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martedì 17 giugno 2014

Philip Bromberg: il sogno come esperienza dissociativa


La grande onda di Kanagawa (神奈川沖浪裏 Kanagawa Oki Nami Ura?, lett. Sotto un'onda di Kanagawa) è una xilografia, in stile ukiyo-e, del pittore giapponese Hokusai (1760-1849). E' la prima e la più celebre tra quelle che compongono la serie intitolata 36 vedute del Monte Fuji. È stata pubblicata la prima volta nel 1832.


Trauma e dissociazione sono concetti che hanno avuto un destino psicoanalitico controverso, un destino caratterizzato da flussi e riflussi di interesse teorico e clinico. Il concetto di trauma ha infatti accompagnato la nascita e lo sviluppo del pensiero psicoanalitico.
A differenza del concetto di dissociazione, esso ha continuato a restare al centro delle riflessioni teoriche di analisti diversi. Freud (1914), anche dopo aver abbandonato la teoria della seduzione – concludendo che, se era vero che le isteriche riconducevano i loro sintomi a traumi inventati, “la novità consiste appunto nel fatto che [...] creano tali scene nella loro fantasia” (p. 391) – mantenne due distinti modelli del trauma: come esito di uno stato affettivo insostenibile, e come esito dell’affiorare di un’idea o fantasia inaccettabile (Krystal, 1988). Successivamente Freud (1926), nel tentativo di conciliare queste due visioni, descrisse il trauma come uno stato in cui l’Io si trova indifeso davanti al montare di pressioni pulsionali, siano esse di natura esterna o interna.

E’ quindi grazie agli autori delle relazioni oggettuali (Winnicott, Khan, etc.) che si assiste ad un recupero dell’importanza del concetto di “trauma ambientale” e dell’idea che non sia tanto il trauma o gli affetti scatenati da esso ad avere potenzialità disturbanti, ma l’impossibilità che questi vengano gestiti e regolati nella relazione con l’oggetto.

Come scrivono Stolorow e Atwood (1992) “dolore e patologia sono due cose diverse” (p. 63). Balint (1969) sottolineava come avesse importanza non l’evento in sé, quanto l’assenza di risposte di contenimento e sollievo alle reazioni dolorose al trauma. E’ in tale assenza che si configura la fonte reale degli stati traumatici e della psicopatologia. Questo concetto veniva ribadito anche per quelle sottili “interferenze” (Winnicott, 1949), sovrastimolazioni (Greenacre, 1958), ferite narcisistiche (Kohut, 1971), vale a dire l’insieme di quei traumi “silenziosi” (Hoffer, 1952) e “cumulativi” (Khan, 1963) che possono verificarsi lungo il percorso dello sviluppo.

Diverso è stato invece il destino del tema della dissociazione. Dopo la rottura con Breuer, Freud introduce il concetto di rimozione. Da allora, gli psicoanalisti hanno trascurato lo studio degli stati di coscienza e dei fenomeni dissociativi per concentrarsi sui temi del conflitto e della rimozione.

La dissociazione ha tuttavia continuato ad attrarre l’attenzione degli analisti, fino a essere recuperata grazie al lavoro di Sullivan e di autori britannici (Fairbairn, 1952; Winnicott, 1971) e a raggiungere oggi, tra gli attuali modelli psicoanalitici un aspetto di primo piano.

La metafora della mente come entità monadica è stata così sostituita da quella di un collage di organizzazioni e prospettive molteplici che si sovrappongono, dove l’esperienza viene appiattita grazie ad un illusorio senso di continuità (Bromberg, 2006).

Sul piano evolutivo questa nuova metafora organizzatrice si traduce con l’idea che la precoce relazione madre-bambino rappresenti il “luogo” in cui vengono costruiti i “ponti” tra i diversi stati del Sé: la madre che aiuta il bambino a tollerare e negoziare la transizione degli stati e degli affetti costituisce (e forma) nella mente un’esperienza di collegamento in grado unire la molteplicità delle esperienze contraddittorie e mutevoli di Sé (e di Sé con gli altri) (Pizer, 1998). Come spiega Bromberg (1998):

Il processo evolutivo che facilita la transizione tra stati di consapevolezza deriva dalla capacità di una persona in salute di appianare la consapevolezza dei cambiamenti, una conquista enormemente facilitata dalla presenza di un caregiver che, attraverso un processo di regolazione reciproca, aiuta il bambino a conseguire delle transizioni di stato non traumatiche per mezzo di un’adeguata responsività interattiva alla sua soggettività (p. 178).

Durante lo sviluppo, in cui le precoci esperienze formano le fondamenta dei vari stati del Sé e i collegamenti tra loro, la dissociazione consente lo sviluppo di una continuità, coerenza e integrità del senso del Sé. Se però la discrepanza tra le esperienze è troppo ampia per essere tollerata, e i “paradossi” non trovano una soluzione, il suo scopo diventa allora quello di evitarne la dissoluzione traumatica (Bromberg, 1993). Interviene allora la dissociazione a trasformare la normale molteplicità in una molteplicità dissociata. La molteplicità dissociata del Sé è l’esito del crollo dei ponti che legano i diversi stati del Sé allo scopo di preservare la necessaria illusione di unitarietà (Bromberg, 1998).

Quando questa illusione di unità è minacciata in maniera traumatica da un inevitabile, precipitoso sconvolgimento, essa diviene un ostacolo poiché [l’individuo] rischia di essere sommerso da informazioni che non può elaborare simbolicamente e trattare come uno stato di conflitto. Quando l’illusione di unità è troppo pericolosa per essere mantenuta, quello che chiamiamo compulsività e pensiero ossessivo può spesso servire per sostenere il processo dissociativo riempiendo questi “spazi”, negando persino che siano mai esistiti (Bromberg, 1993, pp. 111-112).

La dissociazione interviene allora a preservare la coerenza personale, il senso di continuità e di sanità mentale “scollegando ipnoticamente gli stati di consapevolezza incompatibili, consentendogli l’accesso solo come esperienze mentali discontinue e senza nesso sul piano cognitivo”. Il problema in questo caso è che “così facendo la cura diventa per gli individui traumatizzati anche il loro problema principale” (Bromberg, 1994, p. 196). E così, quello che in precedenza era la normale capacità dissociativa della mente, una configurazione fluida di stati del Sé multipli che rendono la persona in grado di “sentirsi uno in molti”, viene irrigidita all’interno di una struttura mentale dissociata (Bromberg, 1998, p. 16). Un “sacrificio del Sé [...] al servizio della sua conservazione” (Chefetz, Bromberg, 2004, p. 437).

L’effetto del trauma è il danneggiamento delle funzioni integrative della mente. Quello che resta è una “amnesia retroattiva” una “memoria somatica” priva di rappresentazione simbolica. Ai soggetti traumatizzati, secondo Stern (1997), rimarrebbero parti di esperienze non formulate, non espresse, perchè non hanno un contesto narrativo e un’esperienza del Sé nella quale esistere. I vasti domini di sensazioni, percezioni e pensieri associati al trauma, in attesa di essere formulati e dotati di significato, vengono mantenuti non formulati dalla dissociazione: l’esperienza non formulata riguarderebbe quindi ciò che non è stato portato alla coscienza, non ciò che è stato eliminato dalla consapevolezza, ed è per questo inaccessibile alla riflessione e non esprimibile con il linguaggio (1).

La sensazione di paura determinata dall’evento traumatico continua ad essere sentita come reale, ma viene percepita come un’aspettativa di quello che potrebbe accadere o che sta accadendo, piuttosto che di quello che è accaduto. La sensazione, per il soggetto traumatizzato, è quella di dover restare sempre “all’erta” per un pericolo che – è sicuro – si sta per presentare, piuttosto che per il ricordo di un pericolo.

E’ da questa prospettiva che Bromberg si è recentemente interessato ai sogni e al loro significato, tanto da intitolare il suo penultimo lavoro Destare il sognatore (Bromberg, 2006).

Bromberg (2006) nota che talvolta un paziente può iniziare la seduta dicendo “Non ho niente di cui parlare oggi; vorrei almeno aver fatto un sogno”. Un’affermazione che, classicamente, viene letta come una forma di resistenza, come se significasse: “Se avessi un sogno potrei evitarmi di pensare al perché non ho nulla da dire oggi”. Per Bromberg (2006) invece questa affermazione può essere letta come: “Ho voglia di raccontarle un sogno, ma non ho alcun sogno” (p. 33); come cioè la voce di uno stato del Sé dissociato che sta cercando di trovare una voce e che sta dicendo “Non ho niente di cui parlare oggi, ma forse qualcun altro dentro di me sì”.

Per questo motivo, sostiene, se il “sogno” può essere concepito come “il caso particolare più noto del più generale fenomeno della dissociazione – la normale capacità autoipnotica della mente umana – l’esperienza onirica potrebbe allora essere considerata la più comune tra le attività dissociative della mente – e la sua funzione notturna uno sforzo adattivo per gestire livelli minimi di esperienze non-me affettivamente disturbanti senza compromettere l’illusione di veglia della coscienza” (Bromberg, 2006, p. 41).

In altre parole, l’uso del sogno in analisi, ad un certo livello, viene concepito come un’esperienza transizionale che rende possibile il potenziale collegamento di stati del Sé dissociati, consentendo alle voci degli altri stati del Sé di essere ascoltate e avere accesso alla struttura dinamica che il paziente definisce “me”. “Il processo attraverso cui ha luogo tutto questo non è”, scrive Bromberg (2006, p. 41) “adeguatamente descritto dall’espressione ‘interpretazione dei sogni’”. Piuttosto, l’autore tenta di descriverlo come un graduale sviluppo di un dialogo tra lo stato del Sé di veglia del paziente-come-paziente e lo stato del Sé onirico del paziente-come-sognatore. Con questa metafora Bromberg si riferisce alla necessità, per l’analista, di indirizzarsi direttamente ai processi dissociativi che determinano il funzionamento della struttura dissociativa del paziente.

L’esplorazione del sogno del paziente, quindi, non può affidarsi esclusivamente all’interpretazione. Nella prospettiva di Bromberg (1998) l’obiettivo della cura è quello di aiutare il paziente a prendere parte e collegare i diversi aspetti di sé, favorendo così una maggior coerenza dell’esperienza di “chi egli sia”, pertanto il sogno può diventare un importante alleato: “Se accettiamo che il sognatore è dentro il suo sogno (dentro una realtà psichica a sé), non solo il nostro modo di trattare i sogni in psicoanalisi cambierà, ma tutto ciò che ha luogo tra noi e il nostro paziente sarà sperimentato diversamente, compreso il modo in cui percepiamo e usiamo transfert e controtransfert” (2006, p. 41).

Molto spesso, dice Bromberg (2006), gli analisti hanno avuto la tendenza a colludere con l’esperienza vigile che i pazienti fanno del sogno, considerandolo come qualcosa di alieno all’esperienza, qualcosa che può essere conosciuto soltanto in modo indiretto, attraverso le associazioni sul sogno ricordato.

Al contrario, secondo l’autore, se si accetta che la realtà “onirica” rappresenta un diverso stato di coscienza e che, il fatto che abbia luogo durante il sonno, non rende la sua distanza dalla realtà vigile più incolmabile di quella tra due qualsiasi stati del Sé dissociati, allora è possibile pensare che si possa sognare ed essere vigili al tempo stesso.

L’esplorazione del sogno diventa così il ricorso ad uno spazio potenziale (Winnicott, 1971) in cui ciascun membro della relazione è in grado di fare esperienza della realtà vigile dell’altro come se fosse il proprio “sogno”: “In altre parole, la soggettività del paziente, per quanto conoscibile direttamente solo dal suo autore, è, di fatto, accessibile esperenzialmente all’analista come fosse un suo sogno e viceversa, aprendo uno spazio in cui le realtà vigili di paziente e analista fanno posto ai potenziali sognatori” (Bromberg, 2006, p. 43).

Sul piano tecnico, questo significa che “quando un paziente porta un sogno in seduta, il compito dell’analista è quello di permettergli di portare in seduta il sognatore” (p. 41). Si tratta, in altre parole, di invitare il paziente a rivivere il sogno come se lo stesse sperimentando in quel momento – un invito a rientrare nel proprio spazio onirico conservando, al contempo, la sua realtà vigile.

Nella prospettiva di Bromberg (2006), il sogno, più che un racconto da comprendere, è una realtà di cui fare esperienza con la maggiore profondità possibile “come se stesse avendo luogo in questo momento” (p. 45). Il principale compito psicoanalitico; “interpretare” il sogno, si trasforma così nel tentativo di far nascere e sviluppare un dialogo tra il sé della veglia del paziente-come- paziente e il sé onirico del paziente-come-sognatore. Un metodo che sta a indicare “una moltitudine di processi attraverso cui stati del Sé fluttuanti nel paziente e nell’analista appaiono sulla scena del dialogo intersoggettivo generando, da entrambe le parti, maggiore coerenza nello stato del Sé” (ibidem, p. 24).



(1) “Solitamente pensiamo alla consapevolezza come allo stato naturale dell’esperienza. Immaginiamo che, se siamo inconsapevoli di un qualcosa, sia necessario fare qualcosa per poterne diventare consapevoli. [...] Ma che succede se capovolgiamo i termini e guardiamo alla comparsa dell’esperienza nella consapevolezza non come lo stato di cose che si verifica ‘naturalmente’, ‘da solo’, o senza intervento, ma come un evento naturale? ...Che succede se la tendenza naturale delle cose è di restare al di fuori della consapevolezza? Che succede se azione e sforzo sono richiesti non per mantenere l’esperienza fuori dalla consapevolezza, ma per portarla al suo interno?” (Stern, 1997, p. 85).

Bibliografia

Balint M. (1969), Il difetto fondamentale. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1983.
Bromberg P. M. (1993), Shadow and Substance: A Relational Perspective on Clinical Process. Psychoanalytic Psychology, 10, 147-168.

Bromberg, P. M. (1993), Discussion of “Obsessions and/or Obsessionality: Perspectives on Psychoanalytic Treatment”. by Walter E. Spear. Contemporary Psychoanalysis, 29, 90-100.

Bromberg, P. M. (1994), “Speak! That I May See You”: Some Reflections on Dissociation, Reality, and Psychoanalytic Listening. Psychoanalytic Dialogues, 4, 517-547.

Bromberg, P. M. (1998), Clinica del trauma e della dissociazione. Standing in the spaces. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2007.

Bromberg, P. M. (2006), Destare il sognatore. Percorsi clinici. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2009.

Chefetz R. A., Bromberg, P. M. (2004), Talking with “Me” and “Not Me”. Contemporary Psychoanalysis, 40(3), 409-64.

Fairbairn, W. R. D. (1952), Studi psicoanalitici sulla personalità. Bollati Boringhieri, Torino 1970.

Freud, S. (1912-1914), Totem e tabù e altri scritti. Tr. it. in Opere vol. VII, Bollati Boringhieri, Torino 1985.
Freud, S. (1926), Inibizione, sintomo e angoscia, Tr. it. in Opere, vol. X, Boringhieri, Torino 1978.
Greenacre, P. (1958), Early Physical Determinants in the Development of the Sense of Identity. Journal of American Psychoanalytic Association, vol. 6.

Hoffer, W. (1952), The Mutual Influences in the Development of Ego and Id. Psychoanalytic Study of the Child, VII, 31-41.

Khan, M. (1963), “Il concetto di trauma cumulativo”. In Khan, M. (1974), Lo spazio privato del Sé. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1979.
Kohut, H. (1971), Narcisismo e analisi del Sé. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1976.

Krystal, H. (1988), Integration and Self-healing: Affect-Trauma-Alexithymia. The Analytic Press, Hillsdale, NJ.
Pizer, S. A. (1998), Building Bridges: the negotiation of paradox in psychoanalysis. Routledge, 1998.

Stern, D. (1997), L’esperienza non formulata. Tr. it. Edizioni il Cerro, Firenze 2007.
Stolorow, R. D., Atwood, G. E. (1992), I contesti dell'essere: le basi intersoggettive della vita psichica. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1995.

Winnicott, D. W. (1949), The Ordinary Devoted Mother and Her Baby. Nine Broadcast Talks., London: Private Distribution Only
Winnicott, D. W. (1949), Hate in the counter-transference. Int. J. Psychoanal., 30:69–74.

Winnicott, D. W. (1971), Gioco e realtà. Armando Editore 1974.




giovedì 9 gennaio 2014

Masud Khan: l’influenza di Winnicott e la capacità di sognare





Il soggetto che sogna è l’intero soggetto. Khan, 1975, p. 50

Masud Khan, psicoanalista inglese di origine indiana, fu paziente e allievo di Ella Freeman Sharpe e di Donald Winnicott.
Tra i suoi principali contributi teorici ricordiamo il concetto di trauma cumulativo; Khan (1963) partendo dai concetti espressi da Ferenczi, Winnicott, Spitz e Bowlby, offre una prospettiva sul tema del trauma a cavallo tra la tradizione delle relazioni oggettuali inglesi e una nuova prospettiva, più francamente relazionale.
Il trauma cumulativo riguarda l’esperienza quotidiana e protratta di piccole defaillànce nelle cure materne, che generano nel bambino delle microfratture nella coesione del Sé. Tale genere di trauma non è riconoscibile come evento scatenante che è possibile isolare, ma al contrario come una serie di circostanze di distress e mancata sintonizzazione nella relazione con la madre, che appaiono fattori secondari nella valutazione dello stato di salute mentale del bambino, ma che tuttavia a lungo termine generano una situazione di frammentazione (Khan, 1963).
Nello specifico, il trauma cumulativo può caratterizzarsi per una serie di abbandoni, rifiuti, intrusioni, silenzi, mancata assoluzione delle necessità primarie del bambino di cure materne, che generano un vissuto di perdita ed inerzia e che può portare ad uno stato di alienazione.
Khan che risente dell’influsso dell’opera della Klein, nonostante sia schierato con il gruppo di mezzo degli indipendenti inglesi; indica nell’oggetto interno idoleggiato e composito un ultimo residuo della concezione kleiniana di oggetto interno.
L’oggetto composito riguarda l’introiezione di oggetti discordanti con il proprio Sé in una sorta di precoce dissociazione a partire dall’infanzia; mentre l’oggetto idoleggiato riguarda la possibilità di esteriorizzare gli aspetti discondarnti del Sé verso l’esterno mediante degli agiti perversi. Secondo Khan le perversioni sono un tentativo di autocura (Gazzillo, Silvestri, 2008).
Khan (1970) riflettendo sulla teoria freudiana elogia le scoperte del fondatore della psicoanalisi, in particolare relativamente alle sue capacità autoanalitiche e alla relazione amicale-transferale intrattenuta con l’amico Fliess. Secondo Khan, un amico è colui che consente di sperimentare vicinanza e distanza, sentimenti di ambivalenza nel processo autoconoscitivo (Gazzillo, Silvestri, 2008).
L’autore rivela le radici della sua formazione psicoanalitica riferendosi spesso
a Winnicott: “Ho incominciato a scoprire nel mio lavoro clinico con gli adulti, che questi possono servirsi dello spazio onirico esattamente nello stesso modo in cui il bambino usa lo spazio transizionale che gli offre il foglio di carta per i suoi scarabocchi” (Khan, 1972).
Nello scritto Uso e abuso del sogno nell’esperienza psichica l’autore approfondisce il tema della capacità ed incapacità di sognare, per spiegare come nel primo caso ciò consenta la creazione di uno spazio immaginativo in cui il sogno trova la possibilità di attualizzarsi; mentre nel secondo caso, di come l’incapacità di simbolizzare interferisca nella formazione del sogno. Winnicott (1971) in Gioco e realtà indica nelle personalità schizoidi – in contrapposizione con quelle caratterizzate da una più marcata impulsività – un opposto funzionamento in relazione al sogno: mentre lo schizoide cerca di “uscire dal sogno” per avvicinarsi maggiormente ai fatti della realtà esterna; le personalità impulsive al contrario, ricercano nel sogno la possibilità di entrare in maggiore contatto con il proprio mondo interno.
Khan (1972) illustra quindi come sia una caratteristica essenziale e allo stesso tempo comune, quella del momento in cui il paziente fa uno shift nel corso dell’analisi nella qualità e nell’uso dei sogni. Il sogno – secondo Khan – contiene materiale preconscio altamente descrittivo che viene represso nell’attività intrapsichica del paziente.
E’ il concetto di transfert secondo l’autore ad aver adombrato quello dell’interpretazione dei sogni; ma di fatto essi sono argomenti affini (Khan, 1972, p. 71).
Il lavoro di Khan sul sogno viene influenzato in particolare da due capitoli di Gioco e realtà (Winnicott, 1971): “Sogno, fantasia e vita reale”, e “L’uso di un oggetto ed entrare in rapporto mediante identificazioni”.
Nel volume, Winnicott presenta il caso clinico di una donna di mezz’età afflitta dal continuo tormento della fantasia o “daydreaming”. Il caso viene riportato da Winnicott (1971) come dissociazione primaria. La donna distingueva tra il vivere reale entrando in contatto con gli oggetti, e la fantasia onirica. Winnicott scrive: “tuttavia il fantasticare rimane un fenomeno isolato, che assorbe energia ma che non contribuisce né al sogno né alla vita reale. In qualche misura, il modo di fantasticare è rimasto statico per tutta la vita di questa paziente; vale a dire che esso datava dai primissimi anni, poiché il modello era già stabilito nel tempo in cui la paziente aveva due o tre anni. Ma era presente già da allora, e probabilmente aveva avuto inizio con una “cura” per farle smettere di succhiare il pollice” (p. 56).
Winnicott individua la differenza tra sogno e fantasia mediante i meccanismi difensivi che ognuno dei due processi psichici utilizza: per il primo è caratteristica la rimozione, mentre per il secondo la dissociazione. Attraverso il processo analitico, la donna riesce a guadagnare l’integrazione e le sue fantasie diventano più ancorate alla realtà. La differenza tra fantasia e stato dissociativo è molto sottile, maggiormente qualitativa che quantitava. Spiega Winnicott: 

La mia paziente è nella mia stanza per il suo trattamento ed un piccolo pezzo di cielo è accessibile alla sua vista. E’ sera. Dice: “Io sono su quelle nuvole rosa dove posso camminare”. Questo, naturalmente, potrebbe essere un volo dell’immaginazione. Potrebbe essere un modo in cui l’immaginazione arricchisce la vita, così come potrebbe essere materia per un sogno. Al tempo stesso per la mia paziente, questa cosa medesima può essere qualche cosa che appartiene ad uno stato di dissociazione e non può diventare conscio, nel senso che lì non c’è mai una persona intera per essere consapevole dei due o più stati dissociati che sono presenti ogni volta nello stesso momento. La paziente può stare seduta nella sua stanza, e pure senza fare assolutamente nulla tranne che respirare, ha (nella sua fantasia) dipinto un quadro, oppure fatto qualcosa di interessante nel suo lavoro, oppure ha fatto una passeggiata in campagna; ma dal punto di vista dell’osservatore nulla di tutto questo è accaduto. In realtà niente è probabile che accada, a causa del fatto che nello stato dissociato tante cose accadono. D’altra parte, essa può stare seduta nella sua stanza pensando al lavoro di domani e facendo programmi o pensando alle sue vacanze, e questo può essere una esplorazione immaginativa del mondo e del luogo in cui sogno e vita sono la stessa cosa. In questo
modo oscilla dallo star bene alla malattia e di nuovo allo star bene [...] Questa particolare donna ha talenti e potenzialità piuttosto eccezionali per varie forme di espressione artistica di sé, e conosce abbastanza della vita in genere e del vivere, nonchè della propria potenzialità, per riconoscere che, in termini di vita, lei sta perdendo l’autobus, e che ha sempre perduto l’autobus (quasi fin dall’inizio della sua vita). Inevitabilmente essa è una delusione per se stessa e per tutti quei parenti e amici che nutrono speranza su di lei. Essa sente, quando la gente spera in lei, che gli altri aspettano qualcosa di lei o da lei, e questo la porta a scontrarsi con la propria essenziale inadeguatezza. Tutto ciò è motivo di intensa sofferenza e di risentimento nella paziente ed è del tutto evidente che senza aiuto essa correva il rischio di suicidarsi, ciò che per lei sarebbe stato semplicemente la cosa da raggiungere più vicina all’omicidio. Quando giunge vicino all’omicidio comincia a proteggere il suo oggetto, così a quel punto ha l’impulso di uccidere se stessa e in tal modo porre fine alle proprie difficoltà mediante la propria morte e la loro cessazione. Il suicidio non porta soluzioni, soltanto la fine della lotta.
(Winnicott, 1971, pp. 57-58). 

Nel secondo capitolo citato da Khan (1972) di Gioco e realtà, l’autore indica come Winnicott fa differenza tra il relazionarsi con l’oggetto e il fare uso dell’oggetto: “Per usare un oggetto, il soggetto deve aver sviluppato una capacità di usare gli oggetti” (p. 143). Questa capacità è un’altra conseguenza della bontà dello sviluppo data dall’ambiente in cui il bambino cresce.
Tra l’uso dell’oggetto e la relazione con l’oggetto c’è uno spazio in cui il bambino avrebbe dovuto poter sperimentare l’onnipotenza. Questi fenomeni sono palesementi collegati alla realtà delle relazioni esterne, e non riguardano la semplice proiezione.
Queste idee di Winnicott sono ricondotte da Khan al modo in cui il paziente sogna in seduta.
L’autore racconta quindi il caso clinico di un paziente che nel pieno della sua analisi racconta un sogno molto lungo e complesso, di cui tuttavia riesce a ricordare sono una parte, nonostante esso occupi tutta la notte. Khan risponde al paziente chiedendogli se egli abbia effettivamente dormito durante la notte. Il paziente imbarazzato spiega che tale genere di sogni gli capitano sin dall’adolescenza lasciandogli un senso di depersonalizzazione e sfinimento.
Il paziente in realtà non dorme, piuttosto finisce in un macabro e strano stato di coscienza in cui rincorre episodi sempre più complessi del sogno rimanendo impantanato in tale processo. Si tratta – anche in questo caso – di un stato mentale dissociato in cui il paziente si rifugia per isolarsi dalla realtà circostante.
All’origine di questi episodi, il paziente associò degli incubi terrifici avuti durante l’infanzia. I traumi infantili del paziente hanno impedito la sua capacità di usare il sogno in modo maturo; ovvero come luogo in cui riporre i propri desideri e modo per preservare il sonno. Il paziente non aveva i requisiti esposti da Kahn (1962) nel precedente lavoro sulla capacità di sognare; per questo motivo egli poteva fare soltanto incubi.
Ciò che Khan (1972) vuole mettere in evidenza e ribadire rispetto al lavoro di Winnicott, è che la dissociazione può manifestarsi come uno stato onirico spaventoso e terrificante in cui il paziente si rinchiude per affrontare il trauma e per negare i suoi istinti libidici. Il paziente arriva al punto di scambiare il sogno con sé stesso, tanto che emerge sin dalle prime battute dell’analisi il racconto di un sogno che sembra “non finire mai”. L’analisi riesce quindi a porre fine a questo stato dissociativo strettamente collegato al sogno perchè, come affermato da Winnicott (1971), il paziente riesce a distinguere tra fantasia e realtà, sogno e realtà, dissociazione e realtà, riacquistando la connessione con il mondo esterno.
Il secondo argomento che Kahn discute è quello dell’attualizzazione dello 
spazio-onirico. L’analista deve essere in grado di distinguere tra il processo del sognare e lo spazio analitico in cui il sogno si attualizza. Riprendendo la definizione freudiana di sogno come appagamento di un desiderio, Khan (1972), ribadisce che il sogno è una capacità strettamente connessa alle funzioni dell’Io di usare la simbolizzazione (concetto base del freudiano lavoro onirico).
Khan illustra quindi il caso clinico di una ragazza di ventitre anni, in analisi da tre anni; descritta dall’autore come un caso che corrisponderebbe oggi alla diagnosi di disturbo borderline. La ragazza porta il seguente sogno in seduta: 

Nel mio sogno sono nella mia stanza e Peter mi sta scopando. Mi rendo conto di quello che sta accadendo e finisce. 

Khan è impressionato dall’incipit del sogno “Nel mio sogno”; esso indica uno spazio specifico del sogno. La ragazza nel corso delle associazioni fatte al sogno arriva a capire, mediante il sogno stesso, che nello spazio onirico è stato possibile per lei attualizzare l’esperienza del senso del Sé e della sua istintività che era stata, fino a poco prima agita verso l’esterno.
Il sogno è definito dunque da Kahn come un processo biologico della psiche umana che si configura come il risultato di uno sviluppo adeguato della persona, facilitato da cure ottimali e holding ambientale durante l’infanzia.
Per Khan (1972) il sogno è un nuovo spazio transizionale in cui la persona ripone i propri contenuti psichici. Se non si riesce a sviluppare tale capacità – secondo l’autore – il risultato sarà la tendenza all’acting out, così come un eccesso di senso opposto (dissociazione), porta l’individuo a chiudersi nel proprio mondo onirico, senza riuscire a rivolgere lo sguardo al mondo reale.
L’attualizzazione dei contenuti inconsci nello spazio del sogno permette una efficace elaborazione mediante l’uso della simbolizzazione.
Nell’ultimo lavoro sul sogno, Al di là dell’esperienza onirica, Khan (1975) esprime una nuova ipotesi: “bisognerebbe distinguere tra l’esperienza onirica e il significato del testo onirico che viene ricordato. La mia esperienza clinica mi ha insegnato che il sognare è un’esperienza psichica del tutto diversa da quella fornita dal testo onirico rievocabile” (pp. 48-49).
L’autore segue l’esempio di Starobinski nel saggio Hamlet et Oedipe (1970) che aveva affermato: “l’inconscio non è soltanto linguaggio, è drammaturgia”, e ribalta il concetto espresso da Pontalis (1955) “il soggetto che parla è l’intero soggetto” per affermare che “il soggetto che sogna è l’intero soggetto” (Khan, 1975, p. 50). L’autore vuole chiarire il ruolo del Sé nel sogno: 

Esiste un’esperienza onirica della quale nel testo onirico non vi è traccia; si tratta cioè di due eventi che non sono né complementari né antitetici. Nell’esperienza complessiva di sé, da parte di un individuo, possono a volte sovrapporsi, oppure restare separati e privi di rapporti. Ma non dobbiamo dimenticarci che l’esperienza onirica esiste e influenza il comportamento dell’individuo, anche quando non viene riconosciuta né descritta (con parole o con immagini); e che si deve intervenire sull’assenza di un’esperienza vissuta in una persona, senza cercare di articolarla nell’ambito del processo secondario.
(Khan, 1975, p. 52). 

Ciò che Khan intende dire è che mediante l’esperienza onirica, il paziente può esprimere parti del proprio Sé che sarebbero altrimenti irraggiungibili. Questo genere di esperienza, è in grado di arricchire la vita della persona; così come la sua assenza, al contrario, la impoverisce.

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