato, pieno di buche e di rifiuti, e cercate di caricare la spesa in macchina in modo che non esca dalle buste rotolando per tutto il bagagliaio lungo il tragitto, in mezzo al traffico lento, congestionato, strapieno di Suv dell’ora di punta, eccetera, eccetera.
Ci siamo passati tutti, certo: ma non rientra ancora nella routine di voi laureati, giorno dopo settimana dopo mese dopo anno. Pero’ finirà col rientrarci, insieme a tante altre squallide, fastidiose routine apparentemente inutili… Ma non è questo il punto. Il punto è che la scelta entra in gioco proprio nelle boiate frustranti e di poco conto come questa. Perchè il traffico congestionato, i reparti affollati e le lunghe file alla cassa mi danno il tempo per pensare, e se non decido consapevolmente come pensare e a cosa prestare attenzione, saro’ incazzato e giù di corda ogni volta che mi tocca fare la spesa, perchè la mia modalità predefinita naturale dà per scontato che situazioni come questa contemplino davvero esclusivamente ME. La mia fame, la mia stanchezza, il mio desiderio di tornare a casa, e avro’ la netta impressione che tutti gli altri mi intralcino.
E chi sono tutti questi che mi intralciano? Guardali là, fanno quasi tutti schifo mentre se ne stanno in fila alla cassa come tanti stupidi pecoroni con l’occhio smorto e niente di umano; e che odiosi poi quei cafoni che parlano al forte al cellulare in mezzo alla fila. Certo che è proprio un’ingiustizia: ho sgobbato tutto il santo giorno, muoio di fame, sono stanco e non posso nemmeno andare a casa a mangiare un boccone e a distendermi un po’ per colpa di tutte queste stupide, stramaledette persone. Oppure, se gli studi umanistici fanno propendere la mia modalità predefinita verso una maggiore coscienza sociale, posso trascorrere il tempo imbottigliato nel traffico di fine giornata a inorridire per tutti gli enormi, stupidi Suv, Hummer e pickup con motore da 12 valvole che bloccano la corsia bruciando tutti e centottanta i litri di benzina che hanno in quei loro serbatoi spreconi e egoisti, posso riflettere sul fatto che gli adesivi patriottici o religiosi sembrano sempre appiccicati sui veicoli più grossi e schifosamente egoisti, guidati dagli autisti più osceni, spericolati e aggressivi, che di norma parlando al cellulare mentre ti tagliano la strada per guadagnare sei stupidi metri nel traffico congestionato, e posso pensare che i figli dei nostri figli ci disprezzeranno per aver sperperato tutto il carburante del futuro, mandando in malora il clima, e a quanto siamo viziati, stupidi, egoisti e ripugnanti, e a come fa tutto veramente schifo e chi più ne ha più ne metta…
Guardate che se scegliete di pensarla così non c’è niente di male, lo facciamo in tanti, solo che pensarla così diventa talmente facile e automatico che non richiede una scelta. Pensarla così è la mia modalità predefinita naturale. E’ il mio modo automatico e inconsapevole di affrontare le parti noiose, frustranti e caotiche della mia vita da adulto quando agisco in base alla convinzione automatica e inconsapevole che sono io il centro del mondo, e che sono le mie sensazioni e i miei bisogni immediati a stabilire l’ordine di importanza delle cose. Il fatto è che in frangenti come questo si puo’ pensare in tanti modi diversi. Nel traffico, con tutti i veicoli che mi si piazzano davanti e mi intralciano, non è da escludere che a bordo dei Suv ci sia qualcuno che in passato ha avuto uno spaventoso incidente e ora ha un tale terrore di guidare che il suo analista gli ha ordinato di farsi un Suv mastodontico per sentirsi più sicuro alla guida; o che al volante dell’Hummer che mi ha appena tagliato la strada ci sia un padre che cerca di portare di corsa in ospedale il figlioletto ferito o malato che gli siede accanto, e la sua fretta è maggiore e più legittima della mia: anzi, sono io a intralciarlo. Oppure posso scegliere di prendere mio malgrado in considerazione l’eventualità che tutti gli altri in fila alla cassa del supermercato siano annoiati e frustrati almeno quanto me, e che qualcuno magari abbia una vita nel complesso più difficile, tediosa e sofferta della mia. Vi prego ancora una volta di non pensare che voglia darvi dei consigli morali, o che vi stia dicendo che “dovreste” pensarla così, o che qualcuno si aspetta che lo facciate automaticamente, perchè è difficile, richiede forza di volontà e impegno mentale e, se siete come me, certi giorni non ci riuscirete proprio, o semplicemente non ne avrete nessuna voglia.
Ma quasi tutti gli altri giorni, se siete abbastanza consapevoli da offrirvi una scelta, potrete scegliere di guardare in modo diverso quella signora grassa con l’occhio smorto e il trucco pesante in fila in cassa che ha appena sgridato il figlio: forse non è sempre così; forse è stata sveglia tre notti di seguito a stringere la mano al marito che sta morendo di cancro alle ossa. O forse è quella stessa impiegata assunta alla Motorizzazione col minimo salariale che soltanto ieri ha aiutato vostra moglie a risolvere un problema burocratico da incubo facendole una piccola gentilezza di ordine amministrativo. Non è molto verosimile, d’accordo, ma non è nemmeno da escludere: dipende solo da cosa volete prendere in considerazione.
Se siete automaticamente certi di sapere cosa sia la realtà e chi e che cosa siano davvero importanti - se volete operare in modalità predefinita - allora anche voi, come me, probabilmente trascurerete tutte le eventualità che non siano inutili o fastidiose. Ma se avrete davvero imparato a prestare attenzione, allora saprete che le alternative non mancano. Avrete davvero la facoltà di affrontare una situazione caotica, chiassosa, lenta, iperconsumistica, trovandola non solo significativa ma sacra, incendiata dalla stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa a tutte le cose. Misticherie non necessariamente vere. L’unica cosa Vera con la V maiuscola è che riuscirete a decidere come cercare di vederla. Questa, a mio avviso, è la libertà che viene dalla vera cultura, dall’aver imparato a non essere disadattati; riuscire a decidere consapevolmente che cosa importa e che cosa no.
Riuscire a decidere che cosa venerare… Ecco un’altra cosa vera. Nelle trincee quotidiane della vita da adulti l’ateismo non esiste. Non venerare è impossibile. Tutti venerano qualcosa. L’unica scelta che abbiamo è che cosa venerare. E un motivo importantissimo per scegliere di venerare un certo dio o una cosa di tipo spirituale - che sia Gesù Cristo o Allah, che sia YHWH o la dea madre della religione Wicca, le Quattro Nobili Verità o una serie di principi etici inviolabili - è che qualunque altra cosa veneriate vi mangerà vivi. Se venerate il denaro e le cose, se è a loro che attribuite il vero significato della vita, non vi basteranno mai. Non avrete mai la sensazione che vi bastino. E’ questa la verità. Venerate il vostro corpo, la vostra bellezza e la vostra carica erotica e vi sentirete sempre brutti, e quando compariranno i primi segni del tempo e dell’età, morirete un milione di volte prima che vi sotterrino in via definitiva. Sotto un certo aspetto lo sappiamo già tutti benissimo: è codificato nei miti, nei proverbi, nei cliché, nei luoghi comuni, negli epigrammi, nelle parabole; è la struttura portante di tutte le grandi storie. Il segreto consiste nel dare un ruolo di primo piano alla verità nella consapevolezza quotidiana. Venerate il potere e finirete col sentirvi deboli e spaventati, e vi servirà sempre più potere sugli altri per tenere a bada la paura. Venerate l’intelletto, spacciatevi per persone in gamba, e finirete col sentirvi stupidi, impostori, sempre sul punto di essere smascherati. E così via.
Guardate che l’aspetto insidioso di queste forme di venerazione non è che sono malvagie o peccaminose, è che sono inconsapevoli. Sono modalità predefinite. Sono il genere di venerazione in cui scivolate per gradi, giorno dopo giorno, diventando sempre più selettivi su quello che vedete e sul metro che usate per giudicare senza rendervi nemmeno ben conto di farlo. E il cosiddetto “mondo reale” non vi dissuaderà dall’operare in modalità predefinita, perchè il cosiddetto “mondo reale” degli uomini, del denaro e del potere vi accompagna con quel suo piacevole ronzio alimentato dalla paura, dal disprezzo, dalla frustrazione, dalla brama e dalla venerazione dell’io. La cultura odierna ha imbrigliato queste forze in modi che hanno prodotto ricchezza, comodità, libertà personale a iosa. La libertà di essere tutti sovrani dei nostri minuscoli regni formato cranio, soli al centro di tutto il creato. Una libertà non priva di aspetti positivi. Cio’ non toglie che esistano svariati generi di libertà, e il genere più prezioso è spesso taciuto nel grande mondo esterno fatto di vittorie, conquiste e ostentazione.
Il genere di libertà davvero importante richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri e di sacrificarsi costantemente per loro, in una miriade di piccoli modi che non hanno niente a che vedere col sesso, ogni santo giorno. Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo: essere continuamente divorati dalla sensazione di aver avuto e perso qualcosa di infinito. So che questa roba forse non vi sembrerà divertente, leggera o altamente ispirata come invece dovrebbe essere nella sostanza un discorso per il conferimento delle lauree. Per come la vedo io è la verità sfrondata da un mucchio di cazzate retoriche. Ovvio che potete prenderla come vi pare. Ma vi pregherei di non liquidarlo come uno di quei sermoni che la dottoressa Laura impartisce agitando il dito. Qui la morale, la religione, il dogma o le grandi domande stravaganti sulla vita dopo la morte non c’entrano. La Verità con la V maiuscola riguarda la vita prima della morte. Riguarda il valore vero della vera cultura, dove voti e titoli di studio non c’entrano, c’entra solo la consapevolezza pura e semplice: la consapevolezza di cio’ che è così reale e essenziale, così nascosto in bella vista sotto gli occhi di tutti da costringerci a ricordare di continuo a noi stessi: “Questa è l’acqua, questa è l’acqua; dietro questi eschimesi c’è molto più di quello che sembra”. Farlo, vivere in modo consapevole, adulto, giorno dopo giorno, è di una difficoltà inimmaginabile. E questo dimostra la verità di un altro cliché: la vostra cultura è realmente il lavoro di una vita, e comincia…adesso. Augurarvi buona fortuna sarebbe troppo poco.
Wallace D. F. (2010),"Questa è l'acqua". Einaudi Editore.