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giovedì 16 giugno 2016

'L'abisso della follia' di George Atwood - dal giudizio sulla malattia mentale alla comprensione dell'unicità umana



Le forme più gravi di sofferenza psichica non sono deviazioni da una norma prestabilita, ma il risultato di contesti relazionali traumatici, privi di responsività affettiva, comprensione ed empatia. Forte di cinquant’anni di esperienza clinica con i pazienti comunemente considerati “gravi”, Atwood tenta d’illustrare tale prospettiva – il contestualismo fenomenologico della psicoanalisi post-cartesiana – attraverso i suoi appassionati racconti di successi e fallimenti nella psicoterapia di individui comunemente sottoposti a diagnosi e trattamento psichiatrico. La barriera che divide la salute dalla cosiddetta malattia mentale è spazzata via da Atwood proprio attraverso la comprensione dei mondi personali nascosti da queste diagnosi, che si rivelano risposte umane a contesti soggettivi che spingono verso il ciglio dell’abisso. La cosiddetta “malattia mentale” è quindi uno sforzo per la risalita, ed è proprio attraverso la comprensione del senso soggettivo di fenomeni umani che si celano dietro termini come depressione, schizofrenia, disturbo bipolare, sogni e deliri che la cura è possibile. L’umanità è un ingrediente fondamentale per la terapia. Ciò che rende umana la possibilità di comprensione è proprio la capacità del clinico di riconoscere quanto la follia sia una possibilità che riguarda tutti noi.

George Atwood, PhD, è professore emerito di Psicologia Clinica presso la Rutgers University, membro fondatore e analista supervisore dell’Institute for the Psychoanalytic Study of Subjectivity di New York, membro onorario APA (American Psychoanalytic Association), autore di numerosi articoli e libri, tra cui Volti nelle nuvole, I contesti dell’essere, Psicopatologia intersoggettiva, Intersoggettività e lavoro clinico, La prospettiva intersoggettiva, che prendono in esame gli approcci terapeutici agli stati psicotici. I suoi principali interessi comprendono la teoria della personalità, l’analisi delle fonti psicologiche dei sistemi filosofici e l’esplorazione della complessa relazione tra follia e genio creativo.


Atwood, G., (2012). L'abisso della follia. Giovanni Fioriti Editore

martedì 17 giugno 2014

Philip Bromberg: il sogno come esperienza dissociativa


La grande onda di Kanagawa (神奈川沖浪裏 Kanagawa Oki Nami Ura?, lett. Sotto un'onda di Kanagawa) è una xilografia, in stile ukiyo-e, del pittore giapponese Hokusai (1760-1849). E' la prima e la più celebre tra quelle che compongono la serie intitolata 36 vedute del Monte Fuji. È stata pubblicata la prima volta nel 1832.


Trauma e dissociazione sono concetti che hanno avuto un destino psicoanalitico controverso, un destino caratterizzato da flussi e riflussi di interesse teorico e clinico. Il concetto di trauma ha infatti accompagnato la nascita e lo sviluppo del pensiero psicoanalitico.
A differenza del concetto di dissociazione, esso ha continuato a restare al centro delle riflessioni teoriche di analisti diversi. Freud (1914), anche dopo aver abbandonato la teoria della seduzione – concludendo che, se era vero che le isteriche riconducevano i loro sintomi a traumi inventati, “la novità consiste appunto nel fatto che [...] creano tali scene nella loro fantasia” (p. 391) – mantenne due distinti modelli del trauma: come esito di uno stato affettivo insostenibile, e come esito dell’affiorare di un’idea o fantasia inaccettabile (Krystal, 1988). Successivamente Freud (1926), nel tentativo di conciliare queste due visioni, descrisse il trauma come uno stato in cui l’Io si trova indifeso davanti al montare di pressioni pulsionali, siano esse di natura esterna o interna.

E’ quindi grazie agli autori delle relazioni oggettuali (Winnicott, Khan, etc.) che si assiste ad un recupero dell’importanza del concetto di “trauma ambientale” e dell’idea che non sia tanto il trauma o gli affetti scatenati da esso ad avere potenzialità disturbanti, ma l’impossibilità che questi vengano gestiti e regolati nella relazione con l’oggetto.

Come scrivono Stolorow e Atwood (1992) “dolore e patologia sono due cose diverse” (p. 63). Balint (1969) sottolineava come avesse importanza non l’evento in sé, quanto l’assenza di risposte di contenimento e sollievo alle reazioni dolorose al trauma. E’ in tale assenza che si configura la fonte reale degli stati traumatici e della psicopatologia. Questo concetto veniva ribadito anche per quelle sottili “interferenze” (Winnicott, 1949), sovrastimolazioni (Greenacre, 1958), ferite narcisistiche (Kohut, 1971), vale a dire l’insieme di quei traumi “silenziosi” (Hoffer, 1952) e “cumulativi” (Khan, 1963) che possono verificarsi lungo il percorso dello sviluppo.

Diverso è stato invece il destino del tema della dissociazione. Dopo la rottura con Breuer, Freud introduce il concetto di rimozione. Da allora, gli psicoanalisti hanno trascurato lo studio degli stati di coscienza e dei fenomeni dissociativi per concentrarsi sui temi del conflitto e della rimozione.

La dissociazione ha tuttavia continuato ad attrarre l’attenzione degli analisti, fino a essere recuperata grazie al lavoro di Sullivan e di autori britannici (Fairbairn, 1952; Winnicott, 1971) e a raggiungere oggi, tra gli attuali modelli psicoanalitici un aspetto di primo piano.

La metafora della mente come entità monadica è stata così sostituita da quella di un collage di organizzazioni e prospettive molteplici che si sovrappongono, dove l’esperienza viene appiattita grazie ad un illusorio senso di continuità (Bromberg, 2006).

Sul piano evolutivo questa nuova metafora organizzatrice si traduce con l’idea che la precoce relazione madre-bambino rappresenti il “luogo” in cui vengono costruiti i “ponti” tra i diversi stati del Sé: la madre che aiuta il bambino a tollerare e negoziare la transizione degli stati e degli affetti costituisce (e forma) nella mente un’esperienza di collegamento in grado unire la molteplicità delle esperienze contraddittorie e mutevoli di Sé (e di Sé con gli altri) (Pizer, 1998). Come spiega Bromberg (1998):

Il processo evolutivo che facilita la transizione tra stati di consapevolezza deriva dalla capacità di una persona in salute di appianare la consapevolezza dei cambiamenti, una conquista enormemente facilitata dalla presenza di un caregiver che, attraverso un processo di regolazione reciproca, aiuta il bambino a conseguire delle transizioni di stato non traumatiche per mezzo di un’adeguata responsività interattiva alla sua soggettività (p. 178).

Durante lo sviluppo, in cui le precoci esperienze formano le fondamenta dei vari stati del Sé e i collegamenti tra loro, la dissociazione consente lo sviluppo di una continuità, coerenza e integrità del senso del Sé. Se però la discrepanza tra le esperienze è troppo ampia per essere tollerata, e i “paradossi” non trovano una soluzione, il suo scopo diventa allora quello di evitarne la dissoluzione traumatica (Bromberg, 1993). Interviene allora la dissociazione a trasformare la normale molteplicità in una molteplicità dissociata. La molteplicità dissociata del Sé è l’esito del crollo dei ponti che legano i diversi stati del Sé allo scopo di preservare la necessaria illusione di unitarietà (Bromberg, 1998).

Quando questa illusione di unità è minacciata in maniera traumatica da un inevitabile, precipitoso sconvolgimento, essa diviene un ostacolo poiché [l’individuo] rischia di essere sommerso da informazioni che non può elaborare simbolicamente e trattare come uno stato di conflitto. Quando l’illusione di unità è troppo pericolosa per essere mantenuta, quello che chiamiamo compulsività e pensiero ossessivo può spesso servire per sostenere il processo dissociativo riempiendo questi “spazi”, negando persino che siano mai esistiti (Bromberg, 1993, pp. 111-112).

La dissociazione interviene allora a preservare la coerenza personale, il senso di continuità e di sanità mentale “scollegando ipnoticamente gli stati di consapevolezza incompatibili, consentendogli l’accesso solo come esperienze mentali discontinue e senza nesso sul piano cognitivo”. Il problema in questo caso è che “così facendo la cura diventa per gli individui traumatizzati anche il loro problema principale” (Bromberg, 1994, p. 196). E così, quello che in precedenza era la normale capacità dissociativa della mente, una configurazione fluida di stati del Sé multipli che rendono la persona in grado di “sentirsi uno in molti”, viene irrigidita all’interno di una struttura mentale dissociata (Bromberg, 1998, p. 16). Un “sacrificio del Sé [...] al servizio della sua conservazione” (Chefetz, Bromberg, 2004, p. 437).

L’effetto del trauma è il danneggiamento delle funzioni integrative della mente. Quello che resta è una “amnesia retroattiva” una “memoria somatica” priva di rappresentazione simbolica. Ai soggetti traumatizzati, secondo Stern (1997), rimarrebbero parti di esperienze non formulate, non espresse, perchè non hanno un contesto narrativo e un’esperienza del Sé nella quale esistere. I vasti domini di sensazioni, percezioni e pensieri associati al trauma, in attesa di essere formulati e dotati di significato, vengono mantenuti non formulati dalla dissociazione: l’esperienza non formulata riguarderebbe quindi ciò che non è stato portato alla coscienza, non ciò che è stato eliminato dalla consapevolezza, ed è per questo inaccessibile alla riflessione e non esprimibile con il linguaggio (1).

La sensazione di paura determinata dall’evento traumatico continua ad essere sentita come reale, ma viene percepita come un’aspettativa di quello che potrebbe accadere o che sta accadendo, piuttosto che di quello che è accaduto. La sensazione, per il soggetto traumatizzato, è quella di dover restare sempre “all’erta” per un pericolo che – è sicuro – si sta per presentare, piuttosto che per il ricordo di un pericolo.

E’ da questa prospettiva che Bromberg si è recentemente interessato ai sogni e al loro significato, tanto da intitolare il suo penultimo lavoro Destare il sognatore (Bromberg, 2006).

Bromberg (2006) nota che talvolta un paziente può iniziare la seduta dicendo “Non ho niente di cui parlare oggi; vorrei almeno aver fatto un sogno”. Un’affermazione che, classicamente, viene letta come una forma di resistenza, come se significasse: “Se avessi un sogno potrei evitarmi di pensare al perché non ho nulla da dire oggi”. Per Bromberg (2006) invece questa affermazione può essere letta come: “Ho voglia di raccontarle un sogno, ma non ho alcun sogno” (p. 33); come cioè la voce di uno stato del Sé dissociato che sta cercando di trovare una voce e che sta dicendo “Non ho niente di cui parlare oggi, ma forse qualcun altro dentro di me sì”.

Per questo motivo, sostiene, se il “sogno” può essere concepito come “il caso particolare più noto del più generale fenomeno della dissociazione – la normale capacità autoipnotica della mente umana – l’esperienza onirica potrebbe allora essere considerata la più comune tra le attività dissociative della mente – e la sua funzione notturna uno sforzo adattivo per gestire livelli minimi di esperienze non-me affettivamente disturbanti senza compromettere l’illusione di veglia della coscienza” (Bromberg, 2006, p. 41).

In altre parole, l’uso del sogno in analisi, ad un certo livello, viene concepito come un’esperienza transizionale che rende possibile il potenziale collegamento di stati del Sé dissociati, consentendo alle voci degli altri stati del Sé di essere ascoltate e avere accesso alla struttura dinamica che il paziente definisce “me”. “Il processo attraverso cui ha luogo tutto questo non è”, scrive Bromberg (2006, p. 41) “adeguatamente descritto dall’espressione ‘interpretazione dei sogni’”. Piuttosto, l’autore tenta di descriverlo come un graduale sviluppo di un dialogo tra lo stato del Sé di veglia del paziente-come-paziente e lo stato del Sé onirico del paziente-come-sognatore. Con questa metafora Bromberg si riferisce alla necessità, per l’analista, di indirizzarsi direttamente ai processi dissociativi che determinano il funzionamento della struttura dissociativa del paziente.

L’esplorazione del sogno del paziente, quindi, non può affidarsi esclusivamente all’interpretazione. Nella prospettiva di Bromberg (1998) l’obiettivo della cura è quello di aiutare il paziente a prendere parte e collegare i diversi aspetti di sé, favorendo così una maggior coerenza dell’esperienza di “chi egli sia”, pertanto il sogno può diventare un importante alleato: “Se accettiamo che il sognatore è dentro il suo sogno (dentro una realtà psichica a sé), non solo il nostro modo di trattare i sogni in psicoanalisi cambierà, ma tutto ciò che ha luogo tra noi e il nostro paziente sarà sperimentato diversamente, compreso il modo in cui percepiamo e usiamo transfert e controtransfert” (2006, p. 41).

Molto spesso, dice Bromberg (2006), gli analisti hanno avuto la tendenza a colludere con l’esperienza vigile che i pazienti fanno del sogno, considerandolo come qualcosa di alieno all’esperienza, qualcosa che può essere conosciuto soltanto in modo indiretto, attraverso le associazioni sul sogno ricordato.

Al contrario, secondo l’autore, se si accetta che la realtà “onirica” rappresenta un diverso stato di coscienza e che, il fatto che abbia luogo durante il sonno, non rende la sua distanza dalla realtà vigile più incolmabile di quella tra due qualsiasi stati del Sé dissociati, allora è possibile pensare che si possa sognare ed essere vigili al tempo stesso.

L’esplorazione del sogno diventa così il ricorso ad uno spazio potenziale (Winnicott, 1971) in cui ciascun membro della relazione è in grado di fare esperienza della realtà vigile dell’altro come se fosse il proprio “sogno”: “In altre parole, la soggettività del paziente, per quanto conoscibile direttamente solo dal suo autore, è, di fatto, accessibile esperenzialmente all’analista come fosse un suo sogno e viceversa, aprendo uno spazio in cui le realtà vigili di paziente e analista fanno posto ai potenziali sognatori” (Bromberg, 2006, p. 43).

Sul piano tecnico, questo significa che “quando un paziente porta un sogno in seduta, il compito dell’analista è quello di permettergli di portare in seduta il sognatore” (p. 41). Si tratta, in altre parole, di invitare il paziente a rivivere il sogno come se lo stesse sperimentando in quel momento – un invito a rientrare nel proprio spazio onirico conservando, al contempo, la sua realtà vigile.

Nella prospettiva di Bromberg (2006), il sogno, più che un racconto da comprendere, è una realtà di cui fare esperienza con la maggiore profondità possibile “come se stesse avendo luogo in questo momento” (p. 45). Il principale compito psicoanalitico; “interpretare” il sogno, si trasforma così nel tentativo di far nascere e sviluppare un dialogo tra il sé della veglia del paziente-come- paziente e il sé onirico del paziente-come-sognatore. Un metodo che sta a indicare “una moltitudine di processi attraverso cui stati del Sé fluttuanti nel paziente e nell’analista appaiono sulla scena del dialogo intersoggettivo generando, da entrambe le parti, maggiore coerenza nello stato del Sé” (ibidem, p. 24).



(1) “Solitamente pensiamo alla consapevolezza come allo stato naturale dell’esperienza. Immaginiamo che, se siamo inconsapevoli di un qualcosa, sia necessario fare qualcosa per poterne diventare consapevoli. [...] Ma che succede se capovolgiamo i termini e guardiamo alla comparsa dell’esperienza nella consapevolezza non come lo stato di cose che si verifica ‘naturalmente’, ‘da solo’, o senza intervento, ma come un evento naturale? ...Che succede se la tendenza naturale delle cose è di restare al di fuori della consapevolezza? Che succede se azione e sforzo sono richiesti non per mantenere l’esperienza fuori dalla consapevolezza, ma per portarla al suo interno?” (Stern, 1997, p. 85).

Bibliografia

Balint M. (1969), Il difetto fondamentale. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1983.
Bromberg P. M. (1993), Shadow and Substance: A Relational Perspective on Clinical Process. Psychoanalytic Psychology, 10, 147-168.

Bromberg, P. M. (1993), Discussion of “Obsessions and/or Obsessionality: Perspectives on Psychoanalytic Treatment”. by Walter E. Spear. Contemporary Psychoanalysis, 29, 90-100.

Bromberg, P. M. (1994), “Speak! That I May See You”: Some Reflections on Dissociation, Reality, and Psychoanalytic Listening. Psychoanalytic Dialogues, 4, 517-547.

Bromberg, P. M. (1998), Clinica del trauma e della dissociazione. Standing in the spaces. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2007.

Bromberg, P. M. (2006), Destare il sognatore. Percorsi clinici. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2009.

Chefetz R. A., Bromberg, P. M. (2004), Talking with “Me” and “Not Me”. Contemporary Psychoanalysis, 40(3), 409-64.

Fairbairn, W. R. D. (1952), Studi psicoanalitici sulla personalità. Bollati Boringhieri, Torino 1970.

Freud, S. (1912-1914), Totem e tabù e altri scritti. Tr. it. in Opere vol. VII, Bollati Boringhieri, Torino 1985.
Freud, S. (1926), Inibizione, sintomo e angoscia, Tr. it. in Opere, vol. X, Boringhieri, Torino 1978.
Greenacre, P. (1958), Early Physical Determinants in the Development of the Sense of Identity. Journal of American Psychoanalytic Association, vol. 6.

Hoffer, W. (1952), The Mutual Influences in the Development of Ego and Id. Psychoanalytic Study of the Child, VII, 31-41.

Khan, M. (1963), “Il concetto di trauma cumulativo”. In Khan, M. (1974), Lo spazio privato del Sé. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1979.
Kohut, H. (1971), Narcisismo e analisi del Sé. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1976.

Krystal, H. (1988), Integration and Self-healing: Affect-Trauma-Alexithymia. The Analytic Press, Hillsdale, NJ.
Pizer, S. A. (1998), Building Bridges: the negotiation of paradox in psychoanalysis. Routledge, 1998.

Stern, D. (1997), L’esperienza non formulata. Tr. it. Edizioni il Cerro, Firenze 2007.
Stolorow, R. D., Atwood, G. E. (1992), I contesti dell'essere: le basi intersoggettive della vita psichica. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1995.

Winnicott, D. W. (1949), The Ordinary Devoted Mother and Her Baby. Nine Broadcast Talks., London: Private Distribution Only
Winnicott, D. W. (1949), Hate in the counter-transference. Int. J. Psychoanal., 30:69–74.

Winnicott, D. W. (1971), Gioco e realtà. Armando Editore 1974.




martedì 2 luglio 2013

Un caso di disturbo ossessivo-compulsivo - di Bernard Brandchaft.


Il trasloco di A. per arredarsi una casa propria minacciava di renderlo capace di tirarsi fuori dallo squallore al quale l'impegno con suo padre lo aveva condannato. 
Il "contratto", sul quale suo padre aveva contato, stava ora per essere rotto. Un nuovo legame con l'analista stava minacciando di spodestare il vecchio, e stava rendendo A. capace di ristabilirne di precedenti e sperare di liberarsi dalle opprimenti influenze che bloccavano il suo cammino.
Il processo di recupero della sua vita come cosa propria stava al tempo stesso attivando il pensiero arcaico inconscio secondo cui stava eliminando l'unica ragione di vita di suo padre.
Un violento sommovimento nelle profondità del mondo interiore di A. segnalò l'imminente rottura di un legame di attaccamento arcaico al quale A. era arrivato a sentire dipendere la propria sopravvivenza psicologica. 
I sintomi di estraneazione e l'avvicinamento ad uno "stato vegetativo" erano reazioni di paura ad una minaccia mortale che questo fondamentale cambiamento inconsciamente gli stava procurando. 
Metter piede in un mondo strano e alienante fatto da lui stesso fu per A. un'esperienza molto simile ad un salto nel vuoto.

A. un giovane funzionario di un azienda in analisi per 3 o 4 mesi, aveva una storia passata di grave dipendenza da droga che era culminata qualche anno prima in un'ospedalizzazione seguita da un episodio paranoico indotto dalla droga. 
A. era un bambino abbandonato a se stesso, il minore di tre, cresciuto in un'area urbana degradata del Mid-West da una madre lavoratrice che stava fuori tutto il giorno, e da un padre che aveva un'umile occupazione in un grande magazzino. Le discussioni tra i genitori culminavano frequentemente in eruzioni di collera vulcaniche e di terrificante violenza fisica. L'infanzia di A. fu caratterizzata da un'opprimente solitudine e abbandono. Lasciato con un fratello più grande, si sviluppò un'intensa rivalità che inevitabilmente condusse a una selvaggia ripetizione dei rapporti sadomasochistici dei loro genitori. Nell'esperienza infantile di A. ci fu poco spazio per il conforto, poichè secondo il resoconto di A., la fragilità e la vulnerabilità di sua madre all'offesa profonda, la lasciavano apparentemente priva della capacità di confortare perfino se stessa. Suo fratello condivideva la stanza con la madre, mentre A. dormiva in una stanza con il padre e divenne "tutto suo padre".
Il padre trovò nella qualità atletiche del figlio la sua sola fonte di orgoglio "preso in prestito", mentre i due trovavano riparo l'uno nell'altro in questo ambito privo di gioia. 
Il conforto che A. derivava dall'orgoglio del padre comportava dei costi pesanti, comunque poichè egli si sentiva spinto ad alimentarlo continuamente, sorpassando se stesso, non per qualche proposito che gli appartenesse distintamente, poichè non aveva potuto svilupparne alcuno, ma per mantenere lo spirito di suo padre a galla. In un sogno ricorrente, A. si trovava in una palestra, in un'ampia piscina che occupava completamente la stanza. La piscina non aveva bordi, l'acqua era raccolta all'interno di pareti di mattonelle luccicanti che si estendevano fino all'alto soffitto. A. nuotava furiosamente, e capiva che doveva continuare a nuotare per mantenersi in vita.
Il modello della più tarda sintomatologia ossessivo-compulsiva venne posto in questa infanzia solitaria dalle preoccupazioni rituali di A. che batteva senza fine una palla contro un muro o che lanciava monetine contro una linea finchè non ne poteva più. Qui spinto dal suo bisogno di superare sempre se stesso, cominciò i rituali di conteggio e il dubbio spietato, e la masturbazione che sopportava finchè non ce la faceva più. 
Nella sua infanzia, i suoi movimenti erano circoscritti da un insieme di proibizioni geografiche e dalle sanzioni che compulsivamente si infliggeva qualora avesse violato qualcuna di queste regole. Il comportamento ritualizzato continuò a invadere la sua vita successiva, sempre per salvaguardarsi da qualche minaccia mortale alla sua esistenza. Una preoccupazione ossessiva, per ciò che aveva fatto o mancato di fare, innescava interminabili rituali di conteggio ed un rimuginare senza fine su soldi, peso, dati (che aveva e non aveva), e conduceva a stati di presentimento infausto sulla sua sopravvivenza. 
A. cercò presto conforto nella masturbazione dai terrori delle battaglie con suo fratello, dalla sua anticipazione delle sgridate di sua madre, o proprio dalla mancanza di senso dell'esistenza. Avendo scoperto che la fonte di un certo piacevole sollievo, era incapace di liberarsi da una terrificante convinzione dell'onniscente presenza di sua madre e dall'anticipazione delle sue critiche distruttive. Questo circuito interiore si stabilì come un carattere permanente della sua esperienza di sé, tormentata dalla paura, e il suo impatto veniva intensificato ogni qualvolta ella gli assicurasse causticamente in qualunque contesto, che lei sapeva "per cosa si era alzato", o riguardo a cosa egli "pensava di averla fatta franca". Il modello era strutturato in questo modo perchè il dubbio tormentoso  e l'autocondanna assalissero interi segmenti dell'esperienza interiore di A. Ogni sua personale attività piacevole presto cominciò a tormentarlo, per finire inevitabilmente in "un diluvio sempre crescente di indecisione, perdita di energia e limitazione della libertà" (Freud), ed infine in un'orgia di autopunzecchiamenti e auto-disprezzo. Dal momento che questo ciclo non imprigionò la sua sessualità, condusse ad un esaurimento privo di piacere, e pose le premesse per la successiva tossicodipendenza.
Man mano che l'analisi procedeva, A. cautamente descrisse uno schema di comportamento rituale. A tarda notte avrebbe trovato delle prostitute e si sarebbe abbandonato a messe in scena di sculacciamenti e percosse. Questi desideri si erano rivelati tanto irresistibili per lui, nonostante i pericoli a cui lo esponevano, quanto egli sentiva i suoi continui bisogni di masturbazione. Uno schema significativo emerse quando A. cercò di capire il suo comportamento. Aveva imparato che doveva tenere sua madre a distanza se voleva evitare la sua opprimente influenza. Il conforto transitorio che provava nell'evitare o nell'interrompere i contatti con lei, veniva continuamente eroso, e diventò chiaro che le messe in scena stavano diventando gli unici mezzi attraverso i quali poteva metter termine alla sua preoccupazione ruminativa che sempre sembrava seguire le loro conversazioni.
La "cura" che poteva ottenere quando era capace di districarsi, prestare attenzione a ciò che la connessione con lei gli stava facendo, e creare uno spazio per se stesso, conduceva sempre ad un riemergere del disagio nel quale la sua attenzione era completamente assorbita da una spaventevole preoccupazione per ciò che il suo ricorrere al suo proprio centro interiore le stava facendo. Secondo lui, le sgridate e le espressioni ferite di sua madre gli cadevano addosso come un rimprovero in codice, e il tentativo di A. di liberarsi da un legame nocivo era incessantemente seguito da immagini autolaceranti di se stesso come inescusabilmente crudele e ingrato.
Queste interazioni lo facevano sempre sentire desolato e malevolo. In una spirale in caduta sarebbe diventato ossessionato dai suoi desideri erotici e, spinto da ciò, avrebbe trovato una prostituta inesperta e l'avrebbe condotta nel suo appartamento. Una volta lì, egli l'avrebbe incoraggiata a confidarsi con lui come un padre affettuoso, l'avrebbe confortata e consolata. Questo comportamento era finalizzato a rispondere alla spinta anti-piacere che lo accompagnava, secondo cui egli era soltanto egoisticamente interessato al suo piacere e non si preoccupava di nient'altro. Svolti questi preliminari, A. avrebbe confessato di essere stato "cattivo", e che il processo punitivo sarebbe culminato nel rituale dello sculacciamento. 
Via via che la relazione di A. con sua madre venne ad occupare il centro dell'analisi, i suoi sogni rifletterono la permanente esperienza che aveva di lei, una donna i cui lamenti e imprecazioni cadevano su di lui come colpi di frusta. In un sogno, dava ordine ai suoi servi di batterlo. 
Nella sua infanzia, il fratello di A. aveva scoperto che si poteva ingraziare la loro madre che incitava A. a lamentarsi di lei in modo irriverente e poi a picchiarlo. La sera, il fratello avrebbe raccontato queste vicende. Se A. cercava di spiegarsi o di trovare comprensione, lei rispondeva causticamente, "Non ti lamentare con me, te lo sei voluto!". Il suo sogno aveva fatto seguito ad una lettera di rimprovero di lei alla quale si era rifiutato di rispondere.
Successivamente A. divenne - con terrore - consapevole di quanto rigorosamente avesse replicato il modello di precoce abbandono nella sua cura di se stesso. Il suo appartamento rimase tanto nudo e austero quanto la casa della sua infanzia. La sua decisione di arredare l'appartamento condusse ad una raffica di dubbi ossessivi, così mise la cosa nelle mani di un arredatore, ma si sentì spinto a metter fine alla consultazione quando fu sopraffatto dal panico mentre stavano discutendo insieme i progetti. Egli era solo, un periodo di nera disperazione e "la più assoluta solitudine" che avesse mai provato si abbatterono su di lui. Era tutto ciò che poteva fare per resistere ad un rinnovato bisogno di cocaina causato dalla sua paura. Cominciarono degli intervalli di sollievo ed osservò che potevano placare un pò i sentimenti di morte che aveva cominciato a sviluppare, ma per le successive ventiquattro ore non riuscì a trattenere alcun cibo o liquido, e questo aumentò la sua paura. Il giorno dopo era in pessime condizioni e disse che aveva fatto fatica a rispettare il suo appuntamento analitico. Parlò di onde di intollerabile "solitudine" e di aver dovuto combattere contro desideri strapotenti solo per "raggomitolarsi e giacere nel letto e vegetare". Sentiva di essere in pericolo di vita e stava prendendo in considerazione l'idea di farsi visitare in una istituzione psichiatrica. 
Venne fuori che A. aveva concluso che l'analista si sarebbe sbarazzato di lui perchè troppo disturbato per un'analisi, e lo avrebbe dirottato verso una cura istituzionale e verso la farmacologia, e questa anticipazione aveva contribuito al suo panico e disperazione. Quando queste paure vennero portate alla superficie e analizzate nelle sedute immediatamente successive, A. finì per sentirsi più sicuro nella sua considerazione che l'analista non sembrava ritenere il disturbo di A. fosse una ragione per sbarazzarsi di lui, ma piuttosto una per un più profondo esame analitico. 
Quando l'agitazione di A. si calmò, fu capace di riconoscere che l'impulso che aveva scatenato la violenta reazione era stato un crescente sentimento di eccitazione alla prospettiva di liberarsi di modi radicati di essere auto-punitivo. Consapevole della peculiarità della successione mentale all'interno della quale un'intenzione apparentemente innocua poteva affrettare una tale irresistibile caos, A. divenne più riflessivo, e ricordò un sogno "notevole" e spaventoso, avuto dopo essersi infine addormentato nella notte fatale.
"Ero in un campo vicino a una palestra. Guardavo verso l'alto e con mio spavento c'era l'aereoplano che stava rapidamente perdendo quota; fui preso da una sensazione di nausea (si stava ricordando dei conati che lo avevano colto il giorno prima) quando vidi l'aereo fuori controllo e ad un passo dallo schiantarsi a terra. Ci fu un sonoro boato quando precipitò e poi ogni cosa fu avvolta dalle fiamme. Mi sentivo malissimo e desideravo nascondermi".
Le associazioni di A. prima si diressero verso la sua incertezza su se c'era lui o suo padre all'interno dell'aereo, prima di convincersi che c'era suo padre, ora morto. Ricordò il disprezzo di sua madre per la mancanza di successo di suo padre. I copiosi elogi che suo padre gli rivolgeva erano spesso costellati di riflessioni depressive e di resoconti auto-denigratori della sua incapacità di avvantaggiarsi dalle occasioni che gli erano passate accanto. Ricordò che il senso di sè di suo padre sembrò sbriciolarsi quando si rese conto che ciò che A. poteva diventare era al tempo stesso una deprimente dimostrazione di ciò che egli, il padre, era stato incapace di essere, e poteva alla fine allontanare A. da lui. Egli ricordò il tentativo di combattere l'auto-denigrazione depressiva di suo padre con dichiarazioni per cui egli era, e sarebbe sempre stato, indispensabile per A., per cui A. non sarebbe stato capace di vivere senza suo padre. I ricordi tornarono ai sogni del loro glorioso futuro insieme, che avrebbe cambiato le loro vite dal disastro al dolce trionfo. Ed A. divenne progressivamente consapevole del suo pensiero per cui l'espansivo amore di suo padre era stato suo solo alla condizione che egli non avesse permesso a se stesso alcuna relazione la cui influenza su di lui avesse superato quella di suo padre, nè avesse preso fiducia nella capacità di trovare la propria strada senza la direzione di suo padre.
Il trasloco di A. per arredarsi una casa propria minacciava di renderlo capace di tirarsi fuori dallo squallore al quale l'impegno con suo padre lo aveva condannato. Il "contratto", sul quale suo padre aveva contato, stava ora per essere rotto. Un nuovo legame con l'analista stava minacciando di spodestare il vecchio, e stava rendendo A. capace di ristabilirne di precedenti e sperare di liberarsi dalle opprimenti influenze che bloccavano il suo cammino. Il processo di recupero della sua vita come cosa propria stava al tempo stesso attivando il pensiero arcaico inconscio secondo cui stava eliminando l'unica ragione di vita di suo padre. Un violento sommovimento nelle profondità del mondo interiore di A. segnalò l'imminente rottura di un legame di attaccamento arcaico al quale A. era arrivato a sentire dipendere la propria sopravvivenza psicologica. I sintomi di estraneazione e l'avvicinamento ad uno "stato vegetativo" erano reazioni di paura ad una minaccia mortale che questo fondamentale cambiamento inconsciamente gli stava procurando.
Metter piede in un mondo strano e alienante fatto da lui stesso fu per A. un'esperienza molto simile ad un salto nel vuoto.

R. Stolorow, B. Brandchaft, G. Atwood, (1999) Psicopatologia intersoggettiva. Quattroventi

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