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martedì 28 novembre 2017

Ella Freeman Sharpe: il linguaggio del sogno in analisi


La persona che parla in modo vitale mediante l’uso di metafore sa, 
ma non sa in modo conscio, ciò che sa inconsciamente. Sharpe, 1940, p. 213 


Ella Freeman Sharpe, è stata una delle prime donne psicoanaliste. La Sharpe fu un’insegnante d’inglese del Pupil’s Teacher Center di Hucknall dal 1904 al 1917. In seguito agli eventi della prima guerra mondiale, sviluppò un quadro ansioso e depressivo dovuto alla morte di molti dei suoi alunni durante gli scontri. Si avvicinò così alla psicoanalisi, intraprendendo un percorso personale con James Glover. La Sharpe abbandonò quindi l’insegnamento e si trasferì a Londra per seguire un training psicoanalitico. Intraprese una seconda analisi con Hann Sachs nel 1920. Nel 1923 fu eletta membro della Società Psicoanalitica Britannica. In seguito alle Controversial Discussions, La Sharpe prese posizione nel Middle Group (gruppo degli indipendenti) (Alexander, Eisenstein, Grotjahn, 1966).
L’interesse della Sharpe per la letteratura, in particolare per Shakespeare, la portò ad approfondire, come avvenne per Rank, le similitudini tra l’artista e il nevrotico. Analizzando la figura del grande poeta inglese, l’autrice concluse che l’artista, a differenza del nevrotico, neutralizza i suoi conflitti mediante la loro sublimazione.
Ella Freeman Sharpe è spesso ricordata come l’analista inglese che intraprese il maggior numero di analisi di training, per questo motivo il suo lavoro fu maggiormente clinico che teorico. Tuttavia compose alcuni scritti sulla tecnica psicoanalitica, in particolare sul controtransfert (Alexander, Eisenstein, Grotjahn, 1966).
L’analisi dei sogni riveste per questa autrice un’importanza storica particolare poiché il suo contributo su questo tema è stato considerato un precursore delle teorie lacaniane sul linguaggio. In tal senso l’autrice è stata considerata come un ponte tra Freud e Lacan (Voruz, Wolf, 2007).
Secondo l’autrice il lavoro onirico era molto simile a quello della dizione poetica: similitudini, metafore, onomatopee, eufemismi, drammatizzazione, antitesi, sono tutti elementi che sia il sogno che la poesia condividono. L’autrice inoltre riteneva che il materiale onirico, come il linguaggio derivasse non solo da concetti concreti, ma anche da sensazioni fisiche.
La parola, secondo la Sharpe, può acquisire significati secondari e terziari, ma non perde mai la sua connotazione multipla originaria con gli elementi primitivi di natura sensoriale, nonostante venga continuamente utilizzata.
Per poter comprendere a fondo le parole – spiega l’autrice – bisogna considerare la somma dei significati, ovvero sia quelli relativi al presente, che quelli relativi al passato.

mercoledì 5 luglio 2017

Fluttuazioni narcisistiche e compassione nello sviluppo e decorso dei DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare)



Searching all directions with your awareness, 
you find no one dearer than yourself. 
In the same way, others are thickly dear to themselves. 
So you shouldn't hurt others if you love yourself.

(TheravadaUdana 47 - Rajan Sutta)

Viruncamban, uno dei dodici giganti demoni guardiani Ramayana all'aereoporto Suvarnabhumi (Bangkok, Thailand). La statua riproduce lo stesso gigante del Temple of the Emerald Buddha (Wat Phra Kaew). Viruncamban, dal volto blu e gli occhi da coccodrillo, aveva il potere di rendersi invisibile. Fu eletto da Tosakanth dopo che la meditazione del demone era stata interrotta. Dopo aver assistito alla morte dell'amico stretto Satasoon per mano di Hanuman, Viruncamban si rese invisibile a sé stesso e al suo esercito, e scurì il cielo per facilitare la sua fuga nell'oceano, mentre la sua falsa immagine combatteva instancabilmente. Sotto suggerimento di una fanciulla celeste denominata Wanarin, Viruncamban si nascose sotto il letto dell'oceano vicino al Monte Akatkiree.

Un recente articolo pubblicato sulla rivista Eating Behaviours ha esaminato il ruolo della compassione verso di sé, nelle problematiche relative all’immagine corporea e allo stile alimentare.
Cos’è la compassione per sé stessi? Essa riguarda un atteggiamento di cura e gentilezza verso di sé, piuttosto che di giudizio; la capacità di riflettere sul proprio dolore con umanità, piuttosto che rifugiarsi nell’isolamento; la consapevolezza dei propri limiti, piuttosto che rimuginare sui fallimenti (Neff, 2003a). 
Quali sono i rapporti tra autostima e compassione per sé stessi? L’autostima può essere definita come una valutazione complessiva positiva di sé (Rosenberg, 1965); la compassione riguarda invece una forma più stabile e incondizionata di cura di sé, che si differenzia dalle fluttuazioni narcisistiche (ad esempio assumere un atteggiamento rigidamente difensivo verso l’ottimismo o il pessimismo). In tal senso la differenza tra autostima e compassione per sé stessi consiste nell’espressione di un giudizio perentorio (polarizzato, fisso) riguardante il proprio valore, rispetto alla possibilità di accettarsi semplicemente per quel che si è nella propria unicità, cioè proprio perché “sé stessi”. 
La compassione verso di sé, ha comunque un’influenza significativa sull’equilibrio narcisistico: un sano livello di autostima infatti, prevede il riconoscimento delle proprie qualità e dei propri limiti in maniera bilanciata. Tale costrutto come aspetto basilare della compassione psicologica in senso più ampio (rivolta agli altri), è stata associato anche alla possibilità di riconoscere il proprio ruolo in situazioni di crisi, imparare dai propri errori, e alla capacità di riconoscere e accettare parti di sé (positive o meno) per ciò che sono.
In che modo la compassione verso di sé incide nello sviluppo dei DCA? Kelly, Vimalakhantan e Carter (2014) hanno trovato che il miglior predittore per lo sviluppo di disturbi alimentari consisteva in un basso livello di compassione verso di sé. Pazienti con problematiche alimentari che riuscivano a sviluppare la capacità di essere compassionevoli verso di sé durante il trattamento, mostravano una risposta migliore alle cure, nel corso di 12 settimane (Kelly, Carter, e Borairi, 2014). 
Questi dati suggeriscono che la possibilità di accettare sé stessi gioca un ruolo importante nella gestione dell’immagine corporea e nella gestione dell’alimentazione in relazione alle problematiche narcisistiche legate al piacersi fisicamente, e al “sentirsi abbastanza”. 
I ricercatori Kelly, Vimalakhantan e Carter (2014) hanno anche evidenziato un altro aspetto relativo alla compassione verso sé stessi: il timore di provarla oppure di ricevere compassione dagli altri risultava essere il miglior predittore rispetto al mantenimento della problematica alimentare. Come vengono letti questi risultati clinicamente? Ricevere compassione dagli altri o provare compassione verso di , può rappresentare un’esperienza relativamente spaventosa per alcuni individui in quanto essa implica un’ammissione di vulnerabilità (cioè della propria umanità rispetto a un’illusoria onnipotenza), che può essere negativamente letta come debolezza o fallibilità. Tale livello di perfettibilità in questi casi si scontrerà con le difese narcisistiche più resistenti (“devo essere perfetto/a o non sono niente”). 
Secondo Gilbert et al., (2011) le persone che temono di più la compassione in realtà sono convinte di non meritarla; oppure sono eccessivamente (irrealisticamente) preoccupate di abbassare i propri standard e apparire deboli agli altri (quindi in maniera amplificata a sé stessi). E’ stato visto che queste persone mostrano in media un livello più alto di psicopatologia rispetto alla popolazione totale.  
In conclusione, la capacità di ricevere e provare compassione è un importante fattore protettivo contro lo sviluppo di disturbi alimentari (così come altri tipi di dipendenze compulsive) e può facilitare la remissione dei sintomi quando il disturbo è già presente. Essa può quindi essere considerata un importante obiettivo terapeutico nel corso del trattamento dei DCA, e di altri tipi di disturbi in generale.
Bibliografia

Kelly, A.C., Carter, J.C., Borairi, S. (2014), Are improvements in shame and self-compassion early in eating disorders treatment associated with better patient outcomes? International Journal of Eating Disorders, 47(1),54-64.

Kelly, Vimalakhantan, Carter (2014), Understanding the role of self-esteem, self-compassion, and fear of self-compassion in eating disorder pathology: An examination of female students and eating disorder patients. Eating Behaviours, 15 (2014) 388-391.
Neff, K. D., (2003a), Self compassion: An alternative conceptualization of a healthy attitude toward oneself. Self and Identity, 2(2), 85-101.
Rosenberg, M. (1965), Society and the adolescent self-image. Princeton: Princeton University Press.

lunedì 24 marzo 2014

Donald W. Winnicott: stralcio da "Comunicare e non comunicare: studio su alcuni opposti" (1962) -


"Il gioco non è di fatto una questione di realtà interna, e neppure una questione di realtà esterna. Se il gioco non è né al di dentro, né al di fuori, dov'è? Fui vicino alla idea che esprimo nel mio lavoro La capacità di star da solo (1968b), in cui dissi che all'inizio il bambino è solo soltanto in presenza di qualcuno. Assistiamo all'impiego che un bambino fa di un oggetto transizionale, il primo processo di non-me e assistiamo al tempo stesso al primo uso che fa il bambino di un simbolo e la prima esperienza di gioco" (Gioco e realtà, 1971) .

"Nel corso della stesura di questo lavoro, mi sono trovato a sostenere il diritto di non comunicare. Questa era una mia intima protesta contro la spaventosa fantasia di essere sfruttato all'infinito, ovverosia contro la fantasia di essere mangiato o inghiottito, o ancora, contro la fantasia di essere scoperto.
Secondo me nella persona sana c'è un nucleo della personalità che corrisponde al vero Sè, questo nucleo non comunica mai con il mondo degli oggetti percepiti e il singolo individuo sa che esso non deve mai essere in comunicazione con la realtà esterna o influenzato da questa. Sebbene le persone sane comunichino e godano di questo comunicare, è pure vero l'altro fatto, ossia che ogni individuo è isolato, costantemente non comunicante, costantemente ignoto, di fatto non scoperto. Al centro di ogni persona c'è un elemento incomunicato, inviolabile, che è sacro e va preservato.
Il problema è: come stare isolato senza dover perciò essere distaccato? La risposta potrebbe venire dalle madri che possono comunicare con i loro piccoli solo nella misura in cui essi sono per loro oggetti soggettivi. Nel momento in cui gli infanti cominciano a percepire obiettivamente le madri, essi hanno già appreso a dominare diverse tecniche di comunicazione indiretta, la più evidente delle quali è il linguaggio. Esiste tuttavia un periodo transizionale, che mi ha particolarmente interessato, nel corso del quale si presentano oggetti e fenomeni transizionali che cominciano a fondare nel bambino l'uso dei simboli.
Secondo me, una condizione importante per lo sviluppo dell'Io sta in questa zona della comunicazione dell'individuo con fenomeni soggettivi, che sola dà la sensazione del reale. Nelle circostanze più favorevoli ha luogo l'accrescimento e il bambino possiede ora tre linee di comunicazione: la comunicazione che silenziosa per sempre, la comunicazione esplicita, indiretta e piacevole, e questa terza o intermedia forma di comunicazione che dal gioco si diffonde in esperienze culturali di ogni tipo.
La comunicazione silenziosa è legata al concetto del narcisismo primario? Le idee che siamo venuti esponendo hanno una portata pratica: esse ci suggeriscono che nel nostro lavoro dobbiamo tener conto del fatto che la non comunicazione del paziente può essere un contributo positivo, e ci impongono di chiederci se la nostra tecnica permette al paziente di comunicarci che non comunica. Il paziente può comunicare questo, solo se noi siamo pronti a cogliere il segnale con cui ce lo comunica e sappiamo distinguerlo dal segnale del disagio legato ad un'impossibilità a comunicare. In quanto stiamo dicendo c'è riferimento al concetto di essere solo in presenza di qualcuno, condizione che costituisce anzitutto un evento naturale della vita infantile e che in seguito è subordinata all'acquisizione di una  capacità di ritirarsi senza perdere l'identificazione con ciò da cui si è ritratti. Questa capacità si manifesta anche sotto forma di capacità di concentrarsi su un compito.
Ho cercato di dimostrare l'esigenza di riconoscere questo aspetto della salute: il Sè centrale non comunicante, immune per sempre dal principio di realtà, e silenzioso per sempre. Qui la comunicazione non è non-verbale; è assolutamente personale, come la musica delle sfere; essa rientra nell'esser vivo. E nello stato di salute, è da questo che sorge naturalmente la comunicazione.
La comunicazione esplicita è piacevole e implica tecniche estremamente interessanti, compreso il linguaggio. I due estremi, la comunicazione esplicita che è indiretta e la comunicazione silenziosa o personale, che fa sentire reali, hanno ciascuna il proprio costo, e nella zona culturale intermedia esiste per molti, ma non per tutti, una modalità di comunicazione che è un compromesso quanto mai prezioso".

giovedì 9 gennaio 2014

Masud Khan: l’influenza di Winnicott e la capacità di sognare





Il soggetto che sogna è l’intero soggetto. Khan, 1975, p. 50

Masud Khan, psicoanalista inglese di origine indiana, fu paziente e allievo di Ella Freeman Sharpe e di Donald Winnicott.
Tra i suoi principali contributi teorici ricordiamo il concetto di trauma cumulativo; Khan (1963) partendo dai concetti espressi da Ferenczi, Winnicott, Spitz e Bowlby, offre una prospettiva sul tema del trauma a cavallo tra la tradizione delle relazioni oggettuali inglesi e una nuova prospettiva, più francamente relazionale.
Il trauma cumulativo riguarda l’esperienza quotidiana e protratta di piccole defaillànce nelle cure materne, che generano nel bambino delle microfratture nella coesione del Sé. Tale genere di trauma non è riconoscibile come evento scatenante che è possibile isolare, ma al contrario come una serie di circostanze di distress e mancata sintonizzazione nella relazione con la madre, che appaiono fattori secondari nella valutazione dello stato di salute mentale del bambino, ma che tuttavia a lungo termine generano una situazione di frammentazione (Khan, 1963).
Nello specifico, il trauma cumulativo può caratterizzarsi per una serie di abbandoni, rifiuti, intrusioni, silenzi, mancata assoluzione delle necessità primarie del bambino di cure materne, che generano un vissuto di perdita ed inerzia e che può portare ad uno stato di alienazione.
Khan che risente dell’influsso dell’opera della Klein, nonostante sia schierato con il gruppo di mezzo degli indipendenti inglesi; indica nell’oggetto interno idoleggiato e composito un ultimo residuo della concezione kleiniana di oggetto interno.
L’oggetto composito riguarda l’introiezione di oggetti discordanti con il proprio Sé in una sorta di precoce dissociazione a partire dall’infanzia; mentre l’oggetto idoleggiato riguarda la possibilità di esteriorizzare gli aspetti discondarnti del Sé verso l’esterno mediante degli agiti perversi. Secondo Khan le perversioni sono un tentativo di autocura (Gazzillo, Silvestri, 2008).
Khan (1970) riflettendo sulla teoria freudiana elogia le scoperte del fondatore della psicoanalisi, in particolare relativamente alle sue capacità autoanalitiche e alla relazione amicale-transferale intrattenuta con l’amico Fliess. Secondo Khan, un amico è colui che consente di sperimentare vicinanza e distanza, sentimenti di ambivalenza nel processo autoconoscitivo (Gazzillo, Silvestri, 2008).
L’autore rivela le radici della sua formazione psicoanalitica riferendosi spesso
a Winnicott: “Ho incominciato a scoprire nel mio lavoro clinico con gli adulti, che questi possono servirsi dello spazio onirico esattamente nello stesso modo in cui il bambino usa lo spazio transizionale che gli offre il foglio di carta per i suoi scarabocchi” (Khan, 1972).
Nello scritto Uso e abuso del sogno nell’esperienza psichica l’autore approfondisce il tema della capacità ed incapacità di sognare, per spiegare come nel primo caso ciò consenta la creazione di uno spazio immaginativo in cui il sogno trova la possibilità di attualizzarsi; mentre nel secondo caso, di come l’incapacità di simbolizzare interferisca nella formazione del sogno. Winnicott (1971) in Gioco e realtà indica nelle personalità schizoidi – in contrapposizione con quelle caratterizzate da una più marcata impulsività – un opposto funzionamento in relazione al sogno: mentre lo schizoide cerca di “uscire dal sogno” per avvicinarsi maggiormente ai fatti della realtà esterna; le personalità impulsive al contrario, ricercano nel sogno la possibilità di entrare in maggiore contatto con il proprio mondo interno.
Khan (1972) illustra quindi come sia una caratteristica essenziale e allo stesso tempo comune, quella del momento in cui il paziente fa uno shift nel corso dell’analisi nella qualità e nell’uso dei sogni. Il sogno – secondo Khan – contiene materiale preconscio altamente descrittivo che viene represso nell’attività intrapsichica del paziente.
E’ il concetto di transfert secondo l’autore ad aver adombrato quello dell’interpretazione dei sogni; ma di fatto essi sono argomenti affini (Khan, 1972, p. 71).
Il lavoro di Khan sul sogno viene influenzato in particolare da due capitoli di Gioco e realtà (Winnicott, 1971): “Sogno, fantasia e vita reale”, e “L’uso di un oggetto ed entrare in rapporto mediante identificazioni”.
Nel volume, Winnicott presenta il caso clinico di una donna di mezz’età afflitta dal continuo tormento della fantasia o “daydreaming”. Il caso viene riportato da Winnicott (1971) come dissociazione primaria. La donna distingueva tra il vivere reale entrando in contatto con gli oggetti, e la fantasia onirica. Winnicott scrive: “tuttavia il fantasticare rimane un fenomeno isolato, che assorbe energia ma che non contribuisce né al sogno né alla vita reale. In qualche misura, il modo di fantasticare è rimasto statico per tutta la vita di questa paziente; vale a dire che esso datava dai primissimi anni, poiché il modello era già stabilito nel tempo in cui la paziente aveva due o tre anni. Ma era presente già da allora, e probabilmente aveva avuto inizio con una “cura” per farle smettere di succhiare il pollice” (p. 56).
Winnicott individua la differenza tra sogno e fantasia mediante i meccanismi difensivi che ognuno dei due processi psichici utilizza: per il primo è caratteristica la rimozione, mentre per il secondo la dissociazione. Attraverso il processo analitico, la donna riesce a guadagnare l’integrazione e le sue fantasie diventano più ancorate alla realtà. La differenza tra fantasia e stato dissociativo è molto sottile, maggiormente qualitativa che quantitava. Spiega Winnicott: 

La mia paziente è nella mia stanza per il suo trattamento ed un piccolo pezzo di cielo è accessibile alla sua vista. E’ sera. Dice: “Io sono su quelle nuvole rosa dove posso camminare”. Questo, naturalmente, potrebbe essere un volo dell’immaginazione. Potrebbe essere un modo in cui l’immaginazione arricchisce la vita, così come potrebbe essere materia per un sogno. Al tempo stesso per la mia paziente, questa cosa medesima può essere qualche cosa che appartiene ad uno stato di dissociazione e non può diventare conscio, nel senso che lì non c’è mai una persona intera per essere consapevole dei due o più stati dissociati che sono presenti ogni volta nello stesso momento. La paziente può stare seduta nella sua stanza, e pure senza fare assolutamente nulla tranne che respirare, ha (nella sua fantasia) dipinto un quadro, oppure fatto qualcosa di interessante nel suo lavoro, oppure ha fatto una passeggiata in campagna; ma dal punto di vista dell’osservatore nulla di tutto questo è accaduto. In realtà niente è probabile che accada, a causa del fatto che nello stato dissociato tante cose accadono. D’altra parte, essa può stare seduta nella sua stanza pensando al lavoro di domani e facendo programmi o pensando alle sue vacanze, e questo può essere una esplorazione immaginativa del mondo e del luogo in cui sogno e vita sono la stessa cosa. In questo
modo oscilla dallo star bene alla malattia e di nuovo allo star bene [...] Questa particolare donna ha talenti e potenzialità piuttosto eccezionali per varie forme di espressione artistica di sé, e conosce abbastanza della vita in genere e del vivere, nonchè della propria potenzialità, per riconoscere che, in termini di vita, lei sta perdendo l’autobus, e che ha sempre perduto l’autobus (quasi fin dall’inizio della sua vita). Inevitabilmente essa è una delusione per se stessa e per tutti quei parenti e amici che nutrono speranza su di lei. Essa sente, quando la gente spera in lei, che gli altri aspettano qualcosa di lei o da lei, e questo la porta a scontrarsi con la propria essenziale inadeguatezza. Tutto ciò è motivo di intensa sofferenza e di risentimento nella paziente ed è del tutto evidente che senza aiuto essa correva il rischio di suicidarsi, ciò che per lei sarebbe stato semplicemente la cosa da raggiungere più vicina all’omicidio. Quando giunge vicino all’omicidio comincia a proteggere il suo oggetto, così a quel punto ha l’impulso di uccidere se stessa e in tal modo porre fine alle proprie difficoltà mediante la propria morte e la loro cessazione. Il suicidio non porta soluzioni, soltanto la fine della lotta.
(Winnicott, 1971, pp. 57-58). 

Nel secondo capitolo citato da Khan (1972) di Gioco e realtà, l’autore indica come Winnicott fa differenza tra il relazionarsi con l’oggetto e il fare uso dell’oggetto: “Per usare un oggetto, il soggetto deve aver sviluppato una capacità di usare gli oggetti” (p. 143). Questa capacità è un’altra conseguenza della bontà dello sviluppo data dall’ambiente in cui il bambino cresce.
Tra l’uso dell’oggetto e la relazione con l’oggetto c’è uno spazio in cui il bambino avrebbe dovuto poter sperimentare l’onnipotenza. Questi fenomeni sono palesementi collegati alla realtà delle relazioni esterne, e non riguardano la semplice proiezione.
Queste idee di Winnicott sono ricondotte da Khan al modo in cui il paziente sogna in seduta.
L’autore racconta quindi il caso clinico di un paziente che nel pieno della sua analisi racconta un sogno molto lungo e complesso, di cui tuttavia riesce a ricordare sono una parte, nonostante esso occupi tutta la notte. Khan risponde al paziente chiedendogli se egli abbia effettivamente dormito durante la notte. Il paziente imbarazzato spiega che tale genere di sogni gli capitano sin dall’adolescenza lasciandogli un senso di depersonalizzazione e sfinimento.
Il paziente in realtà non dorme, piuttosto finisce in un macabro e strano stato di coscienza in cui rincorre episodi sempre più complessi del sogno rimanendo impantanato in tale processo. Si tratta – anche in questo caso – di un stato mentale dissociato in cui il paziente si rifugia per isolarsi dalla realtà circostante.
All’origine di questi episodi, il paziente associò degli incubi terrifici avuti durante l’infanzia. I traumi infantili del paziente hanno impedito la sua capacità di usare il sogno in modo maturo; ovvero come luogo in cui riporre i propri desideri e modo per preservare il sonno. Il paziente non aveva i requisiti esposti da Kahn (1962) nel precedente lavoro sulla capacità di sognare; per questo motivo egli poteva fare soltanto incubi.
Ciò che Khan (1972) vuole mettere in evidenza e ribadire rispetto al lavoro di Winnicott, è che la dissociazione può manifestarsi come uno stato onirico spaventoso e terrificante in cui il paziente si rinchiude per affrontare il trauma e per negare i suoi istinti libidici. Il paziente arriva al punto di scambiare il sogno con sé stesso, tanto che emerge sin dalle prime battute dell’analisi il racconto di un sogno che sembra “non finire mai”. L’analisi riesce quindi a porre fine a questo stato dissociativo strettamente collegato al sogno perchè, come affermato da Winnicott (1971), il paziente riesce a distinguere tra fantasia e realtà, sogno e realtà, dissociazione e realtà, riacquistando la connessione con il mondo esterno.
Il secondo argomento che Kahn discute è quello dell’attualizzazione dello 
spazio-onirico. L’analista deve essere in grado di distinguere tra il processo del sognare e lo spazio analitico in cui il sogno si attualizza. Riprendendo la definizione freudiana di sogno come appagamento di un desiderio, Khan (1972), ribadisce che il sogno è una capacità strettamente connessa alle funzioni dell’Io di usare la simbolizzazione (concetto base del freudiano lavoro onirico).
Khan illustra quindi il caso clinico di una ragazza di ventitre anni, in analisi da tre anni; descritta dall’autore come un caso che corrisponderebbe oggi alla diagnosi di disturbo borderline. La ragazza porta il seguente sogno in seduta: 

Nel mio sogno sono nella mia stanza e Peter mi sta scopando. Mi rendo conto di quello che sta accadendo e finisce. 

Khan è impressionato dall’incipit del sogno “Nel mio sogno”; esso indica uno spazio specifico del sogno. La ragazza nel corso delle associazioni fatte al sogno arriva a capire, mediante il sogno stesso, che nello spazio onirico è stato possibile per lei attualizzare l’esperienza del senso del Sé e della sua istintività che era stata, fino a poco prima agita verso l’esterno.
Il sogno è definito dunque da Kahn come un processo biologico della psiche umana che si configura come il risultato di uno sviluppo adeguato della persona, facilitato da cure ottimali e holding ambientale durante l’infanzia.
Per Khan (1972) il sogno è un nuovo spazio transizionale in cui la persona ripone i propri contenuti psichici. Se non si riesce a sviluppare tale capacità – secondo l’autore – il risultato sarà la tendenza all’acting out, così come un eccesso di senso opposto (dissociazione), porta l’individuo a chiudersi nel proprio mondo onirico, senza riuscire a rivolgere lo sguardo al mondo reale.
L’attualizzazione dei contenuti inconsci nello spazio del sogno permette una efficace elaborazione mediante l’uso della simbolizzazione.
Nell’ultimo lavoro sul sogno, Al di là dell’esperienza onirica, Khan (1975) esprime una nuova ipotesi: “bisognerebbe distinguere tra l’esperienza onirica e il significato del testo onirico che viene ricordato. La mia esperienza clinica mi ha insegnato che il sognare è un’esperienza psichica del tutto diversa da quella fornita dal testo onirico rievocabile” (pp. 48-49).
L’autore segue l’esempio di Starobinski nel saggio Hamlet et Oedipe (1970) che aveva affermato: “l’inconscio non è soltanto linguaggio, è drammaturgia”, e ribalta il concetto espresso da Pontalis (1955) “il soggetto che parla è l’intero soggetto” per affermare che “il soggetto che sogna è l’intero soggetto” (Khan, 1975, p. 50). L’autore vuole chiarire il ruolo del Sé nel sogno: 

Esiste un’esperienza onirica della quale nel testo onirico non vi è traccia; si tratta cioè di due eventi che non sono né complementari né antitetici. Nell’esperienza complessiva di sé, da parte di un individuo, possono a volte sovrapporsi, oppure restare separati e privi di rapporti. Ma non dobbiamo dimenticarci che l’esperienza onirica esiste e influenza il comportamento dell’individuo, anche quando non viene riconosciuta né descritta (con parole o con immagini); e che si deve intervenire sull’assenza di un’esperienza vissuta in una persona, senza cercare di articolarla nell’ambito del processo secondario.
(Khan, 1975, p. 52). 

Ciò che Khan intende dire è che mediante l’esperienza onirica, il paziente può esprimere parti del proprio Sé che sarebbero altrimenti irraggiungibili. Questo genere di esperienza, è in grado di arricchire la vita della persona; così come la sua assenza, al contrario, la impoverisce.

venerdì 8 novembre 2013

DOC - Il Disturbo Ossessivo Compulsivo nella poesia di Neil Hilborn (Rustbelt 2013)




La prima volta che l'ho vista...
Tutto nella mia testa si è calmato.
Tutti i tic, tutte le immagini in continua successione sono semplicemente scomparse.
Quando soffri di disturbo ossessivo compulsivo, non puoi avere veramente momenti di tranquillità.
Anche nel letto, penso:
Ho chiuso la porta? Si.
Mi sono lavato le mani? Si.  
Ho chiuso la porta? Sì.
Mi sono lavato le mani? Sì.
Ma quando l'ho vista, l'unica cosa a cui riuscivo a pensare era la curva delle sue labbra..
O un ciglio sulla sua guancia -
un ciglio sulla sua guancia -
un ciglio sulla sua guancia.

Sapevo che dovevo parlare con lei.
Le ho chiesto di uscire sei volte in trenta secondi.
Ha detto di sì dopo la terza, ma nessuna di loro mi sembrava giusta, così ho dovuto continuare.
Al nostro primo appuntamento, ho passato più tempo a organizzare il mio pasto per colore che a mangiare, o a parlare con lei...
Ma lei lo amava.
Amava il fatto che le davo il bacio della buonanotte sedici volte o ventiquattro volte se era Mercoledì.
Le piaceva che mi ci voleva una vita per arrivare a casa a piedi, perché ci sono un sacco di crepe sul nostro marciapiede.

Quando ci siamo trasferiti per vivere insieme, ha detto che si sentiva al sicuro, perché nessuno avrebbe mai potuto derubarci dal momento che avevo  ​​
chiuso la porta sicuramente almeno diciotto volte.
Avrei guardato la sua bocca mentre parlava
per sempre -
quando parlava
quando parlava
quando parlava
quando parlava 
quando mi ha detto che mi amava, la sua bocca si è curvata ai bordi.   
Di notte, si stendeva a letto e mi guardava spegnere tutte le luci accese, e spente, e accese, e spente, e accese, e spente, e accese, e spente, e accese, e spente, e accese, e spente, e accese, e spente, e accese, e spente, e accese, e spente, e accese, e spente, e accese, e spente.

Ha chiuso gli occhi e ha immaginato che i giorni e le notti stessero passando di fronte a lei.
La mattina, volevo iniziare a baciarla per il buongiorno ma lei se n’è andata perché le stavo solo facendo fare ritardo al lavoro...
Quando mi sono fermato davanti a una crepa del marciapiede, lei ha continuato a camminare...
Quando ha detto che mi amava, la sua bocca era una linea retta.

Mi ha detto che stavo prendendo troppo del suo tempo.
La settimana scorsa ha iniziato a dormire a casa di sua madre.

Mi ha detto che non avrebbe dovuto lasciare che mi attaccassi così tanto a lei, che tutta questa storia è stata un errore, ma...
Come può essere un errore che io non devo lavarmi le mani dopo averla toccata?
L'amore non è un errore, e mi sta uccidendo che lei possa scappare via da questo e io semplicemente non posso.
Non posso - Non posso uscire e trovare qualcuno di nuovo, perché penso sempre a lei.
Di solito, quando mi ossessiono sulle cose, vedo germi brulicare sulla mia pelle.
Mi vedo schiacciato da una successione infinita di auto...
E lei è stata la cosa più bella che abbia mai avuto su cui rimanere fissato.

Voglio svegliarmi ogni mattina pensando al modo in cui si tiene al volante..
Come gira le manopole della doccia come se stesse aprendo una cassetta di sicurezza.
Come soffia le candeline -
soffia le candeline -
soffia le candeline -
soffia le candeline -
soffia le candeline -
soffia le...

Adesso, penso solo a chi altro la sta baciando.
Non riesco a respirare, perché lui la bacia solo una volta - non gli importa se è perfetto!

La rivoglio indietro così tanto..
Lascio la porta aperta.
Lascio la luce accesa.

Neil Hilborn è College National Poetry Slam champion, e laureato nel 2011 con lode al Macalester College in Creative Writing.
The first time I saw her...
Everything in my head went quiet.
All the tics, all the constantly refreshing images just disappeared.

When you have Obsessive Compulsive Disorder, you don’t really get quiet moments.
Even in bed, I’m thinking:
Did I lock the doors? Yes.
Did I wash my hands? Yes.
Did I lock the doors? Yes.
Did I wash my hands? Yes.

But when I saw her, the only thing I could think about was the hairpin curve of her lips..
Or the eyelash on her cheek—
the eyelash on her cheek—
the eyelash on her cheek.

I knew I had to talk to her.
I asked her out six times in thirty seconds.
She said yes after the third one, but none of them felt right, so I had to keep going.
On our first date, I spent more time organizing my meal by color than I did eating it, or fucking talking to her...
But she loved it.
She loved that I had to kiss her goodbye sixteen times or twenty-four times if it was Wednesday.
She loved that it took me forever to walk home because there are lots of cracks on our sidewalk.
When we moved in together, she said she felt safe, like no one would ever rob us because I definitely locked the door eighteen times.
I’d always watch her mouth when she talked—
when she talked—
when she talked—
when she talked
when she talked;

when she said she loved me, her mouth would curl up at the edges.
At night, she’d lay in bed and watch me turn all the lights off.. And on, and off, and on, and off, and on, and off, and on, and off, and on, and off, and on, and off, and on, and off, and on, and off, and on, and off, and on, and off, and on, and off.
She’d close her eyes and imagine that the days and nights were passing in front of her.
Some mornings I’d start kissing her goodbye but she’d just leave cause I was
just making her late for work...

When I stopped in front of a crack in the sidewalk, she just kept walking...
When she said she loved me her mouth was a straight line.

She told me that I was taking up too much of her time.
Last week she started sleeping at her mother’s place.
She told me that she shouldn’t have let me get so attached to her; that this whole thing was a mistake, but...
How can it be a mistake that I don’t have to wash my hands after I touched her?
Love is not a mistake, and it’s killing me that she can run away from this and I just can’t.
I can’t – I can’t go out and find someone new because I always think of her.
Usually, when I obsess over things, I see germs sneaking into my skin.
I see myself crushed by an endless succession of cars...
And she was the first beautiful thing I ever got stuck on.

I want to wake up every morning thinking about the way she holds her steering wheel..
How she turns shower knobs like she's opening a safe.
How she blows out candles—
blows out candles—
blows out candles—
blows out candles—
blows out candles—
blows out…

Now, I just think about who else is kissing her.
I can’t breathe because he only kisses her once — he doesn’t care if it’s perfect!
I want her back so bad...
I leave the door unlocked.
I leave the lights on.


http://poetry.rapgenius.com/Neil-hilborn-ocd-lyrics
http://neilhilborn.tumblr.com/ 
https://www.facebook.com/neilhilborn
https://twitter.com/Neilicorn

giovedì 15 agosto 2013

Di Jonathan Shedler - Alcuni consigli su come scegliere un terapeuta



Il Freud Museum di Londra presenta Divan: pezzo di attenzione libera fluttuante, un progetto  dell'artista messicano Santiago Borja. La proposta di Borja mira a favorire nuove letture del lavoro di Freud in relazione alle culture non europee. http://www.freud.org.uk/exhibitions/72952/divan-free-floating-attention-piece/

Dopo aver insegnato a diverse generazioni di psicologi e psichiatri come fare psicoterapia, conosco una vasta gamma di terapie e teorie - per questo non le impongo ai miei pazienti.

Fate attenzione ai terapeuti troppo identificati con un "marchio" di terapia. Hanno già deciso come trattarvi ancor prima di avervi incontrato, figuriamoci ascoltarvi. Fate anche attenzione ai terapeuti che proclamano competenze in diverse forme di psicoterapia. Si può finire con un principiante, o qualcuno che si preoccupa di più di riempire la sua agenda, che della sua integrità.

Attenzione ai terapeuti che enfatizzano una specializzazione in determinate diagnosi o disturbi.
Una diagnosi ci dice poco su come aiutare. Le cause del dolore emotivo sono generalmente intrecciate nel tessuto della nostra vita, come viviamo, come vediamo noi stessi e gli altri, come ci rapportiamo con la gente o non riusciamo a rapportarci, ciò che desideriamo e ciò di cui abbiamo paura, come far fronte alle avversità e al successo, ciò che sappiamo di noi stessi e ciò che non vogliamo sapere.
Una importante competenza del terapeuta consiste nel capire come tale tessuto è intrecciato e come può potenzialmente essere ritessuto, e non nella diagnosi o nel disturbo.

Le prime sedute dovrebbero concentrarsi sullo sviluppo di una comprensione condivisa rispetto a ciò che costituisce realmente il problema, una comprensione che abbia senso per entrambi.
"Quella che è davvero la questione" non è la vostra depressione, ansia, o disturbo alimentare. Ma quello che sta succedendo psicologicamente, sotto la superficie delle cose, che causa questi problemi. Una visione condivisa di quello che è il problema fornisce un punto di riferimento per la terapia.
Una psicoterapia efficace ha un obiettivo.

Si può sviluppare una visione condivisa nel corso della prima seduta, oppure possono essere necessarie diverse sedute. Tale visione evolverà e cambierà con il progredire della terapia. Essa potrà essere rielaborata più volte: è dinamica, e non statica.
Ci dovrebbe essere un obiettivo tuttavia, fin dall'inizio, una base su cui costruire.

Molti terapeuti parlano di "alleanza terapeutica", ma pochi sembrano capire che cosa sia realmente. Alleanza terapeutica non significa soltanto che paziente e terapeuta vanno d'accordo, o che si trovano bene insieme. Non è un'alleanza basata su una cosa qualunque.
Un'alleanza terapeutica si basa su un comune, mutuo accordo sul compito da svolgere - un'alleanza su tutto il lavoro che c'è da fare.

Una buona alleanza terapeutica riguarda tre elementi:
1) il senso di legame,
2) un reciproco accordo circa l'obiettivo o scopo della psicoterapia,
3) un reciproco accordo sui metodi che paziente e terapeuta useranno a servizio di tale obiettivo.
Tutti e tre gli elementi sono necessari. Spesso riscontro il primo elemento senza gli altri due.

Una comprensione condivisa rispetto al problema deve essere realmente condivisa.
Non può essere soltanto la comprensione del terapeuta, o soltanto la comprensione del paziente.
E' qualcosa che paziente e terapeuta devono creare insieme, e che trascende ciò che ognuno di loro  saprebbe da solo.
Se si potesse raggiungere tale comprensione da soli, probabilmente non si avrebbe bisogno della terapia.
Il compito del terapeuta è quello di aiutare a risolvere il problema in un modo che non è fattibile stando da soli. Quando si arriverà a una comprensione condivisa, si avrà la consapevolezza di aver catturato qualcosa di importante.

Un'immagine di Jonathan Shedler, PhD, tratta dalla sua pagina Facebook, in cui ha postato questo articolo.

I miei studenti mi chiedono sempre cosa fare quando i pazienti non hanno idea di quale sia il problema.
Il paziente sa che c'è qualcosa che non va, ma non sa dire che cosa.
Sente un vuoto interiore, si sente perduto o bloccato, ma non ha idea del perché.
E' in questo caso che l'aiuto del terapeuta è essenziale, perché il terapeuta è in grado di offrire una prospettiva che il paziente non potrebbe avere da solo. Ad esempio il terapeuta può offrire il proprio punto di vista, cioè che il problema potrebbe essere che il paziente è estraneo rispetto a se stesso.
In questi casi si può dire al paziente: "Sente che qualcosa va molto male, ma non trova le parole per dirlo. Forse potrebbe aiutarla riuscire a trovare delle parole per descrivere ciò che va male. Se riusciamo insieme a trovare delle parole, saremo in grado di vedere le cose in modo più chiaro. Quando vediamo le cose più chiaramente, possiamo essere in grado di trovare una via d'uscita".

Poi si può chiedere, ed è fondamentale affinchè la comprensione sia realmente condivisa: "Pensa che sarebbe utile se riuscissimo a trovare delle parole per ciò che non va?".
Se il paziente entra in risonanza con questo - se sente anche lui che la ricerca di parole lo aiuterà - allora abbiamo un focus iniziale per il nostro lavoro.
Il compito condiviso è quello di trovare le parole. Il paziente non riesce a trovare le parole giuste da solo, e anche il terapeuta non può trovare le parole giuste senza l'aiuto del paziente; ma insieme sarà possibile trovarle.
Il focus del trattamento evolverà nel tempo, ma ora si ha un punto di partenza.

Se il paziente non è in sintonia con l'idea che la ricerca di parole potrà aiutarlo, bisogna tornare indietro e continuare a esplorare finchè non si trova un obiettivo sul quale entrambi siano d'accordo, e che sia per entrambi fruttuoso, da cui poter ripartire.

Non sempre un "sì" è la vera risposta.
Se il paziente è d'accordo con una particolare visione del trattamento proposta, ma si impegna nella terapia in un modo che suggerisce accondiscendenza, non c'è una visione condivisa. E' solo una  comprensione parziale del problema, e non condivisa.
Se il paziente è d'accordo soltanto perché presume che il terapeuta ne saprà più di lui perché è l'"esperto", non c'è una comprensione condivisa.
Anche in questo caso, bisogna tornare indietro e continuare ad esplorare.
(Ma ora abbiamo anche una nuova ipotesi su ciò che potrebbe costituire il problema. Se il paziente ha l'abitudine di delegare ad altri ciò che è giusto per lui, invece di padroneggiare i propri pensieri e sentimenti, questo potrebbe essere la causa di ciò che non va e del perché non trova delle parole per dirlo. Si solleverà quindi la questione al fine di porla in considerazione).

Quando scrivo di psicoterapia, divento più consapevole della terminologia. Per questo motivo avverto la necessità di spendere qualche parola a proposito dell'utilizzo del termine 'paziente' rispetto al termine 'cliente'.
Molti terapeuti, e diversi psichiatri, definiscono i loro assistiti come "clienti".
Personalmente ho dubbi su entrambe le parole.
Le persone che vengono da me per un trattamento hanno bisogno di aiuto, a volte con urgenza. Alcuni sentono di avermi affidato letteralmente la loro vita.
Il lavoro che facciamo ha profonde conseguenze, spesso permanenti (se non non fosse così, non sarebbe psicoterapia).
Ad ogni modo dal mio punto di vista, la metafora medica ('paziente') appare più congrua con quanto  è in gioco rispetto alla metafora commerciale ('cliente').

E allora, come si fa a scegliere un terapeuta?
Evitate gli ideologi e gli esperti-di-tutto.
Non cercate in lungo e in largo qualcuno specializzato nel trattamento di persone che hanno esattamente il vostro identico problema, perché non esistono altre persone che hanno esattamente il vostro problema.
Quando incontrate il terapeuta scelto, osservate se sembra più interessato a voi o a diagnosticarvi un disturbo.
Osservate se lo psicoterapeuta vi invita a riflettere insieme su quello che è realmente il problema. Notate se insieme siete in grado di sviluppare una comprensione condivisa rispetto a ciò che costituisce il problema, una comprensione che suona vera per voi.
Questa parte di lavoro potrebbe richiedere più sedute, ma il percorso da intraprendere dovrebbe procedere fin dall'inizio in questa direzione.
Se tutti questi ingredienti sono presenti, probabilmente ne avete trovato uno buono!

Jonathan Shedler, Ph.D ( http://jonathanshedler.com/ ) è Professore Associato presso la University of Colorado School of Medicine. Insegna e conduce laboratori per il pubblico professionale nazionale e internazionale e fornisce consulenza clinica e supervisione ( http://jonathanshedler.com/consultation/ ) in teleconferenza a professionisti della salute mentale in tutto il mondo.


fonte: https://www.facebook.com/jonathan.shedler

martedì 11 giugno 2013

Omaggio a una pioniera dimenticata della psicoanalisi: Sabina Spielrein

Una scena tratta dal film "Prendimi l'anima"(2003) di Roberto Faenza, ispirato alla vita e alle vicende di Sabina Spielrein, interpretato da Emilia Fox e Ian Glen

Sabina Nikolaevna Špil'rejn-Šeftel'
(Сабина Нафтуловна Шпильрейн; 7 novembre 1885 - 12 o 14 agosto, 1942) è stato un medico russo e una delle prime psicoanaliste donna. 
Fu prima paziente, poi studentessa quindi collega di Carl Gustav Jung. Appignanesi e Forrester (1992) scrivono di lei che “inaugurò, come paziente, la sua carriera di analista” (p. 117). Ebbe un rapporto epistolare e professionale con Sigmund Freud. Uno dei suoi più famosi analizzandi fu lo psicologo dell'età evolutiva svizzero Jean Piaget. 
Nonostante il suo lavoro sia di gran lunga antecedente a quello di Melanie Klein – ricordiamo che la tesi di laurea in medicina Il contenuto psicologico di una caso di schizofrenia (dementia praecox) fu discussa nel 1911 e pubblicata lo stesso anno nello Jahrbuch für Psychoanalitische und Psychopathologische Forschungen, dieci anni prima del kleiniano Lo sviluppo di un bambino (1923) – il suo lavoro è stato poco riconosciuto. Carotenuto (1986) sottolinea questo aspetto in particolare in relazione al lavoro La distruzione come causa della nascitascritto nel 1912. Sappiamo infatti che grazie ad esso Freud arriverà ad una diversificazione circa la teoria della pulsione nel 1920, in Al di là del principio di piacere (Robert, 1964; Carotenuto, 1986). Freud citerà la Spielrein nei seguenti termini: “Buona parte di questi concetti è stata anticipata da Sabina Spielrein (1912) in un suo erudito e interessante lavoro, ma che, disgraziatamente, mi appare poco chiaro. Ella definisce l'elemento sadico della pulsione sessuale come ‘distruttivo’ ”. 
Scrive Spielrein (1912): “Quando ho scritto questo saggio, non era ancora stato pubblicato il libro del Dr. Stekel Il linguaggio dei sogni. Nel libro l’autore dimostra sulla base di numerosi sogni, che insieme al desiderio di vita noi abbiamo il desiderio di morire. Quest’ultimo desiderio egli lo considera come l’opposto del desiderio di vita che è implicito nell’essenza dell’istinto sessuale [...] Ritengo che i miei esempi dimostrino abbastanza chiaramente, come provano alcuni fatti biologici, che l’istinto riproduttivo è costituito anche dal punto di vista psicologico da due componenti antagonistiche ed è perciò altrettanto un istinto di nascita quanto di distruzione” (p. 114). 
La Spielrein fondò intorno al 1923, con Vera Schmidt, l’Asilo Bianco. Tra i lavori della Spielrein in campo infantile ricordiamo L'origine delle parole infantili papà e mamma (1922) e l’utilizzo della tecnica del disegno ad occhi aperti e chiusi (1928). 
Circa il tema del sogno, l’unico volume disponibile in Italia in relazione al lavoro della Spielrein, è ricco di intuizioni teoriche. La Spielrein (1912) nei suoi primi scritti si attiene alle conoscenze già approfondite da Stekel, Freud e Jung sul simbolismo: 

“Una donna mi raccontava che mentre un dente le veniva estratto sotto narcosi aveva sognato il distacco del parto. Non ci meraviglia che nei sogni l’estrazione dei denti si presti così bene a simbolizzare il distacco del parto. Ora abbiamo: distacco del parto = estrazione dei denti = castrazione, cioè la procreazione viene intesa come una castrazione” (p. 111). 

L’autrice tuttavia, in maniera coraggiosa rispetto a quanto riterrà utile in seguito Melanie Klein, non avrà particolari remore nell’esprimere le sue idee in netto contrasto con Freud. 
In Il contenuto psicologico di un caso di schizofrenia, il contributo della Spielrein (1911) diventa quindi particolarmente originale: 

“Il materiale da me raccolto offrirà numerose prove per gli studiosi che analizzano l’analogia tra sogno, psicosi e mito. L’esistenza di un tale rapporto mi pare possibile solo ipotizzando che un modo di pensare arcaico agisca ancora nel presente” (pp. 73-74). 

Secondo l’autrice, il linguaggio schizofrenico non è illogico, bensì può essere compreso se letto attraverso i codici di un linguaggio più arcaico, rispetto a quello di cui si fa uso corrente: tale linguaggio è direttamente legato a quello del sogno. 
La Spielrein offre quindi un approfondimento di questo punto di vista nello scritto Il tempo nella vita psichica subliminale (1922) in cui collega i pensieri preconsci a quelli coscienti ma presenti nel sogno: 

Ancor più nettamente spaziale è un altro sogno del signore pocanzi menzionato, che vede una situazione per lui penosa come un paesaggio che diventa sempre più piccolo, perdendosi in lontananza. Egli vuole dire cioè, come nel suo precedente sogno: “ciò appartiene al passato remoto”, cioè come nel suo precedente sogno: “ciò apparterrà fra poco al passato remoto”. E’ ancora una volta un divenire, che è tanto presente continuo quanto futuro. Ed ecco un altro esempio interessante di come si raffigura la valutazione della durata temporale nel pensiero preconscio [...] “Io sogno” mi scrive, “che mi trovo in una grande piazza bianca, asfaltata. Da qui si dipartono strade in varie direzioni: quella a est porta verso il mare. Io vado a ovest e dico fra me e me che devo svegliarmi fra due ore. La strada verso ovest è in leggera salita e viene tagliata due volte ad angolo retto da strade dritte. Io penso: ecco la prima ora, ecco la seconda”. [...] Si tratta veramente di un sogno? – un sogno è qualcosa di più. Possiamo osservare direttamente come un proposito cosciente, quello di svegliarsi dopo due ore, continui a vivere e ad essere elaborato, travestito col linguaggio figurato del preconscio: i due tratti di tempo (le due ore) diventano due tratti di strada; questa immagine viene poi adoperata come materiale onirico.
(Spielrein, 1922, p. 118). 

In questo scritto la Spielrein (1922) sembra precorrere il pensiero di Bion (1967); quindi spiega che il contenuto del sogno riguarda la rappresentazione della situazione presente del sognatore, talvolta modificata per questioni di comodità di utilizzo del materiale onirico (il sognatore deve ricordare di svegliarsi).
Spielrein (1922) pone quindi il problema dell’essenza del sogno. Ricordiamo che per Freud si parla di sogno solo quando c’è la formazione di un desiderio. Ma l’autrice nota che ad esempio, negli stati di grave affaticamento è difficile sognare, e che non sempre il sogno riguarda l’appagamento di un desiderio. Definisce sogni incompleti quei sogni che, fatti in uno stato di angoscia, depressione grave o stato di affaticamento, sembrano più simili ad una rappresentazione della situazione presente del sognatore che ad appagamenti di un desiderio. Quindi rileva la somiglianza tra il linguaggio onirico e quello di alcune lingue che “non conoscono il tempo come direzione, ma solo come durata” (p. 120). Il russo, ad esempio secondo l’autrice, ha molte analogie con il linguaggio del sogno: “il linguaggio verbale in questi casi crea le proprie rappresentazioni, così come nel sogno, attingendo a materiale preconscio” (p. 122).
Riepilogando Spielrein (1922) fornisce le seguenti informazioni sul sogno: il sogno non si può raffigurare come direzione; nel sogno la direzione è trasformata in durata; il passato nel sogno non è un vero passato ma un “non-esserci” ovvero un “non-esserci-più”; il sogno, come il pensiero del bambino, non distingue la direzione temporale ma soltanto la direzione finale o futura.
Il contributo della Spielrein appare subito innovativo rispetto ai temi presentati durante la stessa epoca dai suoi colleghi maschi. Spielrein non parla più soltanto di desiderio (Freud) o di simbolo (Jung), ma fa riferimento allo stato mentale del sognatore in relazione al sogno (stati depressivi, stati psicotici), e alle capacità del sogno di pensare contenuti coscienti (elementi coscienti emergono nel sogno ad uso del sognatore).
La Spielrein, cercando di centrare il bersaglio nel trattare il complesso argomento del lavoro onirico, azzarda interessanti paragoni tra linguaggio del sogno e linguaggio arcaico, linguaggio del sogno e Preconscio, linguaggio del sogno e lingue che non distinguono le coordinate temporali con esattezza come il russo; inoltre, Spielrein cerca di cogliere gli aspetti atemporali dell’elemento onirico nelle sue complesse sfaccettature. 

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