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martedì 3 novembre 2020

L'impatto della pandemia da virus COVID-19 sui pazienti con disturbi alimentari



I pazienti condividono molti degli effetti collaterali negativi dell'isolamento.
Mentre la quarantena obbligatoria a causa del virus COVID-19 continua, sta emergendo un quadro degli effetti dell'isolamento. Gli effetti includono depressione maggiore e ansia. Ulteriori fattori di rischio che si uniscono al quadro pandemico e che possono contribuire alla probabilità di sviluppare un disturbo alimentare, sono l'aumento del tempo trascorso utilizzando i social media e le influenze tossiche date dall'oggettivazione dell'ideale di magrezza su Internet. L'isolamento e la solitudine sono conseguenze comuni nell'anoressia nervosa e possono essere esacerbate dalla quarantena imposta.
Difficoltà nella regolazione degli affetti e dell'emotività possono altrettanto innescare i sintomi dei disturbi alimentari (ad es. episodi di alimentazione incontrollata e conseguenti condotte di eliminazione), mentre l'aumentato controllo esterno può essere una causa di riduzione nell'assunzione di cibo. Un altro fattore di rischio riguarda il trattamento: nel contesto del COVID-19, e in molte strutture sanitarie, vengono fornite solo visite urgenti e cure ospedaliere per i casi di disturbi alimentari gravi. Pertanto laddove possibile, si raccomanda di seguire trattamenti online, piuttosto che visite di persona.

Uno studio pilota fornisce alcune risposte
Un studio pilota ha fornito nuove informazioni sui pazienti DCA confinati a casa durante la pandemia COVID-19 (Eat Disord Rev.2020; 28: 239). Fernando Fernández-Aranda e colleghi dell'Unità per i disturbi ALIMENTARI dell'Ospedale universitario di Bellvitgel, a Barcellona in Spagna, hanno utilizzato un sondaggio telefonico per monitorare le prime due settimane di reclusione di 32 pazienti DCA (13 con Anoressia, 10 con Bulimia, 5 con altri disturbi dell'alimentazione (OSFED) e 4 con Binge eating). L'età media dei partecipanti era di 29 anni e la maggior parte erano donne.

Incertezze crescenti
La maggior parte dei pazienti ha espresso preoccupazione per l'aumento delle incertezze nella propria vita, come il rischio di infezione da COVID-19 di se e dei propri cari, il possibile impatto negativo sulla scuola o sul lavoro. Il 38% ha riportato un aumento della compromissione dei sintomi DCA e il 6% ha riportato sintomi di ansia peggiorati. Quattro pazienti hanno notato che lo stress rendeva loro molto difficile controllare il loro comportamento e il mangiare emotivo.
Connettersi con gli altri mentre si è in isolamento
In che modo i pazienti gestivano la comunicazione con gli altri mentre erano isolati a casa? Gli intervistatori hanno scoperto che i pazienti con Anoressia erano ambivalenti sull'uso dei social media e delle videochiamate. Un aspetto negativo dell'utilizzo delle videochiamate per i pazienti con Anoressia è stata la maggiore consapevolezza del corpo riflesso al cellulare, che spingeva all'autocritica e che é stato percepito come dannoso per la guarigione. Alcuni pazienti hanno modificato ciò che era visibile attraverso i loro account sui social media e si sentivano molto più a loro agio seguendo account di supporto, tra persone positive e alla pari in fase di guarigione, basati sul recupero. Altri, invece, ritenevano che fosse più sicuro evitare forme di comunicazione che potessero potenzialmente innescare reazioni dannose.

Gli effetti sui caregiver
I caregiver hanno dimostrato una forte consapevolezza circa i problemi dell'isolamento e le accresciute sfide di comunicazione per i loro cari con Anoressia, così come per se stessi, mostrandosi pieni di risorse nell'apprendimento e nella condivisione di idee a riguardo. La necessità di una routine strutturata è stata sottolineata come cruciale per i pazienti DCA, come modo per affrontare il cambiamento e prevenire la noia, che spesso portava a maggiori preoccupazioni per i sintomi alimentari. I caregiver hanno descritto il loro ruolo nel supporto e nella gestione del recupero della persona amata durante la pandemia come accresciuto. Hanno condiviso idee creative su come progettare piani alimentari a casa e aiutare i pazienti a intraprendere la terapia, come ad esempio challenge di ristoranti a casa. Le strategie di coping dei caregiver durante l'isolamento hanno comportato un aumento del carico e hanno modificato le dinamiche familiari. Bilanciare i bisogni del membro della famiglia con DCA per fornire stabilità, con la flessibilità per adattare i bisogni dell'intera famiglia, in particolare dei bambini, è stato vissuto come cruciale per i genitori. Molti hanno espresso la difficoltà nel bilanciare le molteplici esigenze di assistenza e adattamento con il lavoro, la confusione e l'aumentato rischio di suicidio.

Fonte: Eating Disorders Review vol. 31/N.5 24/10/2020 

lunedì 13 aprile 2015

Di Jonathan Shedler - La relazione terapeutica nella terapia psicodinamica rispetto a quella CBT (cognitivo-comportamentale)

I primi legami d'attaccamento costituiscono un modello per le relazioni successive.
Come risultato di ciò, ripetiamo questi modelli nelle nostre relazioni per tutta la vita. Poiché sono presenti sin dall'inizio, questi pattern possono essere per noi invisibili come lo è l'acqua per un pesce.
Tuttavia essi danno forma al nostro destino.

La terapia comprende una relazione, e i pazienti portano al suo interno la propria sagoma e i propri pattern. Come terapeuti, entriamo nel campo gravitazionale dei modelli relazionali problematici dei pazienti, facendo esperienza e partecipando ad essi. Attraverso il riconoscimento della nostra inevitabile partecipazione a questi modelli, possiamo aiutare i nostri pazienti a capirli e rielaborarli.

Questa è una terapia che cambia la vita. Questo è il cuore della terapia psicodinamica.

Caroline, una donna sulla trentina, è elegante, colta, di successo. Si presenta con un portamento regale e assomiglia e si veste con abiti simili a quelli di una modella di Vogue. E' corteggiata dal tipo di uomini che la maggior parte delle donne può solo fantasticare di avere. Eppure è sola. Non  è stata capace di mantenere una relazione intima e soffre di attacchi di depressione.
Kate Moss, top model e icona di stile, su una copertina di Vogue Brasile.
Caroline ha fatto diversi tentativi di terapia. Racconta che, purtroppo, non è mai cambiato davvero nulla, e che i terapeuti finiscono sempre per desiderare di ottenere la sua approvazione.

I colleghi addestrati in CBT e altre terapie "evidence-based" raramente attribuiscono un significato al commento di Caroline sulle sue precedenti relazioni terapeutiche. Alcuni azzardano che Caroline può aver bisogno di un terapeuta molto "sicuro" che non si senta intimidito dai suoi sguardi, il suo successo, o il suo status sociale.

Da un punto di vista psicodinamico, è irrilevante se il terapeuta di Caroline è sicuro o insicuro a livello personale. Lei non ha bisogno di un terapeuta sicuro. Ha bisogno di un terapeuta con sufficente consapevolezza di sé e coraggio da notare quella botta di insicurezza che si prova in presenza di Caroline, e gestirla come informazione, utilizzandola al servizio della comprensione.

Tale terapeuta potrebbe dire: "Sai, sei venuta qui per ricevere il mio aiuto eppure in molte delle nostre interazioni, sono consapevole di provare la vaga sensazione di volerti impressionare o guadagnare la tua approvazione, che chiaramente non ti aiuta affatto. Sto cercando di capire che significa, e se potrebbe essere una finestra su cui affacciarsi per comprendere qualcosa di importante a proposito delle tue relazioni, più in generale. Forse questo è qualcosa di familiare per te".

Mr. Quinn, autore della statua raffigurante Kate Moss afferma di averla vista come una "moderna afrodite". Kate ha commentato che la statua sembrerebbe elevarla a mito ma ha anche affermato di amarla particolarmente perchè stabilisce una differenza netta tra com'è realmente e come appare. Per l'intervista vedi: http://www.telegraph.co.uk/news/celebritynews/3122144/Kate-Moss-gold-statue-unveiled-at-British-Museum.html

E lì, la terapia vera e propria può iniziare.

Caroline non avrebbe potuto descrivere cosa è andato storto nelle sue relazioni: ciò che ha fatto per cercare di attirare vicino a sé le persone è proprio ciò che preclude reciprocità e intimità.
Le donne erano invidiose o rispettose. Gli uomini la vedevano come una potenziale conquista, o "out of their league" - al di fuori della loro portata. In entrambi i casi, ogni tipo di legame intimo era impossibile.

Caroline non era in grado di comunicare questo al suo terapeuta; lei lo mostrava.
Ciò che il paziente fa nella stanza con il terapeuta rivela pattern relazionali che durano da tutta una vita.  Nella relazione terapeutica, questi modelli possono essere riconosciuti, compresi, e rielaborati.

Questo è fondamentale per la terapia psicodinamica e assente in altri tipi di terapie.

Un importante autore e leader teorico della CBT ha scritto un articolo su miti e realtà della CBT. Un mito, secondo questo autore, è che la CBT minimizza l'importanza della relazione terapeutica. Per mostrare che non è così, ha spiegato che i terapeuti CBT "fanno molte cose per costruire una forte alleanza. Ad esempio, lavorano in collaborazione con i clienti...chiedono un feedback...e si comportano come esseri umani autentici, caldi, empatici, interessati, premurosi".

Questo è il tipo di rapporto che mi aspetterei di ricevere dal mio parrucchiere o dall'intermediario immobiliare. Da uno psicoterapeuta, mi aspetto qualcosa di diverso. L'autore CBT sembrava non avere idea che la relazione terapeutica fornisce una speciale finestra sul mondo interno del paziente, o un laboratorio relazionale e un santuario in cui i pattern di tutta una vita possono essere riconosciuti e compresi, e altri, nuovi, creati.

Alcuni pazienti possono sentirsi soddisfatti con terapeuti che "collaborano" durante lo svolgimento di una terapia seguendo un manuale di istruzioni (si può leggere un blog di Jonathan Shedler sulla terapia "manualizzata" qui). Coloro che vogliono cambiare il loro destino vorranno un terapeuta con consapevolezza di sé, conoscenza, e coraggio per osservare e parlare di ciò che conta.

Jonathan Shedler, Ph.D ( http://jonathanshedler.com/ ) è Professore Associato presso la University of Colorado School of Medicine. Insegna e conduce laboratori per il pubblico professionale nazionale e internazionale e fornisce consulenza clinica e supervisione ( http://jonathanshedler.com/consultation/ ) in teleconferenza a professionisti della salute mentale in tutto il mondo.

fonte: https://www.psychologytoday.com/blog/psychologically-minded/201503/the-therapy-relationship-in-psychodynamic-therapy-versus-cbt

giovedì 15 agosto 2013

Di Jonathan Shedler - Alcuni consigli su come scegliere un terapeuta



Il Freud Museum di Londra presenta Divan: pezzo di attenzione libera fluttuante, un progetto  dell'artista messicano Santiago Borja. La proposta di Borja mira a favorire nuove letture del lavoro di Freud in relazione alle culture non europee. http://www.freud.org.uk/exhibitions/72952/divan-free-floating-attention-piece/

Dopo aver insegnato a diverse generazioni di psicologi e psichiatri come fare psicoterapia, conosco una vasta gamma di terapie e teorie - per questo non le impongo ai miei pazienti.

Fate attenzione ai terapeuti troppo identificati con un "marchio" di terapia. Hanno già deciso come trattarvi ancor prima di avervi incontrato, figuriamoci ascoltarvi. Fate anche attenzione ai terapeuti che proclamano competenze in diverse forme di psicoterapia. Si può finire con un principiante, o qualcuno che si preoccupa di più di riempire la sua agenda, che della sua integrità.

Attenzione ai terapeuti che enfatizzano una specializzazione in determinate diagnosi o disturbi.
Una diagnosi ci dice poco su come aiutare. Le cause del dolore emotivo sono generalmente intrecciate nel tessuto della nostra vita, come viviamo, come vediamo noi stessi e gli altri, come ci rapportiamo con la gente o non riusciamo a rapportarci, ciò che desideriamo e ciò di cui abbiamo paura, come far fronte alle avversità e al successo, ciò che sappiamo di noi stessi e ciò che non vogliamo sapere.
Una importante competenza del terapeuta consiste nel capire come tale tessuto è intrecciato e come può potenzialmente essere ritessuto, e non nella diagnosi o nel disturbo.

Le prime sedute dovrebbero concentrarsi sullo sviluppo di una comprensione condivisa rispetto a ciò che costituisce realmente il problema, una comprensione che abbia senso per entrambi.
"Quella che è davvero la questione" non è la vostra depressione, ansia, o disturbo alimentare. Ma quello che sta succedendo psicologicamente, sotto la superficie delle cose, che causa questi problemi. Una visione condivisa di quello che è il problema fornisce un punto di riferimento per la terapia.
Una psicoterapia efficace ha un obiettivo.

Si può sviluppare una visione condivisa nel corso della prima seduta, oppure possono essere necessarie diverse sedute. Tale visione evolverà e cambierà con il progredire della terapia. Essa potrà essere rielaborata più volte: è dinamica, e non statica.
Ci dovrebbe essere un obiettivo tuttavia, fin dall'inizio, una base su cui costruire.

Molti terapeuti parlano di "alleanza terapeutica", ma pochi sembrano capire che cosa sia realmente. Alleanza terapeutica non significa soltanto che paziente e terapeuta vanno d'accordo, o che si trovano bene insieme. Non è un'alleanza basata su una cosa qualunque.
Un'alleanza terapeutica si basa su un comune, mutuo accordo sul compito da svolgere - un'alleanza su tutto il lavoro che c'è da fare.

Una buona alleanza terapeutica riguarda tre elementi:
1) il senso di legame,
2) un reciproco accordo circa l'obiettivo o scopo della psicoterapia,
3) un reciproco accordo sui metodi che paziente e terapeuta useranno a servizio di tale obiettivo.
Tutti e tre gli elementi sono necessari. Spesso riscontro il primo elemento senza gli altri due.

Una comprensione condivisa rispetto al problema deve essere realmente condivisa.
Non può essere soltanto la comprensione del terapeuta, o soltanto la comprensione del paziente.
E' qualcosa che paziente e terapeuta devono creare insieme, e che trascende ciò che ognuno di loro  saprebbe da solo.
Se si potesse raggiungere tale comprensione da soli, probabilmente non si avrebbe bisogno della terapia.
Il compito del terapeuta è quello di aiutare a risolvere il problema in un modo che non è fattibile stando da soli. Quando si arriverà a una comprensione condivisa, si avrà la consapevolezza di aver catturato qualcosa di importante.

Un'immagine di Jonathan Shedler, PhD, tratta dalla sua pagina Facebook, in cui ha postato questo articolo.

I miei studenti mi chiedono sempre cosa fare quando i pazienti non hanno idea di quale sia il problema.
Il paziente sa che c'è qualcosa che non va, ma non sa dire che cosa.
Sente un vuoto interiore, si sente perduto o bloccato, ma non ha idea del perché.
E' in questo caso che l'aiuto del terapeuta è essenziale, perché il terapeuta è in grado di offrire una prospettiva che il paziente non potrebbe avere da solo. Ad esempio il terapeuta può offrire il proprio punto di vista, cioè che il problema potrebbe essere che il paziente è estraneo rispetto a se stesso.
In questi casi si può dire al paziente: "Sente che qualcosa va molto male, ma non trova le parole per dirlo. Forse potrebbe aiutarla riuscire a trovare delle parole per descrivere ciò che va male. Se riusciamo insieme a trovare delle parole, saremo in grado di vedere le cose in modo più chiaro. Quando vediamo le cose più chiaramente, possiamo essere in grado di trovare una via d'uscita".

Poi si può chiedere, ed è fondamentale affinchè la comprensione sia realmente condivisa: "Pensa che sarebbe utile se riuscissimo a trovare delle parole per ciò che non va?".
Se il paziente entra in risonanza con questo - se sente anche lui che la ricerca di parole lo aiuterà - allora abbiamo un focus iniziale per il nostro lavoro.
Il compito condiviso è quello di trovare le parole. Il paziente non riesce a trovare le parole giuste da solo, e anche il terapeuta non può trovare le parole giuste senza l'aiuto del paziente; ma insieme sarà possibile trovarle.
Il focus del trattamento evolverà nel tempo, ma ora si ha un punto di partenza.

Se il paziente non è in sintonia con l'idea che la ricerca di parole potrà aiutarlo, bisogna tornare indietro e continuare a esplorare finchè non si trova un obiettivo sul quale entrambi siano d'accordo, e che sia per entrambi fruttuoso, da cui poter ripartire.

Non sempre un "sì" è la vera risposta.
Se il paziente è d'accordo con una particolare visione del trattamento proposta, ma si impegna nella terapia in un modo che suggerisce accondiscendenza, non c'è una visione condivisa. E' solo una  comprensione parziale del problema, e non condivisa.
Se il paziente è d'accordo soltanto perché presume che il terapeuta ne saprà più di lui perché è l'"esperto", non c'è una comprensione condivisa.
Anche in questo caso, bisogna tornare indietro e continuare ad esplorare.
(Ma ora abbiamo anche una nuova ipotesi su ciò che potrebbe costituire il problema. Se il paziente ha l'abitudine di delegare ad altri ciò che è giusto per lui, invece di padroneggiare i propri pensieri e sentimenti, questo potrebbe essere la causa di ciò che non va e del perché non trova delle parole per dirlo. Si solleverà quindi la questione al fine di porla in considerazione).

Quando scrivo di psicoterapia, divento più consapevole della terminologia. Per questo motivo avverto la necessità di spendere qualche parola a proposito dell'utilizzo del termine 'paziente' rispetto al termine 'cliente'.
Molti terapeuti, e diversi psichiatri, definiscono i loro assistiti come "clienti".
Personalmente ho dubbi su entrambe le parole.
Le persone che vengono da me per un trattamento hanno bisogno di aiuto, a volte con urgenza. Alcuni sentono di avermi affidato letteralmente la loro vita.
Il lavoro che facciamo ha profonde conseguenze, spesso permanenti (se non non fosse così, non sarebbe psicoterapia).
Ad ogni modo dal mio punto di vista, la metafora medica ('paziente') appare più congrua con quanto  è in gioco rispetto alla metafora commerciale ('cliente').

E allora, come si fa a scegliere un terapeuta?
Evitate gli ideologi e gli esperti-di-tutto.
Non cercate in lungo e in largo qualcuno specializzato nel trattamento di persone che hanno esattamente il vostro identico problema, perché non esistono altre persone che hanno esattamente il vostro problema.
Quando incontrate il terapeuta scelto, osservate se sembra più interessato a voi o a diagnosticarvi un disturbo.
Osservate se lo psicoterapeuta vi invita a riflettere insieme su quello che è realmente il problema. Notate se insieme siete in grado di sviluppare una comprensione condivisa rispetto a ciò che costituisce il problema, una comprensione che suona vera per voi.
Questa parte di lavoro potrebbe richiedere più sedute, ma il percorso da intraprendere dovrebbe procedere fin dall'inizio in questa direzione.
Se tutti questi ingredienti sono presenti, probabilmente ne avete trovato uno buono!

Jonathan Shedler, Ph.D ( http://jonathanshedler.com/ ) è Professore Associato presso la University of Colorado School of Medicine. Insegna e conduce laboratori per il pubblico professionale nazionale e internazionale e fornisce consulenza clinica e supervisione ( http://jonathanshedler.com/consultation/ ) in teleconferenza a professionisti della salute mentale in tutto il mondo.


fonte: https://www.facebook.com/jonathan.shedler

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