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martedì 31 dicembre 2019

Il caso Marilyn Monroe e la responsabilità terapeutica


Only parts of us will ever
touch only parts of others —
one’s own truth is just that really — one’s own truth.
We can only share the part that is understood by within another’s knowing acceptable to
the other — therefore so one
is for most part alone.
As it is meant to be in
evidently in nature — at best though perhaps it could make
our understanding seek
another’s loneliness out.

'Fragments: Poems, Intimate Notes, Letters' by Marilyn Monroe


Nel testo "Il caso Marilyn Monroe e altri disastri della psicoanalisi" (Mecacci, 2000) si prendono in esame alcuni aspetti critici della disciplina psicoanalitica dai suoi albori ai giorni nostri. Il caso di Marilyn Monroe viene osservato per primo. Nel testo si vuole evidenziare la natura di inadeguatezza delle cure ricevute dai vari analisti nella loro pratica. 
Una delle paure più grandi di cui soffriva l'attrice era quella dell’abbandono. Marilyn passò da una famiglia adottiva all'altra dopo essere stata lasciata in orfanotrofio dalla madre. Non avendo avuto nessuno accanto a cui poter fare riferimento sin da bambina, fu in analisi per molti anni e cercò nei matrimoni la stabilità che le era mancata all'origine. Si dice che portasse sempre con sé un'immagine Lincoln, non avendo nemmeno mai conosciuto l'identità del padre: "La maggior parte delle persone può ammirare suo padre, ma io non ne ho mai avuto uno. Ho bisogno di qualcuno da ammirare. Mio padre é Abraham Lincoln…Intendo dire che penso a Lincoln come a mio padre. Lui é saggio e gentile e buono. È il mio ideale, Lincoln. Lo amo". 
Marilyn fu una donna dalla straordinaria intelligenza e sensibilità. A dispetto del quadro scarsamente empatico di lei dipinto da Mecacci, (forse dovuto anche a fini di sensazionalismo, che contrariamente a quanto l'autore afferma di voler fare all'inizio del libro, non manca affatto) Marilyn ebbe un successo planetario e incancellabile proprio in virtù della sua natura indomabile, libera e provocatoria. 

Marilyn inziò l'analisi sotto suggerimento della sua insegnante di recitazione con Margaret Herz Hoenberg, poi Anna Freud, quindi Marianne Rie Kris, Ralph Greeson e infine Milton Wexler. Fu trattata con un lavoro analitico di stampo classico alternato al manicomio, dosi massicce di farmaci e la camicia di forza. Non ho dubbi che l'attrice abbia fallito il suo trattamento!

"Anna Freud sottopone Marilyn al gioco delle biglie di vetro... Marilyn sta davanti a lei e deve muovere, in base a come le sposterà, Anna darà la sua interpretazione. (Marilyn) sposta le biglie una dopo l'altra nella direzione di Anna che può quindi diagnosticare un 'desiderio di contatto sessuale'... Anna Freud sintetizza così la diagnosi: emotivamente instabile, fortemente impulsiva, bisognosa di continue approvazioni da parte del mondo esterno; non sopporta la solitudine, tende a deprimermi di fronte ai rifiuti; paranoide con tratti schizofrenici"

Immagino che alleanza terapeutica potesse esserci tra le due donne! Difatti Marilyn paga cospicuamente Anna Freud per congedarla; vuole cambiare analista. La nuova terapeuta Kris però non é in grado di fare di meglio e la rinchiude in manicomio. Greeson la imbottisce di farmaci e la introduce ai suoi familiari. Entrambi gli ultimi due terapeuti si alternano tra loro e vengono infine rimpiazzati a causa di spostamenti geografici  di lavoro (a volte della paziente, a volte il loro). Ecco uno stralcio della lettera di Marilyn dal suo ricovero:

"Descrivendo le violenze psichiche e fisiche che aveva subìto (Marilyn), notava come i medici fossero interessati ai pazienti solo in quanto i loro disturbi trovavano un riscontro a ciò che avevano letto sui libri, e non perché vedevano in loro degli esseri umani sofferenti". 

Mecacci sottolinea il coinvolgimento di Greenson nella vita quotidiana con Marilyn, l'alternarsi con la terapeuta newyorchese Kris, i legami che i vari terapeuti avevano tra di loro e con Marilyn. 
È fuori di dubbio che uno sconfinamento dalle norme del setting fosse chiaro. Ma cosa ha fatto realmente e definitivamente fallire il trattamento, quando Marilyn fu trovata morta il 4 Agosto 1962? Nel testo ci si perde in una ricostruzione complottistica su un probabile coinvolgimento di Greenson con, addirittura, gli interessi sovietici. 
Queste affermazioni sembrano più adatte a quelle di una rivista di gossip o di una biografia romanzata che a un testo divulgativo di discussione sulla psicoanalisi. D'altra parte il peggio che si possa fare con la psicoanalisi é il gossip e la caricatura, e Mecacci non fallisce in nessuna delle due imprese. 

Più probabilmente quello che é mancato a questi analisti é stata una capacità di spogliarsi delle vesti di dottori per diventare terapeuti, proprio come esprime Marilyn nella sua lettera. È nelle parole di Marilyn sul suo ricovero, e nel costante aumentare delle dosi degli psicofarmaci somministratole che si denota tutta l'impotenza e l'incapacità di comprensione dei suoi analisti nei suoi confronti mentre avanzano le loro interpretazioni da manuale. Ancora una volta si conferma come sia la verità del paziente la bussola più importante da seguire per orientarsi. 

Il perseguire una verità storica in un processo psicoanalitico é assimilabile al rincorrere un'utopia. La verità ha il volto di chi la racconta. Questo é ancora più vero  nel caso di un paziente. La sua verità é tutto ciò che conta, perché é il modo in cui la storia é stata vissuta e ha lasciato una traccia in lei/lui a diventare la materia del lavoro da gestire e che vale la pena di ascoltare profondamente e indipendentemente da altri fattori. Questo é particolarmente importante perché il paziente é il centro del lavoro e con cognizione dei limiti é necessario, mediante l'uso della consapevolezza, spogliare il campo di altre futili attribuzioni più spesso appartenenti all'analista e spesso sottovalutate, del modo in cui lei/lui sperimenta la storia e le conferme alle proprie idee teoriche e impostazioni personali di vita. In definitiva dunque la prova ineluttabile del successo di un trattamento non sta nelle valutazioni pedisseque dei test di personalità, ma molto più semplicemente e infallibilmente nelle affermazioni del paziente sul lavoro svolto.

A proposito della responsabilità terapeutica, tanto quanto é importante rimanere costantemente critici sul lavoro del terapeuta, é importante considerare quanto essa sia bilaterale. L'impegno profuso nel lavoro deve riguardare infatti anche il paziente, nello specifico quando é in grado di comprendere che l'inizio di un lavoro non implica una posizione passiva da parte sua e di risoluzione magica per il terapeuta, al contrario richiede l'attivazione di risorse proprie che saranno stimolate dal lavoro congiunto e una partecipazione attiva.

Fortunatamente oggi la psicoanalisi non segue più l'impostazione classica. Soprattutto si é aperta insieme alla psichiatria più illuminata, al dominio delle neuroscienze impegnate nel coinvolgimento della filosofia e della fenomenologia nell'osservazione dell'esperienza mettendo al centro anche la soggettività dell'analista che non è più lasciato "fuori dal campo di osservazione". Ciò non significa che non ci saranno più errori, ma che oggi abbiamo più strumenti per uscire dalle empasse e comprendere il paziente; per avvicinarci alla sua esperienza con scopi di testimonianza e integrazione dell'esperienza. Oggi sappiamo che un farmaco non salva da solo un paziente per quanto grave. È soltanto un aiuto, che insieme a quello di una rete di elementi congiunti e congruenti di protezione, può risollevare poco alla volta la vita del paziente cresciuto in un contesto emotivamente disregolante e invivibile, che é stato appreso e confermato per decenni nel corso della sua storia.

Mecacci, L. (2000) Marilyn Monroe e altri disastri della psicoanalisi. LaTerza Edizioni.

martedì 29 marzo 2016

Un artista del digiuno (Kafka, 1922)




La gabbia 
In questi ultimi decenni l’interesse pei digiunatori è molto diminuito. Mentre prima meritava metter su spettacoli di questo genere per proprio conto, oggi sarebbe assolutamente impossibile. Erano altri tempi quelli. 
Tutta la città si occupava allora del digiunatore; a ogni giorno di digiuno aumentava l’interesse del pubblico; tutti volevano vedere il digiunatore, almeno una volta al giorno; e negli ultimi giorni c’erano perfino degli abbonati che sedevano intere giornate davanti alla sua piccola gabbia; anche di notte avevano luogo delle visite alla luce delle fiaccole, per aumentare l’effetto; quando il tempo era bello la gabbia veniva trasportata all’aperto, e allora erano specialmente i bambini a cui veniva mostrato il digiunatore; mentre per gli adulti costituiva spesso solo uno spasso, a cui si partecipava perché era di moda, i bimbi lo guardavano ammirati a bocca aperta, tenendosi per precauzione per la mano, mentre egli, pallido, nella sua maglia nera, con le costole esageratamente sporgenti, sdegnando perfino una poltrona, se ne stava seduto sopra paglia sparsa qua e là, facendo a volte un cenno cortese con la testa, a volte rispondendo alle domande con un sorriso sforzato o allungando un braccio attraverso le sbarre per far palpare la sua magrezza; e finiva poi per sprofondarsi in se stesso senza occuparsi più di nessuno, neppure del battito dell’orologio – così importante per lui unico mobile della sua gabbia, per guardare fissamente cogli occhi semichiusi dinanzi a sé, succhiando di quando in quando un sorso d’acqua da un minuscolo bicchierino, per inumidirsi le labbra. 

Gli spettatori del digiunatore secondo il fumettista Crumb)

Oltre agli spettatori consueti e mutevoli c’erano anche dei guardiani fissi, scelti dal pubblico, che per una strana coincidenza eran di solito macellai e, sempre a tre per volta, avevan il compito di sorvegliare il digiunatore giorno e notte, perché, clandestinamente, non riuscisse a nutrirsi in qualche modo. Ma era solo una formalità, adottata per tranquillità della folla, poiché gli iniziati sapevano bene che il digiunatore, durante il periodo, non avrebbe toccato nessuna qualità di cibo, a nessun costo, neppure se vi fosse stato costretto; lo impediva il rispetto verso la sua arte. 
Ma naturalmente, non tutti i guardiani potevano intendere ciò; a volte si formavano dei gruppi di sorveglianti notturni che compivano il loro dovere molto superficialmente, si ritiravano di proposito in un cantuccio lontano, per darsi tutti a giuocar a carte, con l’intenzione evidente di dare al digiunatore il modo di fare un piccolo spuntino che, a loro parere, avrebbe potuto consumare ricorrendo a qualche segreta riserva. 

Per il digiunatore nulla era più penoso di questi guardiani; lo facevano diventare melanconico, gli rendevano terribilmente difficile il digiuno; a volte riusciva a vincere la sua debolezza e cantava durante la veglia finché aveva fiato, per mostrar a quella gente quanto ingiustamente sospettavano di lui, ma serviva a poco, perché quelli invece lo ammiravano per la sua abilità di mangiare perfino mentre cantava. Preferiva di molto quei guardiani che si sedevano proprio vicino alla gabbia e, non contenti della fioca illuminazione notturna della sala, lo illuminavano con lampadine elettriche tascabili, che l’impresario metteva a loro disposizione. 
Quella luce cruda non lo disturbava per nulla; tanto, dormire non poteva, mentre gli riusciva di appisolarsi un poco sempre, con qualsiasi illuminazione e a qualsiasi ora, anche se la sala era piena di gente e di fracasso; egli era dispostissimo a passare la notte con quei guardiani senza dormire mai; era pronto a scherzare con loro, a raccontare loro qualche storia della sua vita errante, ad ascoltare a sua volta i loro racconti, e tutto soltanto per tenerli svegli, per convincerli continuamente che non c’era nulla da mangiare nella gabbia e che egli digiunava come nessuno di loro avrebbe potuto fare. La sua felicità toccava il colmo, però, quando faceva giorno e, a sue spese, veniva portata loro un’abbondantissima colazione, su cui si gettavano con l’appetito proprio delle persone sane dopo una faticosa veglia notturna. 




C’era, è vero, della gente che vedeva in questa colazione una scandalosa circonvenzione dei guardiani da parte sua, ma era un andar troppo oltre, e quando si chiedeva a quelle persone, se fossero disposte ad assumersi la veglia notturna senza colazione, per andare in fondo alla cosa, si dileguavano, pur restando fedeli ai loro sospetti. Questo d’altronde faceva parte di quei sospetti che circondavano comunque l’arte del digiuno. Nessuno infatti, era in condizione di passar tutti quei giorni e quelle notti ininterrottamente come guardiano accanto al digiunatore, e nessuno dunque poteva sapere, per propria esperienza, se il digiuno veniva osservato davvero senza interruzioni, in maniera assoluta; solo il digiunatore in persona era in grado di saperlo e di essere così anche lo spettatore pienamente soddisfatto del suo digiuno.
Egli invece non era soddisfatto mai, per un’altra ragione: forse non era dimagrito per il digiuno tantoché alcune persone, pur dolenti, erano costrette a rinunciare a quello spettacolo perché non sopportavano la sua vista ma piuttosto perché non era soddisfatto di sé. Egli solo sapeva e nessuno iniziato lo sospettava quanto fosse facile il digiunare. Era la cosa più facile del mondo. Non lo nascondeva neanche, ma non gli si prestava fede e, nel migliore dei casi, lo si riteneva modesto, più spesso avido di pubblicità o addirittura un imbroglione, a cui il digiunare certo era facile, perché sapeva renderselo tale, e aveva anche la faccia tosta di lasciarlo intendere. Tutto questo ormai l’aveva dovuto sopportare, e nel corso degli anni ci s’era perfino abituato, ma nell’intimo questo malcontento lo rodeva sempre, tant’è vero che mai, dopo nessun periodo di digiuno questa testimonianza non gli si poteva negare aveva lasciato la gabbia spontaneamente. Come termine massimo del digiuno l’impresario aveva fissato quaranta giorni, non gli permetteva di superare mai quel limite, neppure nelle metropoli ... e non senza ragione. L’esperienza insegnava che sino a quaranta giorni si poteva aumentare gradatamente l’attenzione di una città con una pubblicità sempre più intensa; più a lungo il pubblico non rispondeva più; si notava una sensibile diminuzione dell’affluenza; c’era naturalmente qualche divario, sotto quest’aspetto, tra un paese, tra una città e l’altra, ma la regola era che quaranta giorni costituissero il limite massimo. 


Il quarantesimo giorno la porta della gabbia inghirlandata veniva aperta, una folla di spettatori entusiasmati gremiva l’anfiteatro, una banda militare suonava, due medici entravano nella gabbia per fare le misurazioni di rito al digiunatore, con un megafono venivano diffusi tra la gente i risultati dell’esame medico, e finalmente arrivavano due giovani signore, felici di esser state designate dalla sorte, per aiutare il digiunatore a uscire dalla gabbia, scendere due scalini e arrivare sino al tavolino ove era imbandito un pranzo da malati, preparato con cura. A questo punto il digiunatore si ribellava sempre. Porgeva di buon grado, sì, le braccia scheletriche alle signore chine su di lui, che gli tendevano le mani pronte per aiutarlo, ma non si voleva alzare. 
Il circo rappresentato da Juan Esplandiu

Perché smettere il digiuno proprio ora, dopo quaranta giorni? Avrebbe resistito ancora a lungo per un tempo illimitato; perché farlo smettere proprio ora ch’era nel punto culminante del digiuno, anzi non c’era ancora arrivato? Perché defraudarlo della gloria di continuare ancora a digiunare, di diventare non solo il più grande digiunatore di tutti i tempi questo, forse, lo era già ma di superare perfino se stesso sino a un punto incredibile, perché sentiva che le sue possibilità di digiunare erano addirittura illimitate? Perché quella folla che dimostrava di ammirarlo tanto, aveva tanta poca pazienza con lui? Se resisteva lui a digiunare ancora, perché non voleva resister lei? E levava lo sguardo verso gli occhi di quelle signore, apparentemente così gentili, in realtà così crudeli, scuotendo la testa troppo pesante per il suo debole collo. E poi era stanco, se ne stava bene lì nella paglia e doveva invece rizzarsi in tutta la sua lunghezza, per andare verso quel cibo, il cui solo pensiero gli procurava una nausea, che solo per riguardo alle signore cercava faticosamente di soffocare. Ma poi avveniva quel che capitava sempre. Interveniva l’impresario e senza dir una parola – la musica non permetteva di scambiarne neppure due levava le braccia sul digiunatore, come se invitasse il cielo a guardare una buona volta sulla paglia la sua opera, quel povero martire e questo il digiunatore lo era, ma in tutt’altro senso, - afferrava il poveretto per la esile vita, facendo credere, con un eccesso di precauzione, di aver a che fare con un oggetto molto fragile, per consegnarlo poi non senza averlo di nascosto scosso un poco, facendogli così oscillare in qua e in là senza controllo le gambe e il busto alle signore, che erano intanto mortalmente impallidite. 


Da quel momento il digiunatore tollerava tutto; la testa pendeva sul petto, come se fosse rotolata lì per caso, fermandosi per una qualche ragione inspiegabile; il corpo era tutto incavato; le gambe con le ginocchia serrate per istinto di conservazione, raspavano il suolo come se non fosse quello vero, ma lo stessero, a quel modo, soltanto cercando; e tutto il peso, per quanto modesto del suo corpo, gravava sopra una delle signore, che, cercando aiuto intorno e tutta ansimante – non s’era certo immaginata così quell’incarico onorifico – prima allungava il collo quanto era possibile, per preservare il viso dal contatto col digiunatore, ma poi, vedendo che non ci riusciva e che la sua più fortunata collega, non le veniva in soccorso, ma si contentava di reggere tremando davanti a sé la mano del digiunatore un mucchietto d’ossa – scoppiava in lacrime tra le risate di soddisfazione della sala, per venir subito sostituita da un inserviente pronto già da tempo. Poi veniva il pasto, di cui l’impresario faceva ingerire qualche boccone al digiunatore caduto in un dormiveglia simile a un deliquio, mentre parlava allegramente, per distrarre l’attenzione del pubblico dallo stato pietoso in cui il poveretto si trovava; poi veniva ancora un brindisi al pubblico e l’impresario dava a intendere che glielo aveva sussurrato il digiunatore stesso; la banda sottolineava tutto con una rumorosa fanfara finale, la folla si disperdeva e nessuno aveva più diritto di essere scontento dello spettacolo, tranne il digiunatore, lui soltanto sempre. 


Così aveva vissuto per molti anni con brevi e regolari intervalli di riposo, in mezzo a un apparente benessere, rispettato dal mondo, eppur quasi sempre immerso in una cupa malinconia, che diveniva sempre più cupa perché nessuno riusciva a prenderla sul serio. 
E come, d’altronde, consolarlo? Che poteva ancora desiderare? E se per caso capitava una volta una persona di buon cuore, che lo compativa e gli voleva spiegare come quella malinconia probabilmente venisse dal digiuno, poteva anche accadere, specie quando il digiuno era già molto lungo, che il digiunatore rispondesse con un impeto di furore e, tra lo spavento di tutti, si mettesse a scuotere le sbarre della gabbia come una bestia. 
Ma in casi simili l’impresario ricorreva a una punizione, che usava di preferenza. Scusava il digiunatore dinanzi al pubblico radunato, ammetteva che si poteva perdonare il contegno del digiunatore solo pensando a un’irascibilità, provocata dalla fame, e solo difficilmente immaginabile da chi era sazio; veniva poi, come di conseguenza, a parlare, per spiegarla nello stesso senso, dell’asserzione del digiunatore di poter prolungare il digiuno molto più di quel che già non facesse; lodava il nobile intento, la buona volontà, la grande abnegazione, contenuti certo anche in questa asserzione; ma tentava poi subito di svalutarla mostrando semplicemente delle fotografie, subito messe in vendita, in cui si vedeva il digiunatore giunto al quarantesimo giorno, in un letto, quasi esausto dalla debolezza. 

L'impresario

Questa maniera di storcere la verità, per quanto ben nota al digiunatore, riusciva pur sempre a snervarlo ogni volta ed era veramente troppo per lui. Quello che era la conseguenza di un’anticipata fine del digiuno, veniva presentata qui come la causa! Era impossibile lottare contro una simile incomprensione, contro questa universale incomprensione. Ogni volta era rimasto ad ascoltare ansiosamente e fiducioso, attaccato alle sbarre, l’impresario, ma quando comparivano le fotografie, abbandonava ogni volta la gabbia per ricadere con un sospiro sulla paglia, mente il pubblico tranquillizzato poteva riavvicinarsi e guardarlo. 

I testimoni di queste scene, quando ci ripensavano qualche anno dopo, non riuscivano quasi più a comprender sè stessi, perché nel frattempo era intervenuto quel mutamento cui s’è già accennato; ed era sopraggiunto quasi d’improvviso; ci sarà stata certo qualche ragione profonda; ma chi si prendeva la briga di andar a cercarla? Comunque un bel giorno il digiunatore, così viziato dal pubblico, si vide abbandonato dalla folla desiderosa di divertirsi, che affluiva ormai ad altri spettacoli. 
Un’ultima volta l’impresario se lo trascinò dietro in fretta per mezza Europa, per vedere se qua e là non rispuntasse l’antico entusiasmo; ma tutto fu vano; come per una segreta intesa si era destata una vera avversione per il digiuno come spettacolo. 
Naturalmente questo fenomeno non s’era potuto verificare in realtà da un momento all’altro e ora tornavano in mente, in ritardo, alcuni segni precursori di cui, a suo tempo, nell’ebbrezza del successo, non s’era tenuto abbastanza conto, né sufficientemente ostacolata l’apparizione; ma era troppo tardi ormai per combatterli in qualche modo. Era bensì certo che sarebbe tornato un giorno l’ora fortunata del digiuno, ma non era sufficiente conforto per quelli che vivevano allora. 
Cosa doveva fare il digiunatore? Uno, che s’era visto acclamare da migliaia di persone, non poteva esibirsi nei baracconi delle piccole fiere di campagna; per mettersi a fare un altro mestiere il digiunatore non solo era troppo vecchio, ma soprattutto troppo fanaticamente attaccato alla sua arte. Così egli congedò l’impresario, compagno di una carriera senza pari, e subito si fece scritturare da un gran circo; per riguardo alla sua suscettibilità non volle neppure vedere le clausole del contratto. 


Un gran circo con quella marea di persone, di animali e di arnesi, che si equilibrano e si completano l’un con l’altro, può sempre utilizzare chicchessia, in qualunque momento, anche un digiunatore, naturalmente purché abbia pretese relativamente modeste; inoltre, in questo caso particolare, non era soltanto lui a essere scritturato, ma anche il suo nome da tempo ormai celebre; anzi per la singolarità di quest’arte, che con l’aumentare degli anni non soffriva diminuzioni, non si poteva neanche dire che in questo caso un artista ormai invecchiato, non più nel pieno splendore dei suoi mezzi, si fosse rifugiato nel tranquillo impiego di un circo, ché anzi il digiunatore assicurava, e gli si poteva credere, che avrebbe continuato a digiunare come prima; affermava persino che, se lo lasciavano fare – e gli fu promesso senz’altro – avrebbe proprio ora stupito il mondo e con ragione; un’asserzione, questa, che, considerando l’umore del tempo – e il digiunatore nel suo entusiasmo se ne dimenticava facilmente suscitava nella gente del mestiere solo un sorriso. 


In fondo anche il digiunatore s’era reso conto del reale stato delle cose e considerò quindi naturale che non lo si mettesse con la sua gabbia nel mezzo della pista, come un numero sensazionale, ma fuori, in un posto del resto comodamente accessibile, in vicinanza delle stalle. Grandi cartelli variopinti incorniciavano la gabbia, spiegando al pubblico cosa c’era da vedere in quel luogo. Quando, durante le pause dello spettacolo, la gente s’affollava verso le stalle per vedere le bestie, era quasi inevitabile che passasse davanti al digiunatore e si soffermasse un attimo davanti a lui; forse c’era chi si sarebbe trattenuto ancora più a lungo se non ci fossero stati, nello stretto corridoio, quelli che venivano dietro e non comprendevano la ragione di quell’indugio sulla via che portava alle ambite stalle, rendendo così impossibile una visita più prolungata e pacata. Questa era anche la ragione per cui il digiunatore tremava al pensiero di queste ore di visita, di cui pure era ansioso come dello scopo della sua vita. Nei primi tempi non vedeva l’ora che queste pause dello spettacolo arrivassero; la vista di quella massa ondeggiante di gente, che s’avvicinava, l’aveva incantato, sinché non s’era presto convinto – anche la più tenace, quasi consapevole illusione non aveva resistito all’esperienza – che intenzionalmente erano tutti, senza eccezione, dei visitatori delle stalle. Lo spettacolo della gente che s’avvicinava da lontano, rimase la sensazione migliore, perché appena era giunta vicino a lui, egli veniva come sopraffatto dal gridìo e dalle dispute di due gruppi che si formavano di continuo: uno di coloro, che volevano guardarselo comodamente e presto divenne per il digiunatore il gruppo più sgradito ma non per una vera comprensione, bensì per capriccio e puntiglio; e un altro di coloro, che prima di tutto volevan giungere alle stalle. 

Passato il grosso del pubblico, venivano poi i ritardatari e proprio questi, cui nessuno impediva di fermarsi quanto volevano, gli passavano dinanzi, allungando il passo, senza quasi degnarlo di un’occhiata, per arrivare in tempo a veder gli animali. E non era davvero molto frequente il caso fortunato di un padre di famiglia che, arrivando lì coi figlioli, accennava col dito al digiunatore, spiegando loro minuziosamente di che si trattasse, ricordando i tempi andati, in cui aveva assistito a esibizioni simili ma molto più grandiose; i bambini, scarsamente preparati su questo argomento dalla scuola e dalla vita che poteva significare per loro patir la fame? continuavano a starsene lì, senza capire, ma nello splendore dei loro occhi incuriositi pareva di intravedere il riflesso di tempi nuovi, lontani ancora e più caritatevoli. Forse, si diceva a volte il digiunatore, tutto sarebbe andato meglio se non lo avessero collocato tanto vicino alle stalle. Così la gente aveva una scelta troppo facile, per tacere poi che le esalazioni delle stalle, l’irrequietezza delle bestie nella notte, il passaggio dei pezzi di carne cruda per le belve, i ruggiti che ne accompagnavano i pasti lo disturbavano molto e lo deprimevano continuamente. Non osava però rivolgersi alla direzione del circo per protestare; in fondo doveva alla presenza delle bestie quella folla di spettatori, tra cui poteva pur capitarne di quando in quando uno destinato a lui e chissà dove l’avrebbero cacciato, se richiamava l’attenzione della direzione sopra di sé e quindi anche sul fatto che, in conclusione, egli costituiva solo un ostacolo sulla via che conduceva alle stalle. 

E' ancora qui! - Stai ancora digiunando? Non smetti mai? - Perdonatemi...Ho sempre voluto che le persone ammirassero il mio digiunare...  

Un piccolo ostacolo, però, che si faceva sempre più piccolo: ci si abituò alla stranezza, in tempi come i nostri, di reclamare l’attenzione del pubblico sopra un digiunatore, e con questa abitudine il suo destino fu segnato. Poteva digiunare quanto voleva ... ed egli lo faceva; ma nulla lo poteva più salvare, nessuno più si curava di lui. Si provi qualcuno a spiegare l’arte del digiuno! A chi non la conosce, non si può darne un’idea. I bei cartelloni con le iscrizioni divennero sudici e illeggibili; e vennero strappati via e a nessuno venne in mente di sostituirli; la piccola tabella poi, col numero dei giorni di digiuno compiuti, che nei primi tempi veniva rinnovata ogni giorno, rimase per lungo tempo sempre la stessa, poiché dopo le prime settimane al personale del circo anche quella piccola fatica era parsa troppo; e così il digiunatore continuava a digiunare, come aveva sognato un tempo, e gli riusciva senza sforzo come aveva predetto, ma nessuno contava più i giorni, nessuno, nemmeno il digiunatore, sapeva quanto alta era ormai la sua prova e il suo cuore si sentì oppresso. E se una volta, in quel tempo, qualche sfaccendato si fermava dinanzi alla gabbia, considerava con ironia la cifra altissima e parlava di imbroglio, era, in questo senso, la più stupida menzogna che l’indifferenza e un’innata malignità avevan potuto inventare; poiché non era il digiunatore ad ingannare egli lavorava onestamente ma il mondo lo frodava del premio che si meritava. 

E passarono ancora molti giorni ed anche questo finì. Un giorno la gabbia dette nell’occhio a un custode, che chiese agli inservienti perché si tenesse lì quella gabbia ancora buona ad usarsi, senza utilizzarla, con tutta quella paglia fradicia; nessuno lo sapeva, sinché uno, col soccorso dei cartelli, non si ricordò del digiunatore. La paglia venne smossa con delle stanghe e vi si trovò il digiunatore. «Digiuni dunque ancora?» chiese il custode, «quando ti deciderai a smettere?». «Perdonatemi voi tutti» sussurrò il digiunatore; ma soltanto il custode che teneva l’orecchio accosto alle sbarre, lo intese. «Ma certo» disse il custode, toccandosi la fronte con un dito per accennare al personale lo stato in cui si trovava il poveretto, «ti perdoniamo.» «Ho voluto sempre che ammiraste il mio digiuno» continuò il digiunatore. «E noi, infatti, ne siamo ammirati» disse condiscendente il custode. «E invece non dovete ammirarlo» replicò il digiunatore. «E allora non lo ammireremo» rispose il custode, «ma poi perché non dobbiamo farlo?». «Perché sono costretto a digiunare» continuò il digiunatore. «Ma senti un po’» disse il custode «perché non ne puoi fare a meno?». «Perché io» disse il digiunatore, sollevando un poco la sua piccola testa e parlando con le labbra appuntite come per un bacio proprio all’orecchio del custode, «perché non riuscivo a trovar il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato non avrei fatto tante storie e mi sarei messo a mangiare a quattro palmenti come te e gli altri». Furono le sue ultime parole, ma nei suoi occhi spenti si leggeva ancora la ferma, anche se non più superba convinzione di continuare a digiunare. 
Lo ammiriamo! - Non dovreste. Perchè non ho scelta...Devo digiunare
«E ora fate ordine!» disse il custode; e il digiunatore fu sotterrato insieme alla paglia. Nella gabbia fu messa poi una giovane pantera. E vedere nella gabbia sì a lungo deserta dimenarsi quella fiera fu un sollievo per tutti, anche per gli spettatori più ottusi.
Non le mancava nulla. Il cibo che le piaceva, glielo portavano senza tante storie i guardiani; non sembrava neppure che la belva rimpiangesse la libertà; quel nobile corpo, perfetto e teso in ogni parte sin quasi a scoppiarne, pareva portare con sé anche la libertà; sembrava celarsi in qualche punto della dentatura; e la gioia di vivere emanava con tanta forza dalle fauci, che agli spettatori non era facile resistervi. Ma si dominavano, circondavano la gabbia e non volevano saperne di andar via. 

Racconti, a cura di Ervino Pocar, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1970

domenica 15 novembre 2015

Il sogno come attività organizzatrice dell’esperienza - James Fosshage


 
Immagine tratta da: https://psychoanalyticdialoguesblog.wordpress.com/2015/07/30/by-joan-sarnat-standing-up-for-negative-feelings-in-psychoanalytic-supervision/comment-page-1/#comment-17


James Fosshage (1983, 1993, 1997; Fosshage, Loew, 1987; Lichtenberg, Lachmann, Fosshaghe, 1996) è l’autore post-kohutiano che più si è occupato di raccogliere l’eredità lasciata da Kohut sul tema del sogno, ampliando ed espandendo la teoria della psicologia del Sé sulla funzione e significato dei fenomeni onirici e integrando ai risultati della ricerca psicoanalitica quelli delle neuroscienze e degli studi cognitivi. 
 In particolare, se la psicologia del Sé di Kohut ha ipotizzato che il sogno è un fenomeno mentale molto più complesso, ovvero che assolve a diverse funzioni rispetto a quanto originariamente teorizzato da Freud, Fosshage ha sistematizzato e descritto dettagliatamente quali sono le diverse funzioni del sogno. 
 Per Fosshage (1983) “i sogni continuano gli sforzi consci e inconsci della veglia per risolvere i conflitti intrapsichici, attraverso l’utilizzazione di processi difensivi, attraverso una comprensione interna o attraverso una riorganizzazione creativa appena emergente” (p. 658). 

Il sogno rappresenta pertanto un processo di pensiero complesso, che si svolge durante il sonno, e la cui funzione centrale è l’elaborazione dell’informazione attraverso due modalità cognitive: la modalità del processo primario, immaginativa e dominata dai sensi; e la modalità del processo secondario, fondata su un piano verbale (Fosshage, 1997).
Queste due forme di elaborazione comparirebbero nel sogno sotto forma di immagini sensoriali e di parole dette (e non dette). Se le parole sono poste in modo logico e coerente per dare forma al significato cognitivo del sogno, le immagini sono poste in ordine sequenziale per esprimere un significato e favorire così un’elaborazione affettivo-cognitiva (Fosshage, 1983).
Queste immagini, sostiene Fosshage (1987), verrebbero scelte non per celare qualcosa, ma per favorire e promuovere gli sforzi del sognatore di elaborare e risolvere i problemi della vita quotidiana.

Il contenuto di un sogno, quindi, non viene più inteso come un mascheramento di un desiderio al fine di proteggere il sonno. Messi da parte la teoria freudiana pulsionale e il punto di vista energetico, Fosshage sostiene che i sogni – attraverso affetti, metafore e temi – rivelano direttamente le preoccupazioni immediate del sognatore (Fosshage, 1997).
La natura ambigua e caotica del sogno, dunque, non è spiegata attraverso il processo di mascheramento, ma dalla concomitanza di diversi fattori, tra cui il cattivo ricordo del sogno; l’intrinseca mancanza di chiarezza dell’attività mentale onirica; la difficoltà nel capire il significato delle immagini in una prospettiva vigile e la necessità di trovare una corrispondenza appropriata tra i due diversi stati mentali – onirico e della veglia (Fosshage, 1997).
Le immagini del sogno verrebbero scelte quindi non per celare qualcosa, ma perché costituiscono il miglior linguaggio iconografico di cui la persona che sogna dispone in quel momento.

La comprensione delle tematiche e delle metafore di un sogno richiede, secondo Fosshage (1994), delle associazioni da parte del sognatore. Tuttavia le immagini e gli scenari del sogno devono essere valutati clinicamente per quello che, metaforicamente, rivelano e non per ciò che nascondono. Non assumere che le immagini oniriche dell’oggetto siano proiezioni del Sé del sognatore, consente di avere accesso alle immagini che il sognatore ha degli altri, del Sé-con-altri e di altre importanti configurazioni relazionali. 
Il significato del sogno, può essere molteplice, proprio come l’attività mentale della veglia. Un sogno, quindi, può rappresentare un pensiero relativamente semplice (per es., recarsi al lavoro o svolgere altri compiti quotidiani), senza significati ulteriori. Oppure può, con le sue immagini, fornire una raffigurazione completa della vita del sognatore, tra cui traumi, cambiamenti importanti e condizioni di vita (Fosshage, 1989)1

“Piuttosto che chiedere ripetutamente al paziente di associare i singoli elementi del sogno”, scrive Fosshage (1989) “che tende a interrompere e frammentare l’esperienza del sogno da parte del sognatore, noi dobbiamo comprendere in senso globale la serie di immagini come se fossero le parole di una frase e il dramma complessivo del sogno come se si trattasse di frasi che formano una storia” (p. 5). Questa nozione rappresenta una radicale divergenza con il modello classico e, clinicamente, libera analista e paziente dal peso e dal compito (spesso fallimentare) di dover scovare l’importante significato latente di ogni sogno. 

Sulla base di queste premesse, in anni più recenti Fosshage (Lichtenberg, Lachmman, Fosshage, 1996) ha integrato i suoi sforzi di sistematizzazione con il modello multimotivazionale elaborato da Lichtenberg (1989), descrivendo un vero e proprio “Modello organizzativo del sogno”.
Centrale in questo modello è l’idea che tutta l’esperienza onirica si organizzi: 1) in congiunzione con il contesto esterno che ha avuto un impatto percettivo (per es., una strada fredda, un film visto la sera precedente etc.); 2) in risposta al sistema motivazionale dominante e/o in conflitto; e 3) in accordo con delle configurazioni organizzative, basate sulle esperienze passate del paziente, che sono state attivate. 

All’interno di questa cornice il sogno assume una duplice funzione: facilitare lo sviluppo e mantenere e reintegrare il Sé. La funzione evolutiva del sogno è una delle funzioni del sogno maggiormente sottolineata dalla psicologia del Sé (Paparo, Pancheri, 1999).
Al pari dell’attività vigile, l’attività onirica viene concettualizzata come lo sforzo di contribuire allo sviluppo dell’organizzazione psicologica creando, o consolidando, delle nuove soluzioni (Fosshage, 1983) e consentendo di raggiungere nuove prospettive, rappresentando nuovi modelli di comportamento. 

La signora D. 
 
Come esempio di funzione evolutiva del sogno l’autore riporta il sogno della signora D., una giovane donna, piacevole e attraente che aveva iniziato il trattamento a causa di sintomi d’insonnia, depressione e angoscia.
Quando iniziò il trattamento, la signora D. si sentiva profondamente insicura. Tentava di compensare la sua insicurezza lavorando molte ore e mostrandosi molto compiacente nei confronti delle richieste dei suoi colleghi di studio maschi. Durante l’analisi ricevette la proposta di entrare in un gruppo di lavoro specializzato composto da tre uomini che avevano lasciato il precedente studio per lavorare in proprio.
La signora D. si sentiva molto lusingata dall’offerta, ma anche molto esitante e incerta: “Suo padre aveva soffocato le proprie ambizioni e la metteva in guardia nei confronti del rischio di lasciare un lavoro “sicuro” [...] la signora D. si angosciava all’idea che i suoi vecchi soci potessero offendersi e che la società potesse fallire” (Lichtenberg, Lachmann, Fosshage, 1996, p. 179).
In questa fase dell’analisi, la paziente riportò il seguente sogno: 

Era in una stanza, in piedi in fondo a un tavolo operatorio. Il suo analista era in fondo dal lato opposto. Sul tavolo c’era un bambino piccolo. La cosa strana era che il bambino stava per avere un bambino. Il suo analista cambiava la posizione al bambino, che ora non guardava più verso l’analista ma verso di lei. Dal bambino usciva una donna pienamente matura (ibidem, pp. 179-180). 

Così commentano il sogno gli autori: 

La signora D. pensava che la donna matura rappresentasse lei stessa che prendeva posto nella nuova società. L’analista le fece una domanda sul cambiare posto al bambino. Lei disse che questo era il suo modo [dell’analista] per dirle che era lei, e non lui, che doveva fare un cambiamento allontanandosi dalla precedente aspettativa che, mosso dalle sue suppliche da brava bambina, l’analista avrebbe rimesso a posto le cose. Sapeva che la sua passività e il suo evitamento erano infantili e che il sogno le stava dicendo che doveva diventare adulta. Il sogno l’aiutò ad acquisire una nuova visione delle sue capacità di consolidare il proprio senso di sé come “donna pienamente matura”. (Lichtenberg, Lachmann, Fosshage, 1996, p. 180). 

La funzione del sogno di mantenimento e reintegrazione del Sé deriva direttamente nel concetto kohutiano di sogni sullo stato del Sé (Kohut, 1977). Da questa prospettiva, gli obiettivi dell’attività onirica sono considerati come rivolti, di fronte ad una minaccia di frammentazione o disintegrazione del Sé, a restaurare un senso di sé positivo e coeso.
Centrale in questi sogni è la regolazione degli affetti (Fosshage, 1997). Ad esempio, se in un occasione il paziente sente di non essere riuscito a manifestare la propria rabbia verso una minaccia percepita durante il giorno, può tentare di ristabilire un equilibrio attraverso un sogno. Questo è uno sforzo di regolazione degli affetti e di restaurare l’equilibrio del Sé.
Tuttavia, aggiunge Fosshage (1996), va tenuto conto del fatto che la funzione di restaurare un’organizzazione psicologica non sempre segue un movimento “verso la salute”. Al contrario, un sogno – così come accade durante la veglia – può tentare di ristabilire un modello organizzativo della mente familiare ma problematico.
Un sogno può cioè servire per riaffermare una vecchia visione negativa, più familiare e quindi meno ansiogena del Sé come inadeguato, ripristinando così un minimo di equilibrio psicologico.
In senso più ampio: “Quando sogniamo, usiamo e mettiamo in luce i nostri modelli primari di organizzazione del nostro mondo. Il sognare, come l’attività di pensiero che si svolge durante la veglia, può servire a mantenere o trasformare questi modelli” (ibidem, p. 181).
In questo caso, le immagini di sé, dell’altro e di sé-con-l’altro sono dipinti nelle immagini oniriche come legati tra loro, e lotte e conflitti relazionali possono affiorare e trovare – o non trovare – una soluzione. 

Secondo Fosshage (1996): “La storia [del sogno] implica drammaticamente una lotta relazionale con l’altro che, pieno di rabbia nei suoi confronti, tenta di dominarla sessualmente, un tema ripetitivo nella sua vita familiare. I suoi primi tentativi di affermare se stessa falliscono. E quindi, riprendendosi, trova il coraggio e la forza di urlare a gran voce, in cerca di aiuto dalle persone della stanza accanto – un’immagine di altri soccorevoli e un modo di vedere se stessa come più forte, potente e capace di difendersi” (p. 181). 


In breve, l’approccio all’analisi dei sogni proposto da Fosshage, si basa su una lettura fenomenologica rivolta a convalidare l’esperienza del sognatore, rafforzando la sua convizione sul suo significato. In questo modo si promuove nel paziente la possibilità di poter far affidamento sulla propria esperienza, piuttosto che sulla rilettura interpretativa fornita dall’analista per comprendere il significato del sogno cosicché l’integrità e la coesione del Sé vengano facilitate. 

Un esempio, particolarmente significativo di questo processo ci viene offerto da un caso clinico descritto dall’autore: 

[...]presento un sogno che ritrae gli stati interiori in cambiamento del sognatore. La sognatrice, una donna che aveva allora trentanove anni, era molto intelligente ed era molto dotata nel pensiero per immagini. Era stata cresciuta come “bambina modello” e aveva dovuto congelare una gran parte della sua vita affettiva come risposta sia a due genitori di successo ed estremamente intrusivi (che le avevano già predestinato un rigido programma di vita) che ad alcuni episodi di abuso sessuale attuati da suo fratello e da un vicino. Al momento più acuto di un collasso nervoso con intensi terrori paranoici ed idee suicidarie, era stata ricoverata per un mese, dietro sua richiesta, per potersi confrontare con i suoi terrori in una situazione più contenuta e quindi più sicura. 

Il sogno venne presentato in tre parti. 

I. Un villaggio che si estende in alto e in basso sul fianco di una collina. La collina non ha un fianco ripido ma dolce e graduale, come fosse femminile. È inverno. Guardo in basso verso il villaggio come se fosse il plastico di un trenino. Ci sono gruppi di case vicine, nella neve. Guardo i tetti; sembrano vecchi libri in pelle appollaiati su ogni casa. Ci sono rotaie del treno che passano, zigzagando attraverso il villaggio, unificandolo e creando connessioni, facendone un tutto. Ci sono verdi foreste di conifere, strade, piazze, sentieri di campagna nascosti sotto la neve. Il paesaggio è calmo, pacifico, assai bello. So che io sono il villaggio e allo stesso tempo mi libro sopra di esso. È il paesaggio di me stessa. 

II. Una sensazione di paura. Vengo riempita da quella specie di terrore che mi ha mandato all’ospedale. È enorme, soverchiante, impossibile da gestire. È su tutta me, lo sento sulla mia pelle e dentro di me. Sono paralizzata dalla paura. Una paura antica, familiare. Il villaggio entra in uno stato in cui l’animazione viene sospesa. È gelato e immobile; non c'è alcun movimento. La me stessa che è il villaggio smette di sentire. Ho la sensazione familiare di una paura seguita da un’assenza di sentimenti. 

III. Il tempo è passato, come nel racconto della storia di Rip Van Winkle. Sembra come se fossero passati venti anni (ma so che è passato ancor più tempo). Il villaggio è rimasto in uno stato di animazione sospesa. Per tutto questo tempo sono vissuta senza sentimenti. Ed ecco arriva il disgelo; il villaggio torna alla vita. I cottage sono nello stesso posto ma sembra come se fossero stati spostati in nuove località. La relazione tra le rotaie del treno, il villaggio e i cottage sembra la stessa quando la guardo dall'alto, ma la «me» che è nel panorama si sente diversa. Sono disorientata ma non spaventata. Sono grata del fatto che il sonno gelido sia finito. Ci sono ghiaccioli che si stanno sciogliendo sotto le grondaie dei cottage e la luce cade con un’inclinazione diversa sul paesaggio. Al momento della fine del sogno sono soltanto nel paesaggio e non più sopra di esso. Sto trovando la mia strada attraverso territori non familiari. Il disgelo ha fatto sì che degli appezzamenti di terra siano apparsi da sotto la neve. Il paesaggio non è più incontaminato come era all’inizio del sogno (quando era un modello... una bambina modello), ma io mi sento ben radicata in esso; è molto più reale e pieno di vitalità.
Questo sogno ci parla. Ci narra la storia drammatica di una trasformazione psicologica in corso. Il sonno ventennale di Rip Van WinkIe era cominciato quando la sognatrice aveva diciannove anni, alle soglie dell'età adulta, per dirla con le sue parole, quando aveva incontrato il primo marito. Cresciuta come una bambina modello, era graziosa e femminile ed aveva raggiunto una certa pace interiore ma al costo di essere “gelida” e distante dalla sua stessa esperienza (“So che sono il villaggio ed allo stesso tempo mi libro sopra di esso”). Nell’analisi la paziente aveva ricominciato a prendere contatto con le emozioni, aveva incontrato il terrore e si era congelata per fermarlo. Poi gradualmente, man mano che aveva cominciato a comprendere ed a farsi strada attraverso la sua paura, aveva cominciato a sciogliere il suo gelo, ad esser più pienamente “all’interno” della sua esperienza, e a diventare più viva e vitale. La sognatrice, in una pregnante immaginazione onirica, è in grado di cogliere sentimenti, stati del sé e trasformazioni, ed è in grado di valutare e consolidare ulteriormente questi cambiamenti interiori.
(Fosshage, 2005, pp. 71-72).


1 Questa ipotesi è confermata, indirettamente, dagli studi sul sonno. Diverse ricerche (per una rassegna si veda: Lichtenberg, Lachmann, Fosshage, 1996) hanno mostrato come i sogni REM sono dominati da immagini legate a scenari più tipicamente affettivi. Invece, i sogni che si verificano negli stati non-REM sono dominati da processi secondari del pensiero, e quindi più vicini all’attività mentale che si svolge durante la veglia.

domenica 8 novembre 2015

Sándor Ferenczi: il terzo viaggiatore



Il viaggio del 1909 verso verso la Clark University di Worcester vedeva insieme a Freud e Jung, presi dalla loro vicariante interpretazione dei sogni, anche un terzo viaggiatore: Sándor Ferenczi. 

Ferenczi era un medico ungherese. Intraprese l’attività di psichiatra e lavorò in particolare con gli omosessuali (Bokanowski, 1997). Come psichiatra si era interessato all’ipnosi e ai meccanismi eziologici della nevrosi. Aveva letto le opere di Freud e Breuer sull’isteria, e anche L’Interpretazione dei sogni, ma non ritenne le idee di Freud eccezionali, fin quando non si avvicinò a Jung, grazie al suo interesse per i meccanismi di associazione sincronizzati. Jung invitò Ferenczi ad una rilettura dell’opera di Freud sul sogno, principalmente per l’interesse comune relativo ai fenomeni della rimozione, di cui Freud parlava nell’ultimo capitolo del suo lavoro.
Fu così che Ferenczi rivalutò l’opera e nel 1908 chiese un incontro a Freud (Bokanowski, 1997). Freud dimostrò interesse per il lavoro di Ferenczi e lo invitò al Primo Congresso di Psicoanalisi di Salisburgo. Alla conferenza parteciparono tra gli altri, Jung con il suo lavoro sulla dementia praecox, e Freud con la presentazione del caso clinico dell’uomo dei topi. Da quel momento in poi ebbe inizio una lunga collaborazione. 

Secondo Bokanowski (1997), Ferenczi partecipò durante il viaggio verso Worcester all’analisi dei sogni di Freud e Jung e alla fine del viaggio l’amicizia tra Freud e Ferenczi ne risultò rinsaldata – al contrario di quella tra Freud e Jung.
Tuttavia in un successivo viaggio in Italia sembrerebbe che Ferenczi si sia mostrato eccessivamente bisognoso e dipendente dall’approvazione di Freud, che associò la situazione alla precoce morte del padre di Ferenczi. Un altro episodio spiacevole tra i due riguarda le vicende sentimentali di Ferenczi, che s’invaghì prima di una donna sposata, poi della figlia di questa donna, che prese anche in analisi mettendo sé stesso e Freud in una posizione scomoda. 
 
Ferenczi, anticipò temi fondamentali quali l’introiezione, la scissione, e la frammentazione che verranno successivamente ripresi ed ampliati da Melanie Klein, di cui fu analista. Ferenczi analizzò anche Jones, sebbene questi, nella sua opera sulla vita di Freud, lo abbia accusato di instabilità emotiva (Jones, 1953). L’autore anticipò anche il concetto di oggetto transizionale, approfondito in seguito da Winnicott, e in generale i temi della relazione

Il sogno, per Ferenczi può essere considerato un ponte tra intrapsichico e intersoggettivo (Bolognini, 2000). Rispetto a questo tema, la grande innovazione dell’approccio di Ferenczi è data infatti dall’attenzione a temi meno “metapsicologici” o “topografici”, per focalizzarsi sul vissuto del paziente.
Ferenczi introduce anche dei cambiamenti fondamentali nella tecnica psicoanalitica, che tengono primariamente in considerazione l’analista in quanto persona che partecipa allo scambio con il paziente, e non più unicamente come schermo speculare attraverso cui si analizza soltanto il materiale proveniente dal paziente (Ferenczi, Rank, 1924). Queste innovazioni costeranno a Ferenczi l’esclusione dalla Società Psicoanalitica Viennese. 

Il sogno come elemento psichico dotato di senso psicodinamico, viene preso in considerazione da Ferenczi intorno al 1909. In quell’anno l’autore pubblica L’interpretazione scientifica dei sogni, un saggio in cui prende in esame, a partire dall’idea freudiana di sogno come elemento dotato di significato e appagamento di un desiderio represso, una serie di sogni di alcuni suoi pazienti, di cui analizza il significato. In quegli stessi anni anche Jung scrisse un lavoro analogo (L’analisi dei sogni), probabilmente questi scritti avevano lo scopo di divulgare la teoria freudiana nei paesi d’origine dei due autori

Nel lavoro del 1909 Ferenczi riporta gli elementi di base della teoria freudiana del sogno, quindi indica alcuni simboli: la serratura come simbolo della masturbazione femminile, l’armadio come simbolo dei genitali femminili, cadere dall’alto come declino etico o materiale, il corpo umano come una casa, sparare come atto del coito.
A tale proposito Ferenczi ripete la raccomandazione di Freud sull’uso delle libere associazioni e del simbolismo nell’interpretazione: non è possibile rifarsi ad un “libretto dei sogni” in cui trovare subito la spiegazione per ogni piccolo frammento, ma bisogna indagare il significato dei simboli mediante la collaborazione nelle associazioni con il paziente. 
Ferenczi a differenza di Freud – che utilizzò i propri sogni nell’esposizione della Traumdeutung – parte dall’analisi dei sogni dei propri pazienti, e non indugia nell’autoanalisi – perlomeno non pubblicamente – nonostante la ritenga un esercizio indispensabile per chiunque voglia studiare i processi inconsci. 
 
Dall’analisi dei sogni dei pazienti nevrotici Ferenczi ricava una conoscenza circa “il significato patologico e terapeutico dei sogni e della loro interpretazione” (Ferenczi, 1909, p. 58).
Secondo Ferenczi l’analisi di un soggetto nevrotico può essere accelerata da una felice analisi dei sogni. Mediante il sogno infatti possono essere scoperti “complessi” che nelle libere associazioni della veglia potrebbero restare inconsci a causa del regime più alto della censura durante il giorno.
Il sogno può essere in questo modo osservato come una via breve alla scoperta del sintomo nevrotico, che se portato alla consapevolezza può accorciare il percorso verso la guarigione.
Ferenczi propone anche la possibilità, accennata da Freud, di una significatività diagnostica dei sogni che vede realizzata in una futura “psicologia patologica del sogno che tratti sistematicamente le particolarità della formazione onirica nei casi di isteria, nevrosi ossessiva, paranoia, dementia praecox, nevrastenia, nevrosi d’angoscia, alcolismo, epilessia, paralisi, deficienza mentale ecc.” (Ferenczi, 1909, p. 58). 

L’autore dà anche qualche indicazione circa il rapporto tra paziente e analista con il sogno: l’analista non è soltanto un “catalizzatore”, ma un “motivo scatenante” del sogno (Ferenczi, 1909, p. 103). Il sogno infatti nasce dall’interazione tra paziente e analista e torna dal luogo in cui ha avuto origine. In questo senso Ferenczi sembrerebbe accennare al sogno di transfert.
Il contenuto onirico per Ferenczi ha valore non tanto per il suo contenuto, quanto per la qualità umorale e atmosferica che determina. In questo caso Ferenczi intende dire che il sogno dà informazioni fondamentali sulla modalità di funzionamento psicologico del soggetto all’interno di una situazione relazionale che ha determinato il sogno stesso. Ciò è molto evidente in Ferenczi che dà al sogno una valenza traumatolitica.
Il concetto di “traumatolico” (Ferenczi, annotazione del 23 marzo 1931) esprime una ulteriore differenziazione teorica di Ferenczi da Freud. Il significato del sogno, per Freud, riguarda la soddisfazione di un desiderio rimosso. Ferenczi invece rileva che nel sogno è possibile osservare la presenza di elementi sintomatici relativi a traumi vissuti nel passato. Il sogno viene in questo senso concepito da Ferenczi come traumatolitico, ovvero come elemento che costituisce un tentativo di soluzione dell’evento traumatico. 
Nel lavoro onirico l’obiettivo perseguito dall’analista è quindi quello di ripetere mediante l’analisi del sogno la passività che il soggetto ha sperimentato durante l’evento traumatico. Il fine terapeutico dell’analisi del sogno è quello di rendere accessibili le impressioni sensoriali. Ma l’interpretazione del sogno è solo un aspetto formale del lavoro analitico, poiché ciò che è considerato indispensabile è che il paziente riesca a rivivere affettivamente le emozioni, per poterle elaborare.
Ferenczi ritiene infatti che il focalizzarsi sull’eccessiva consapevolezza sia una resistenza all’analisi. 

Ferenczi postula l’esistenza di due possibilità per il sogno: nella prima si vive un’esperienza puramente emotiva, ovvero priva di contenuti ideativi (ciò è definito sogno primario), nella seconda (sogno secondario, sogno di deformazione) il trauma può giungere ad una soluzione. Il sogno secondario viene infatti deformato in senso ottimistico per poter accedere alla coscienza.
Borgogno (2000) spiega la funzione traumatolitica del sogno in questi termini
“La Traumdeutung di Freud è subito per Ferenczi una sorta di Traume-deutung, dove ciò che è traumatico è la quota di dolore presente in un’esperienza psichica che il paziente può aver registrato senza avere tuttavia gli strumenti adatti per riuscire a metabolizzarla. La funzione ‘traumatolitica’ dei sogni è di riproporre un’esperienza eccessivamente dolorosa nel tentativo di darne creativamente una soluzione migliore: una ripetizione che non è puramente istintuale, ma dell’Io, per questo sforzo di modificare la sofferenza in modo più economico e più vantaggioso. Tale punto di vista sarà prevalente nei suoi ultimi lavori laddove Ferenczi sottolineerà che la censura, nell’imporre una distorsione, “valuta sia l’entità del danno che la misura in cui l’individuo può sopportarlo, e ammette alla percezione solo quel tanto di forma e contenuto del sogno che risulta tollerabile, presentandolo, ove necessario, come adempimento di un desiderio (1931, in 1920-1932, p. 187)” (pp. 85-86). Il sogno è per Ferenczi soprattutto comunicazione della realtà psichica del paziente (Borgogno, 1997). Il sogno infatti risulterà incomprensibile se slegato da tale realtà. 

Le potenzialità del sogno sono quindi quelle di offrire al paziente la possibilità di narrare e integrare la propria storia nell’ambito dell’incontro con l’analista: feeling is believing - sentire è credere (Ferenczi, 1913).
I sogni per Ferenczi non riguardano soltanto un’espressione simbolica di tendenze inconsapevoli, ma il tentativo di working-throught di eventi attuali, i cui resti diurni, chiamati da Ferenczi (1934) “resti di vita” riguardano nello specifico l’analista in quanto egli è in grado di rianimarli. Spesso, infatti, le persone che giungono in analisi hanno bisogno di ritrovare il contatto con gli affetti, e la loro vita relazionale è impoverita a causa di una mancanza di contatto con le emozioni che hanno isolato (Borgogno, 1998).
In questo senso Borgogno (1997), scorge in Ferenczi il germe di una psicoanalisi volta all’intersoggettività. Ferenczi esprime la sua opinione sull’importanza della relazione terapeutica affermando: “si può guarire con tutte le tecniche possibili: con interpretazioni tanto paterne quanto materne, con spiegazioni teoriche, mettendo in rilievo la situazione analitica, e finanche con la vecchia, buona suggestione e l’ipnosi” (Ferenczi, 1926, p. 383); per il suo approccio alla relazione e la sua considerazione del mondo interno, verrà considerato un capostipite degli indipendenti britannici. 

Esempi di analisi di sogni:

Il sogno del “poppante sapiente” (1923)
Spesso i pazienti raccontano sogni in cui dei neonati o bambini piccolissimi o addirittura in fasce, sono in grado di scrivere con perfetto agio, di regalare a chi è a loro vicino parole profonde, di sostenere conversazioni colte, di tenere discorsi e così via. Il contenuto di questi sogni, sembra nascondere qualcosa di caratteristico. Una prima interpretazione superficiale del sogno fa venire fuori un concetto ironico della psicoanalisi, che, come si sa bene, dà più valore ed effetto psichico al vissuto della prima infanzia di quanto non si faccia abitualmente. Questa esagerazione ironica dell’intelligenza del bambino, non farebbe altro che esprimere chiaramente il dubbio sulle comunicazioni psicoanalitiche a questo proposito. Ma poiché fenomeni simili sono molto frequenti nei racconti, nei miti e nella tradizione religiosa, e sono spesso rappresentati concretamente nella pittura (il dibattito della Vergine Maria con i dottori
della Legge), credo che l’ironia qui agisca unicamente da intermediario per evocare ricordi più profondi e più gravi dell’infanzia del soggetto. Il desiderio di divenire sapiente e di superare i “grandi” in saggezza e conoscenza non sarebbe altro che un capovolgimento della situazione in cui si trova il bambino. Una parte dei sogni che rappresentano questo contenuto manifesto e che io ho potuto studiare sono illustrati dalla celebre frase del libertino: “Se soltanto avessi saputo fare un uso migliore dell’allattamento!”. Infine non dimentichiamo che un buon numero di conoscenze sono effettivamente ancora familiari al bambino, conoscenze che in seguito saranno sepolte dalla forza della rimozione. (Ferenczi, 1923 in Bokanowski, 1997, pp. 102-103). 

Scambio di emozioni nel sogno
Un signore di una certa età fu svegliato durante la notte da sua moglie, preoccupata di sentirlo ridere così smodatamente durante il sonno. Il marito le raccontò di aver fatto un sogno: “Ero a letto; un uomo che conoscevo è entrato in camera; ho cercato di accendere la luce, ma non riuscivo ad arrivarci; provavo e riprovavo, ma invano. Anche mia moglie si era alzata dal letto per venirmi in aiuto, ma neppure lei era riuscita a concludere qualcosa; così vergognandosi di trovarsi in camicia da notte alla presenza di questo signore, aveva finito per rinunciarci ed era tornata a letto. Tutto ciò era così comico che sono stato preso da riso irrefrenabile, mentre mia moglie continuava a ripetermi: “Ma perchè ridi così, cosa c’è da ridere?”. Io non riuscivo a smettere fino a quando lei non mi aveva svegliato”. L’indomani il sognatore era estremamente abbattuto e soffriva di un terribile mal di testa. “Sono state quelle risate incredibili che mi hanno sfinito”, diceva. Dal punto di vista analitico questo sogno sembra molto meno divertente. Il “signore di sua conoscenza” che era entrato, è nel pensiero latente del sogno “l’immagine della morte, evocata la sera precedente sotto il nome di ‘grande sconosciuto’”. Il vecchio signore che soffriva di arteriosclerosi aveva avuto la sera precedente occasione di pensare alla sua morte. Le risate irrefrenabili sostituiscono le lacrime e i singhiozzi all’idea che egli debba morire. La lampada che non riesce ad accendere è la lampada della vita. Questo triste pensiero è in rapporto a un recente tentativo di coito non coronato da successo in cui anche l’aiuto di sua moglie in camicia da notte non era stato di alcun aiuto; allora ha preso coscienza del fatto che ormai era sulla china discendente. Il sogno è riuscito a trasformare quel triste pensiero dell’impotenza e della morte in una scena comica e i singhiozzi in riso. Ugualmente si incontrano scambi di emozioni e scambi di gesti di espressione nelle nevrosi, oltreché nel corso dell’analisi sotto forma di “sintomi transitori”.
(Ferenczi, 1916, pp. 95-96). 

Come è possibile osservare dall’analisi di questi sogni, il modo di procedere di Ferenczi all’interpretazione è differente rispetto a quello freudiano. Esso si avvicina di più invece alle modalità suggerite da Jung e Rank. Ferenczi non suddivide minuziosamente il sogno nelle sue piccole componenti, ma lo considera nella sua interezza. Le associazioni e le informazioni che vengono fornite dal paziente, inoltre sono usate oltre che per essere esplorate, per confermare un significato attribuito, dunque l’attendibilità di un’interpretazione.

Il sogno è definito da Ferenczi memoria stratificata in movimento dinamico. Esso riguarda il presente e la ricerca di un Io vivibile, mediante l’esperienza dell’interazione psicoanalitica (Borgogno, 2000).
Esso è una comunicazione essenziale del paziente e può racchiudere in sé elementi fondamentali rispetto a ciò che viene “non detto” (verbalizzato). Mediante il sogno c’è la possibilità che questo materiale emerga in forma “sensoriale”.
Tutto ciò riveste un grosso valore nel momento dell’incontro tra paziente e analista, poiché, per Ferenczi, è esattamente questo il genere di materiale che costituisce un’analisi “riuscita”. 

Qui Ferenczi fa riferimento ad un approccio basato su un'evoluzione del concetto che Freud chiamava abreazione. Propone cioè un approccio leggermente diverso e quanto mai attuale del transfert: la possibilità di sperimentare emotivamente i contenuti traumatici in un contesto di ripetizione protetto. Secondo Ferenczi, infatti i sogni vengono raccontati alla persona a cui si riferisce il contenuto latente. Nello specifico, la persona dell’analista. L’analista è la sorgente esogena del sogno: il paziente registra tutti i movimenti inconsci dell’analista e li ripropone nel sogno. Un esempio evidente di questo processo è il caso di una paziente di Otto Rank, citata da Ferenczi (1926, p. 381): la paziente di Rank fotografa prontamente il narcisismo del suo analista nel volerle proporre, circa l’interpretazione di un sogno, la propria teoria sulla nascita. 
L’analista deve invece, nella relazione con il paziente, avere tatto nel proporre le sue interpretazioni, in modo che queste possano essere “digeribili” (Borgogno, 2000). Inoltre è necessario, secondo Ferenczi, mantenere un ascolto attento e profondo sul contenuto del sogno, volto ad una comprensione dei contenuti effettivamente affidati dal paziente all’analista; più che concentrarsi sul compito di trovare una conferma narcisistica della propria teoria o modello. E’ immediata, in questo senso, la sensazione che si riceve, dalla lettura delle opere di Ferenzi, di vivacità ed attualità nel modo di lavorare con i pazienti, nello specifico in relazione ai sogni.
L’importanza dell’evoluzione teorica del pensiero di Ferenczi ci viene confermata anche dall’unico passo indietro operato da Freud (1920) nella sua definizione di sogno: ovvero quello relativo alla possibilità che il sogno possa riguardare, oltre che l’appagamento di un desiderio rimosso, anche i contenuti traumatici

E’ possibile che l’attenzione sull’aspetto del trauma abbia fatto seguito agli avvenimenti storici che anche la psicoanalisi come disciplina, nella sua evoluzione, ha vissuto direttamente sulla propria pelle: ci riferiamo alle brutture della prima guerra mondiale; le discriminazioni razziali e i molti soldati e civili morti e feriti in guerra.
Questi eventi hanno sicuramente messo in evidenza l’urgenza di contenuti conflittuali che avevano a che fare più con la realtà, così come indica acutamente Ferenczi, rispetto alla considerazione di contenuti più strettamente intrapsichici, relativi all’infanzia e allo sviluppo di un funzionamento psicologico peculiare in adattamento – in maniera più circoscritta – alle circostanze familiari

Ferenczi in questo senso parla di frammentazione e nello specifico di scissione
La scissione non è prerogativa del sognatore, perchè è l’ambiente ad aver contribuito a determinarla e a continuare a favorirla impedendo agli eventi traumatici di essere rivissuti (Borgogno, 2000). Il sogno che per Ferenczi è memoria sepolta o revenants relativa anche alla propria storia familiare, è invece l’accadimento psichico principale in cui si determina la dissociazione: Ferenczi ne parla come di morte psichica e affettiva, in cui il contatto umano con l’esperienza traumatica è allontanato per mezzo di difese autistiche estreme (Borgogno, 2000). Come risposta a queste formazioni psichiche di blocco, Ferenczi propone un maggior calore e una maggiore partecipazione da parte dell’analista, così come una maggiore fiducia nella “reversibilità dei processi psichici” (1932, p. 279). 
Nella nota del 10 agosto 1930 Ferenczi indica come la dissociazione si manifesta nel paziente: dalla sensazione di aver reciso o perduto la testa, alla vertigine, dall'essere travolti da un ciclone, alla proiezione su oggetti non umani. La scissione è descritta invece come una lacerazione subita. 

Secondo Borgogno (2000) l’analisi deve offrire un contenitore al sognatore in modo da poterlo scongelare, farlo rientrare nella sua pelle, superare la passività e l’anestesia. L’analista deve accogliere la regressione del paziente e assumersi la responsabilità del suo dolore psichico, aumentando l’ascolto e il coinvolgimento e indossando i suoi stessi panni prima di lui (Borgogno, 2000). Egli deve credere alle percezioni del sogno del paziente ed esplorarle soprattutto emotivamente. In questo modo, si consentirà al paziente di risperimentare il trauma, e trovare quindi una connotazione più consona a tale vissuto nel bagaglio della propria esperienza di vita. 

Per Ferenczi in tal senso, l’analista si pone “alla pari” del paziente e non in posizione gerarchica (superiore). Il suo ruolo consiste nell’avvicinare il paziente con sensibilità e rispetto, e discernere tra le identificazioni portate dal paziente. 
Sugli elementi della personalità del paziente in relazione “a chi sta parlando” dentro di lui, si può ravvisare anche un’anticipazione dei temi cari ai teorici delle relazioni oggettuali: l’introiezione e proiezione nella costruzione dell’identità (Borgogno, 2000). 

I temi introdotti da Ferenczi anticipano i paradigmi teorici di molti autori a venire. I limiti del suo approccio appaiono sostanzialmente legati alle sue stesse questioni irrisolte: nella mutua analisi forse Ferenczi cercava un appoggio per sé stesso e una risoluzione ai conflitti di dipendenza che rimanevano aperti in lui. 
Tale richiesta non venne esaudita da Freud in seguito alla richiesta di aiuto personale di Ferenczi

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