Visualizzazione post con etichetta cambiamento. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta cambiamento. Mostra tutti i post

venerdì 31 agosto 2018

L'amore non è abbastanza - dimmi come ami, ti dirò: "chi sei?"


Mother! è un film del 2017 scritto e diretto da Darren Aronofsky,
con protagonisti Jennifer Lawrence e Javier Bardem.

Anche il più riuscito dei rapporti ha le sue falle.
Come insegnano i principi della regolazione affettiva delle interazioni umane (Tronick, 1989; Beebe, Lachmann, 2002) è impossibile essere perfettamente sintonizzati con qualcuno la maggior parte del tempo; spesso e a maggior ragione nei momenti di maggiore crisi individuale o svincolo evolutivo. Nell'osservazione diretta dell'interazione madre-bambino è possibile osservare che i momenti di "rottura" o anche "pausa" sono essenzialmente più frequenti rispetto a quelli di "incontro" e tali disgiunzioni attese vengono considerate parte del normale processo interattivo, cui segue una forma riparativa - più o meno funzionale a seconda della specifica diade. Tali principi sono stati applicati con successo allo studio delle relazioni adulte. E' infatti possibile prevedere sin dall'osservazione delle interazioni infantili una linea evolutiva che segnerà l'orientamento regolativo generale dell'individuo verso una sicurezza o insicurezza dell'attaccamento (Bowlby, 1969, 1972, 1980; Ainsworth et al., 1978).

I conflitti esistenti nell'ambito delle relazioni affettive familiari e intime possono avere un impatto generalmente sottovalutato ma di enorme portata per la salute mentale, lasciando la persona ripetutamente ansiosa, scossa, paurosa, triste o impotente, fino a sentirsi bloccata; oppure con un costante vissuto di essere sbagliata, in difetto o inadeguata. I maggiori danni sostenuti - sia dal soggetto che le mette in atto, sia da chi le riceve - solitamente riguardano le strategie di difesa di basso livello rispetto all'esame di realtà, quali ad esempio l'aggressività passiva, ovverosia un comportamento celato e socialmente accettabile o giustificabile che nasconde effettivamente un danno inferto, ma anche e soprattutto la rabbia narcisistica, con i difetti empatici che ne consegue; la manipolazione emotiva istericoforme, e le dinamiche di squilibrio di potere (schiavo-padrone e dipendenze). A livello nevrotico più alto sono invece facilmente riscontrabili colpa e vergogna.

Le dinamiche succitate sono in bassa percentuale e occasionalmente vissute anche nella maggiorparte delle interazioni, ma aumentando in frequenza e pervasività descrivono i più comuni circoli disfunzionali delle relazioni apertamente e storicamente conflittuali. Si osserverà, in queste ultime più frequentemente, un'organizzazione del tono emotivo focalizzato sul negativo, piuttosto che sul positivo, e un basso livello di capacità di accettazione, comprensione e reciprocità.

Possiamo sviluppare relazioni dannose con chiunque nel corso della vita – la relazione dannosa con un partner ad esempio (oppure un dirigente, un amico, etc.). Ciò che è utile osservare in termini clinici è che spesso questo genere di rapporti consiste in uno specchio o ripetizione di antiche dinamiche familiari, relative ai rapporti originari con genitori, fratelli, figure di riferimento primarie, etc.
I rapporti dannosi con i caregiver in particolare, sono particolarmente comuni, e soprattutto difficili da affrontare e gestire perché legati a un dogma sociale e culturale estremamente radicato, specialmente nella cultura italiana.
Uno degli elementi meno considerati in merito, ad esempio, è la continuità dell’influenza invalidante che ne deriva. Questo perchè non si può “lasciare” un genitore e andare a cercarsene uno nuovo, come si fa più spesso con gli amici o con un partner. Il senso di colpa e la disapprovazione che la società impone sulle spalle di chi vive problemi di questo tipo possono spesso essere una motivazione sufficiente ad una sofferenza silenziosa, taciuta e nascosta.

La società impone intorno a nucleo familiare una serie di “convenzioni” basate su assunzioni essenzialmente false: la neo-mamma che deve essere per forza eternamente felice e instancabile, e soprattutto volta al sacrificio della sua identità distinta dall'essere madre; i “genitori che sono sempre i genitori” quindi intoccabili e nel giusto per definizione etc. Ma ce ne sarebbero tante altre parte dell'esperienza comune che resta tuttavia come dissociata. 
La realtà degli eventi però ci mostra in modo irrefutabile che vivere in un ambiente con dinamiche disfunzionali, o di negazione/diniego, genera a lungo termine un logorio che determina una serie di problemi che richiedono un successivo inevitabile lavoro di emancipazione ed attenzione costante. Ciò che non si osserva, si ripete, con le conseguenze del caso.

Sacrificare continuamente il proprio benessere per il quieto vivere con un parente distruttivo, intrusivo o invalidante ad esempio, significa “fare la cosa giusta”? Ci sono molte opzioni tra il soffrire costantemente le problematiche che presenta un caregiver e il tagliarlo completamente fuori.
Tagliare fuori un caregiver estremamente dannoso, tuttavia, nei casi in cui questo è strettamente necessario, ovvero in tutti quei casi in cui il soggetto diventa vittima di soprusi, violenze, sviluppa sintomi fisici o psicopatologici, problemi comportamentali etc., non è una tragedia, ma un effettivo diritto e una necessità. In questi casi diventa più evidente come il dogma sociale condiviso si attiene, in realtà, alla maggioranza di persone che fortunatamente non ha una misura di cosa implichi un contesto simile. Oppure a chi ha dolorosamente internalizzato un sistema di diniego tale che si è conformato al proprio ambiente, pagandone tuttavia un caro prezzo consapevolmente o meno.

Quali sono i segni più insidiosi, nascosti e comuni di una relazione "originaria" o "ripetuta" dannosa?
Innanzitutto, una mancata capacità di rispettare gli spazi e i bisogni dell'altro, figlio, partner, amico etc. Tali meccanismi originano spesso dal comportamento di un genitore che vive l'identità separata del figlio come un rifiuto verso di lui (vedi invertimento dei ruoli genitore-figlio, invischiamento e responsabilità per la felicità dell'altro vissuto come incompleto, o parte mancante di sè).
In secondo luogo, l'evitamento dei momenti affettivi autentici, anche quelli negativi
. Un evitamento del riconoscimento della parte emotiva dell'esperienza, nella sua totalità. Sviluppare un adeguato livello di accettazione e compassione, verso se stessi e verso gli altri, può essere molto complicato quando chi avrebbe dovuto prendersi cura di noi ha ignorato i nostri bisogni più profondi e basilari, ponendoci di fronte ai propri. La sensazione può essere quella di essere invisibili (inesistenti, non importanti), o come se i propri sentimenti o bisogni emotivi costituiscano un fastidio, pertanto debbano essere nascosti (in questi contesti viene promosso un alto tasso di vergogna - mancata accettazione, o senso di indegnità che si trasmetterà non solo nelle relazioni "ripetute" ma anche spesso a livello trans-generazionale nella successiva prole).

Un pensiero molto comune può essere: “In fin dei conti ho avuto un tetto sopra la testa e del cibo. Non dovrei lamentarmi”. La sofferenza che si sperimenta in questo genere di trascuratezza emotiva tuttavia è reale, nonostante il fatto che per altri possa essere andata peggio.
Gli abusi fisici reiterati causano un danno più evidente, ma l’abuso e l’abbandono emotivo (anche solo minacciato) può creare profonde cicatrici.
L’entità del trauma sperimentato non dovrebbe essere misurata su una scala che prevede una legittimazione soltanto sulla base della gravità evidente e marcata (esteriore o tangibile) del danno. Un danno emotivo può essere invisibile e tuttavia continuare ad essere invalidante per il resto della vita.

In essenza vivere la propria vita occupando un posto nel mondo significa affrancarsi dalla storia, osservandola come distinta da un destino disegnato. Ovverosia apprendere una nuova libertà emotiva e relazionale dalle ripetizioni del passato, acquisendo consapevolezza e padronanza sulla propria storia e le proprie modalità, e mettendo in atto le nuove capacità apprese in contesti più accoglienti.

domenica 8 dicembre 2013

Dio è morto - Nietzsche



L’uomo folle


Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: "Cerco Dio! Cerco Dio!". E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. "È forse perduto?" disse uno. "Si è perduto come un bambino?" fece un altro. "Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?" gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: "Dove se n'è andato Dio?" gridò "ve lo voglio dire! L'abbiamo ucciso – voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci dette la spugna per cancellare l'intero orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all'indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giuochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un'azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!".
A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch'essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. "Vengo troppo presto" proseguì "non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest'azione è ancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni – eppure son loro che l'hanno compiuta!"– .
Si racconta ancora che l'uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: "Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?".


Sole d'autunno e alberi (Egon Schiele, 1912)


Dei predicatori della morte.

Ci sono predicatori della morte: e la terra è piena di uomini cui non si può predicare il distacco dalla vita. Piena è la terra di superflui, corrotta è la vita dei troppi. Si potesse attrarli fuori da questa vita allettandoli con la “vita eterna”! “Gialli”: così si chiamano i predicatori della morte, o “neri”. Ma voglio mostrarveli anche in altri colori. Ci sono dei terribili, che portano dentro l’animale da preda e non hanno altra scelta che tra i piaceri e l’autodilaniarsi. Ma anche i loro piaceri sono un autodilaniarsi. Non sono neppure diventati uomini questi terribili: possano predicare il distacco dalla vita e loro stessi allontanarsi in quella direzione! Ci sono i tisici dell’anima: sono appena nati e già cominciano a morire e sono alla ricerca di dottrine della stanchezza e della rinuncia. Vorrebbero essere morti, e noi dovremmo approvare questa loro volontà! Guardiamoci dal destare questi morti e dal ferire queste bare viventi! Incontrano un malato o un vecchio o un cadavere e subito dicono: “La vita è confutata!”. Ma loro soli sono confutati e il loro occhio che scorge quel solo aspetto dell’esistenza. Avvolti in fitta melanconia e avidi di piccoli casi fortuiti che portino la morte: così essi attendono stringendo i denti. Oppure: prendono dolciumi e deridono la propria puerilità: sono aggrappati alla loro festuca di vita e ridono di essere ancora aggrappati a una festuca. La loro sapienza risuona: “Stolto è chi rimane in vita, ma tanto stolti siamo anche noi! E questo è appunto ciò che ha di più stolto la vita!” – “La vita è solo sofferenza” – così dicono altri e non mentono: ma allora fate in modo di cessare voi di esistere. Allora fate in modo che cessi la vita che è solo dolore!
E così suona la dottrina della vostra virtù: “Devi uccidere te stesso! Devi sottrarti a te stesso!” “Voluttà è peccato”, dicono gli uni che predicano la morte “tiriamoci in disparte e non generiamo figli!”
“Generare è fatica”, dicono gli altri “perché partorire ancora? Non si partoriscono che infelici!” E anche loro sono predicatori della morte. “La comprensione è necessaria” dicono i terzi. “Prendete quel che ho! Prendete quel che sono! Tanto meno mi legherà a sé per la vita!” Se fossero compassionevoli fino in fondo, rovinerebbero la vita al loro prossimo. Essere cattivi – sarebbe la loro vera bontà. Ma essi vogliono disfarsi della vita: che cosa gli importa se con le loro catene e i loro regali legano altri più saldamente alla vita? – E anche voi, cui la vita è selvaggio lavoro e inquietudine: non siete molto stanchi della vita? Non siete molto maturi per la predica della morte?
Voi tutti, cui è caro il selvaggio lavoro e ciò che è rapido, nuovo, estraneo, – voi che sopportate male voi stessi, la vostra diligenza è maledizione e volontà di dimenticare voi stessi.
Se voi credeste di più alla vita, vi dareste meno in preda all’attimo. Ma per attendere non avete in voi stessi sufficiente contenuto: nemmeno per essere pigri! Al di sopra di tutto risuona la voce di quelli che predicano la morte: e la terra è piena di quelli cui non si può non predicare la morte. O “la vita eterna”: per me è lo stesso, – purché essi ci vadano al più presto!
Così parlò Zarathustra.






Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno. Adelphi

martedì 2 luglio 2013

Un caso di disturbo ossessivo-compulsivo - di Bernard Brandchaft.


Il trasloco di A. per arredarsi una casa propria minacciava di renderlo capace di tirarsi fuori dallo squallore al quale l'impegno con suo padre lo aveva condannato. 
Il "contratto", sul quale suo padre aveva contato, stava ora per essere rotto. Un nuovo legame con l'analista stava minacciando di spodestare il vecchio, e stava rendendo A. capace di ristabilirne di precedenti e sperare di liberarsi dalle opprimenti influenze che bloccavano il suo cammino.
Il processo di recupero della sua vita come cosa propria stava al tempo stesso attivando il pensiero arcaico inconscio secondo cui stava eliminando l'unica ragione di vita di suo padre.
Un violento sommovimento nelle profondità del mondo interiore di A. segnalò l'imminente rottura di un legame di attaccamento arcaico al quale A. era arrivato a sentire dipendere la propria sopravvivenza psicologica. 
I sintomi di estraneazione e l'avvicinamento ad uno "stato vegetativo" erano reazioni di paura ad una minaccia mortale che questo fondamentale cambiamento inconsciamente gli stava procurando. 
Metter piede in un mondo strano e alienante fatto da lui stesso fu per A. un'esperienza molto simile ad un salto nel vuoto.

A. un giovane funzionario di un azienda in analisi per 3 o 4 mesi, aveva una storia passata di grave dipendenza da droga che era culminata qualche anno prima in un'ospedalizzazione seguita da un episodio paranoico indotto dalla droga. 
A. era un bambino abbandonato a se stesso, il minore di tre, cresciuto in un'area urbana degradata del Mid-West da una madre lavoratrice che stava fuori tutto il giorno, e da un padre che aveva un'umile occupazione in un grande magazzino. Le discussioni tra i genitori culminavano frequentemente in eruzioni di collera vulcaniche e di terrificante violenza fisica. L'infanzia di A. fu caratterizzata da un'opprimente solitudine e abbandono. Lasciato con un fratello più grande, si sviluppò un'intensa rivalità che inevitabilmente condusse a una selvaggia ripetizione dei rapporti sadomasochistici dei loro genitori. Nell'esperienza infantile di A. ci fu poco spazio per il conforto, poichè secondo il resoconto di A., la fragilità e la vulnerabilità di sua madre all'offesa profonda, la lasciavano apparentemente priva della capacità di confortare perfino se stessa. Suo fratello condivideva la stanza con la madre, mentre A. dormiva in una stanza con il padre e divenne "tutto suo padre".
Il padre trovò nella qualità atletiche del figlio la sua sola fonte di orgoglio "preso in prestito", mentre i due trovavano riparo l'uno nell'altro in questo ambito privo di gioia. 
Il conforto che A. derivava dall'orgoglio del padre comportava dei costi pesanti, comunque poichè egli si sentiva spinto ad alimentarlo continuamente, sorpassando se stesso, non per qualche proposito che gli appartenesse distintamente, poichè non aveva potuto svilupparne alcuno, ma per mantenere lo spirito di suo padre a galla. In un sogno ricorrente, A. si trovava in una palestra, in un'ampia piscina che occupava completamente la stanza. La piscina non aveva bordi, l'acqua era raccolta all'interno di pareti di mattonelle luccicanti che si estendevano fino all'alto soffitto. A. nuotava furiosamente, e capiva che doveva continuare a nuotare per mantenersi in vita.
Il modello della più tarda sintomatologia ossessivo-compulsiva venne posto in questa infanzia solitaria dalle preoccupazioni rituali di A. che batteva senza fine una palla contro un muro o che lanciava monetine contro una linea finchè non ne poteva più. Qui spinto dal suo bisogno di superare sempre se stesso, cominciò i rituali di conteggio e il dubbio spietato, e la masturbazione che sopportava finchè non ce la faceva più. 
Nella sua infanzia, i suoi movimenti erano circoscritti da un insieme di proibizioni geografiche e dalle sanzioni che compulsivamente si infliggeva qualora avesse violato qualcuna di queste regole. Il comportamento ritualizzato continuò a invadere la sua vita successiva, sempre per salvaguardarsi da qualche minaccia mortale alla sua esistenza. Una preoccupazione ossessiva, per ciò che aveva fatto o mancato di fare, innescava interminabili rituali di conteggio ed un rimuginare senza fine su soldi, peso, dati (che aveva e non aveva), e conduceva a stati di presentimento infausto sulla sua sopravvivenza. 
A. cercò presto conforto nella masturbazione dai terrori delle battaglie con suo fratello, dalla sua anticipazione delle sgridate di sua madre, o proprio dalla mancanza di senso dell'esistenza. Avendo scoperto che la fonte di un certo piacevole sollievo, era incapace di liberarsi da una terrificante convinzione dell'onniscente presenza di sua madre e dall'anticipazione delle sue critiche distruttive. Questo circuito interiore si stabilì come un carattere permanente della sua esperienza di sé, tormentata dalla paura, e il suo impatto veniva intensificato ogni qualvolta ella gli assicurasse causticamente in qualunque contesto, che lei sapeva "per cosa si era alzato", o riguardo a cosa egli "pensava di averla fatta franca". Il modello era strutturato in questo modo perchè il dubbio tormentoso  e l'autocondanna assalissero interi segmenti dell'esperienza interiore di A. Ogni sua personale attività piacevole presto cominciò a tormentarlo, per finire inevitabilmente in "un diluvio sempre crescente di indecisione, perdita di energia e limitazione della libertà" (Freud), ed infine in un'orgia di autopunzecchiamenti e auto-disprezzo. Dal momento che questo ciclo non imprigionò la sua sessualità, condusse ad un esaurimento privo di piacere, e pose le premesse per la successiva tossicodipendenza.
Man mano che l'analisi procedeva, A. cautamente descrisse uno schema di comportamento rituale. A tarda notte avrebbe trovato delle prostitute e si sarebbe abbandonato a messe in scena di sculacciamenti e percosse. Questi desideri si erano rivelati tanto irresistibili per lui, nonostante i pericoli a cui lo esponevano, quanto egli sentiva i suoi continui bisogni di masturbazione. Uno schema significativo emerse quando A. cercò di capire il suo comportamento. Aveva imparato che doveva tenere sua madre a distanza se voleva evitare la sua opprimente influenza. Il conforto transitorio che provava nell'evitare o nell'interrompere i contatti con lei, veniva continuamente eroso, e diventò chiaro che le messe in scena stavano diventando gli unici mezzi attraverso i quali poteva metter termine alla sua preoccupazione ruminativa che sempre sembrava seguire le loro conversazioni.
La "cura" che poteva ottenere quando era capace di districarsi, prestare attenzione a ciò che la connessione con lei gli stava facendo, e creare uno spazio per se stesso, conduceva sempre ad un riemergere del disagio nel quale la sua attenzione era completamente assorbita da una spaventevole preoccupazione per ciò che il suo ricorrere al suo proprio centro interiore le stava facendo. Secondo lui, le sgridate e le espressioni ferite di sua madre gli cadevano addosso come un rimprovero in codice, e il tentativo di A. di liberarsi da un legame nocivo era incessantemente seguito da immagini autolaceranti di se stesso come inescusabilmente crudele e ingrato.
Queste interazioni lo facevano sempre sentire desolato e malevolo. In una spirale in caduta sarebbe diventato ossessionato dai suoi desideri erotici e, spinto da ciò, avrebbe trovato una prostituta inesperta e l'avrebbe condotta nel suo appartamento. Una volta lì, egli l'avrebbe incoraggiata a confidarsi con lui come un padre affettuoso, l'avrebbe confortata e consolata. Questo comportamento era finalizzato a rispondere alla spinta anti-piacere che lo accompagnava, secondo cui egli era soltanto egoisticamente interessato al suo piacere e non si preoccupava di nient'altro. Svolti questi preliminari, A. avrebbe confessato di essere stato "cattivo", e che il processo punitivo sarebbe culminato nel rituale dello sculacciamento. 
Via via che la relazione di A. con sua madre venne ad occupare il centro dell'analisi, i suoi sogni rifletterono la permanente esperienza che aveva di lei, una donna i cui lamenti e imprecazioni cadevano su di lui come colpi di frusta. In un sogno, dava ordine ai suoi servi di batterlo. 
Nella sua infanzia, il fratello di A. aveva scoperto che si poteva ingraziare la loro madre che incitava A. a lamentarsi di lei in modo irriverente e poi a picchiarlo. La sera, il fratello avrebbe raccontato queste vicende. Se A. cercava di spiegarsi o di trovare comprensione, lei rispondeva causticamente, "Non ti lamentare con me, te lo sei voluto!". Il suo sogno aveva fatto seguito ad una lettera di rimprovero di lei alla quale si era rifiutato di rispondere.
Successivamente A. divenne - con terrore - consapevole di quanto rigorosamente avesse replicato il modello di precoce abbandono nella sua cura di se stesso. Il suo appartamento rimase tanto nudo e austero quanto la casa della sua infanzia. La sua decisione di arredare l'appartamento condusse ad una raffica di dubbi ossessivi, così mise la cosa nelle mani di un arredatore, ma si sentì spinto a metter fine alla consultazione quando fu sopraffatto dal panico mentre stavano discutendo insieme i progetti. Egli era solo, un periodo di nera disperazione e "la più assoluta solitudine" che avesse mai provato si abbatterono su di lui. Era tutto ciò che poteva fare per resistere ad un rinnovato bisogno di cocaina causato dalla sua paura. Cominciarono degli intervalli di sollievo ed osservò che potevano placare un pò i sentimenti di morte che aveva cominciato a sviluppare, ma per le successive ventiquattro ore non riuscì a trattenere alcun cibo o liquido, e questo aumentò la sua paura. Il giorno dopo era in pessime condizioni e disse che aveva fatto fatica a rispettare il suo appuntamento analitico. Parlò di onde di intollerabile "solitudine" e di aver dovuto combattere contro desideri strapotenti solo per "raggomitolarsi e giacere nel letto e vegetare". Sentiva di essere in pericolo di vita e stava prendendo in considerazione l'idea di farsi visitare in una istituzione psichiatrica. 
Venne fuori che A. aveva concluso che l'analista si sarebbe sbarazzato di lui perchè troppo disturbato per un'analisi, e lo avrebbe dirottato verso una cura istituzionale e verso la farmacologia, e questa anticipazione aveva contribuito al suo panico e disperazione. Quando queste paure vennero portate alla superficie e analizzate nelle sedute immediatamente successive, A. finì per sentirsi più sicuro nella sua considerazione che l'analista non sembrava ritenere il disturbo di A. fosse una ragione per sbarazzarsi di lui, ma piuttosto una per un più profondo esame analitico. 
Quando l'agitazione di A. si calmò, fu capace di riconoscere che l'impulso che aveva scatenato la violenta reazione era stato un crescente sentimento di eccitazione alla prospettiva di liberarsi di modi radicati di essere auto-punitivo. Consapevole della peculiarità della successione mentale all'interno della quale un'intenzione apparentemente innocua poteva affrettare una tale irresistibile caos, A. divenne più riflessivo, e ricordò un sogno "notevole" e spaventoso, avuto dopo essersi infine addormentato nella notte fatale.
"Ero in un campo vicino a una palestra. Guardavo verso l'alto e con mio spavento c'era l'aereoplano che stava rapidamente perdendo quota; fui preso da una sensazione di nausea (si stava ricordando dei conati che lo avevano colto il giorno prima) quando vidi l'aereo fuori controllo e ad un passo dallo schiantarsi a terra. Ci fu un sonoro boato quando precipitò e poi ogni cosa fu avvolta dalle fiamme. Mi sentivo malissimo e desideravo nascondermi".
Le associazioni di A. prima si diressero verso la sua incertezza su se c'era lui o suo padre all'interno dell'aereo, prima di convincersi che c'era suo padre, ora morto. Ricordò il disprezzo di sua madre per la mancanza di successo di suo padre. I copiosi elogi che suo padre gli rivolgeva erano spesso costellati di riflessioni depressive e di resoconti auto-denigratori della sua incapacità di avvantaggiarsi dalle occasioni che gli erano passate accanto. Ricordò che il senso di sè di suo padre sembrò sbriciolarsi quando si rese conto che ciò che A. poteva diventare era al tempo stesso una deprimente dimostrazione di ciò che egli, il padre, era stato incapace di essere, e poteva alla fine allontanare A. da lui. Egli ricordò il tentativo di combattere l'auto-denigrazione depressiva di suo padre con dichiarazioni per cui egli era, e sarebbe sempre stato, indispensabile per A., per cui A. non sarebbe stato capace di vivere senza suo padre. I ricordi tornarono ai sogni del loro glorioso futuro insieme, che avrebbe cambiato le loro vite dal disastro al dolce trionfo. Ed A. divenne progressivamente consapevole del suo pensiero per cui l'espansivo amore di suo padre era stato suo solo alla condizione che egli non avesse permesso a se stesso alcuna relazione la cui influenza su di lui avesse superato quella di suo padre, nè avesse preso fiducia nella capacità di trovare la propria strada senza la direzione di suo padre.
Il trasloco di A. per arredarsi una casa propria minacciava di renderlo capace di tirarsi fuori dallo squallore al quale l'impegno con suo padre lo aveva condannato. Il "contratto", sul quale suo padre aveva contato, stava ora per essere rotto. Un nuovo legame con l'analista stava minacciando di spodestare il vecchio, e stava rendendo A. capace di ristabilirne di precedenti e sperare di liberarsi dalle opprimenti influenze che bloccavano il suo cammino. Il processo di recupero della sua vita come cosa propria stava al tempo stesso attivando il pensiero arcaico inconscio secondo cui stava eliminando l'unica ragione di vita di suo padre. Un violento sommovimento nelle profondità del mondo interiore di A. segnalò l'imminente rottura di un legame di attaccamento arcaico al quale A. era arrivato a sentire dipendere la propria sopravvivenza psicologica. I sintomi di estraneazione e l'avvicinamento ad uno "stato vegetativo" erano reazioni di paura ad una minaccia mortale che questo fondamentale cambiamento inconsciamente gli stava procurando.
Metter piede in un mondo strano e alienante fatto da lui stesso fu per A. un'esperienza molto simile ad un salto nel vuoto.

R. Stolorow, B. Brandchaft, G. Atwood, (1999) Psicopatologia intersoggettiva. Quattroventi

giovedì 13 giugno 2013

Famiglie e terapia della famiglia. La terapia strutturale di Salvador Minuchin (1974)

Nel 1914 Ortega y Gasset scriveva "Io sono me stesso più le mie circostanze, e se non le salvo, non posso salvare me stesso" (Minuchin, 1974, p. 13). Per dare un'immagine a questa affermazione Ortega y Gasset si avvalse di una storia: il comandante Peary raccontava che nel suo viaggio verso il polo, si diresse tutta la notte verso nord, facendo correre vivacemente i suoi cani da slitta. La sera controllò le sue bussole e si accorse che era molto più a sud del mattino precedente. Tutta la giornata aveva viaggiato faticosamente verso il nord camminando sulla superficie di un enorme iceberg trascinato a sud dalla corrente oceanica.
Secondo Minuchin, l'esperienza umana è determinata dall'interazione con l'ambiente; l'uomo non è se stesso senza i fatti che condizionano il suo destino.
Il caso di Alice nel paese delle meraviglie
Nel famoso film della Disney, Alice cresce a dismisura fino a occupare, con il suo corpo, tutta la casa. Minuchin paragona la terapia intrapsichica al cambiare Alice, e la terapia strutturale al cambiare Alice all'interno della sua stanza.
"Alice" è una paziente con disturbi del pensiero paranoidi, vissuta per venticinque anni nello stesso appartamento. 
Un giorno la donna tornò a casa e trovò l'appartamento svaligiato. Decise quindi di trasferirsi e chiamò una compagnia di traslochi. Di lì in poi iniziò il suo incubo: le persone che l'aiutavano con il trasloco spostavano ciò che le apparteneva mettendo gli oggetti nei posti sbagliati, perdevano gli oggetti preziosi e cercavano di controllare dove andava, scambiandosi segni di nascosto. 
La donna ricevette dallo psichiatra dei tranquillanti, ma la sua esperienza non cambiò. Fu visitata allora da un altro psichiatra che lasciò di proposito davanti a lei delle bottiglie. La donna pensò subito che fossero pericolose, e il medico raccomandò il ricovero. Ma la donna rifiutò.
Un altro terapeuta i cui interventi erano basati sulla comprensione dell'ambiente dei vecchi e delle persone sole le spiegò che aveva perduto il suo guscio: la casa precedente della quale conosceva ogni oggetto, il circondario e i vicini. A questo punto come ogni crostaceo che perde il suo guscio era vulnerabile. La realtà aveva un diverso effetto su di lei. Il terapeuta la rassicurò dicendo che i problemi sarebbero scomparsi quando le fosse cresciuto un nuovo guscio.
Quanto tempo ci sarebbe voluto?
Doveva togliere dall'imballaggio tutto ciò che le apparteneva, appendere i quadri che avevano abbellito il suo precedente appartamento, mettere i libri negli scaffali, sistemare il suo appartamento affinchè diventasse familiare. 
Tutti i suoi movimenti dovevano essere fatti sistematicamente. Doveva alzarsi a una certa ora, far compere a un tempo prestabilito, andare negli stessi negozi, pagare alla stessa cassa, etc. Non doveva provare a fare nuove amicizie nel quartiere per due settimane. Doveva andare nella zona dove aveva abitato e far visita ai vecchi amici, ma per non gravare sugli amici e sulla famiglia non avrebbe dovuto descrivere nessuna delle sue esperienze. Se qualcuno le avesse chiesto che problemi aveva, doveva rispondere che si trattava unicamente di sciocchi problemi da vecchi paurosi. 
Questo intervento aiutava la paziente a stabilire una routine per accrescere il senso di familiarità con il nuovo territorio. Doveva esplorare ed esaminare la nuova strana zona in cui viveva, allo stesso modo degli animali. La paurosa esperienza di non familiarità con l'ambiente era stata interpretata, da questa donna sola come una cospirazione alle sue spalle. 
Nella misura in cui aveva cercato di comunicare le sue esperienze, la risposta dell'ambiente era stata quella di amplificare la sua percezione di essere anormale e psicopatica. Amici e parenti si erano spaventati e l'avevano spaventata con cospirazioni di segretezza. Due psichiatri le avevano diagnosticato una psicosi con allucinazioni paranoiche e avevano proposto il suo internamento. Una comunità paranoica si era sviluppata intorno a lei.
Un terapeuta comportamentale aveva interpretato il suo trasferimento come una crisi ambientale. 
Seguendo la metafora di Alice nella stanza, aveva percepito che la donna stava cambiando più lentamente del mondo che la circondava. Il suo intervento implicava un cambiamento della donna all'interno del suo mondo dandole un controllo sull'ambiente finchè non le fosse divenuto familiare. Il terapeuta aveva così protetto la donna prendendo in mano la situazione e guidandola "mentre le cresceva il nuovo guscio". Al contempo aveva bloccato i processi di risposta che amplificavano la patologia della paziente. Man mano che il suo intervento cambiava l'esperienza che la donna aveva del proprio ambiente, i sintomi sparivano. 
Ella continuò a vivere nel nuovo appartamento, con l'indipendenza desiderata. Il cambiamento non era avvenuto all'interno o all'esterno della paziente, ma nel modo di porsi in relazione con l'ambiente.
L'intervento strutturale opera sul processo di risposta tra l'ambiente e la persona che lo sperimenta, sui cambiamenti imposti da una persona sull'ambiente e sul modo in cui la risposta a questi cambiamenti influenza ogni suo conseguente movimento. Uno spostamento di posizione di una persona messa di fronte al suo ambiente costituisce anche una svolta nell'ambito della sua esperienza. Cambiando il rapporto tra una persona e il contesto in cui funziona, si cambia la sua esperienza di soggetto.

Bibliografia
Minuchin, S. (1974), Famiglie e terapia della famiglia. Casa Editrice Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma.

martedì 11 giugno 2013

La ricerca del Sé. Introspezione, empatia e psicoanalisi:rapporto tra modalità di osservazione e teoria (Kohut, H., 1959)

(articolo redatto da: Alessia D'Alterio; Antonietta Madia)


Alcuni concetti chiave:
Psicologia del Sé: sottolinea che sono le relazioni esterne, le relazioni con gli altri avente origine nelle cure genitoriali a fare in modo che l’individuo acquisisca e mantenga una adeguata autostima e coesione del Sé, garantendo la sua sopravvivenza emotiva nel corso della intera vita. L’investimento libidico del Sé è il fondamento della salute psichica; è al centro dell’apparato psichico primitivo e la sua coesione risulta fondamentale per lo sviluppo successivo dell’Io. Il Sé è anche il centro della personalità e consente all’individuo di viversi come un polo autonomo. Il Sé è alimentato dalla relazione con gli altri, dalla relazione materna. Pertanto una inadeguata relazione madre-bambino conduce il Sé a ripiegarsi su se stesso e a fissarsi su una posizione narcisistica; in tal modo l’esperienza del Sé si disintegra ed origina un Sé “grandioso”. C’è un fisiologico sviluppo narcisistico della personalità a partire da una grandiosità arcaica che sfocia in un narcisismo sano e costruttivo, base dell’autostima. Qualità del narcisismo evoluto sono la creatività, la produttività, l’umorismo e la saggezza.

Metodo Introspettivo: “Assumere utilmente un vertice di osservazione di tipo empatico significa tentare di cogliere, nel modo più coerente possibile, l’esperienza soggettiva del paziente, inclusi i sentimenti che egli prova nei confronti dell’analista, dalla prospettiva propria del paziente stesso. Una delle conseguenze più importanti di questo cambiamento del metodo di osservazione è il fatto che il focus analitico principale non è più costituito dalla sottolineatura della discrepanza tra l’esperienza interna del paziente e la realtà, ma dalla necessità di catturare (cioè di comprendere e spiegare) la logica arcaica dell’esperienza interna, senza giudicarla dalla prospettiva di realtà propria dell’analista” (Ornstein, 1998, p. 135).

Nell'introduzione al volume La ricerca del Sé Franco Paparo mette in evidenza sostanzialmente due aspetti: il primo aspetto riguarda la descrizione del suo incontro e confronto, nel 1971, come psichiatra e psicoanalista impegnato nella pratica con pazienti gravi - sia essi psicotici, sia affetti da organizzazione a limite - con il contributo teorico di Kohut. Paparo spiega quindi che la teoria di Kohut riguarda nello specifico la formulazione della patologia del Sé; i costrutti riguardanti l'empatia (1959); le forme e le trasformazioni del Narcisismo (1966); la rabbia narcisistica (1972). La portata innovativa dei contributi teorici sollecitarono Paparo a promuovere una raccolta dei saggi da tradurre in italiano; quindi a conoscere ed avviare la collaborazione con Kohut. Da questo lavoro emergeranno contenuti volti a bonificare il concetto di Narcisismo. Tali contenuti, se inizialmente venivano riferiti sottovoce, troveranno nel 1977 una piena affermazione. Per definire cos’è che porta alla cura della patologia del Sé, si rende necessario riesaminare criticamente un ampio spettro di contenuti teorici già stabiliti in precedenza dalla psicoanalisi (Kohut, 1977). Kohut evidenzia subito il carattere introspettivo-empatico dell'esperienza del Sé iscrivendolo nel registro della psicologia del profondo e differenziandolo sia dalle strutture dell'Io, Es e Super-io - con diversa elaborazione concettuale -, sia dai concetti di Personalità e Identità che come dice Kohut (1971) non originano dal registro Psicoanalitico; accanto ad una psicologia del Sé in senso stretto, nel quale il Sé rappresenta un semplice contenuto della mente, va considerata una psicologia del Sé in senso lato, nel quale il Sé costituisce un centro indipendente d'iniziativa.
Il secondo aspetto che viene preso in esame, riguarda la presentazione dei sei capitoli del libro La ricerca del Sé. In questo lavoro, tratteremo il primo capitolo: “Introspezione, empatia e psicoanalisi”. Questo punto di partenza nel pensiero di Kohut, sancisce una prima nozione fondamentale: l’indagine sul mondo esterno attraverso i nostri organi di senso corrisponde all’indagine nel mondo interno attraverso l’introspezione e l’empatia, definita anche introspezione vicariante.


Introspezione, empatia e psicoanalisi

Kohut implementa una definizione circa i fenomeni fisici e psicologici: quando operiamo un’osservazione attraverso gli organi di senso, abbiamo semplicemente un fenomeno fisico. Quando l'osservazione è condotta attraverso l’empatia e l’introspezione abbiamo un fenomeno psicologico. Questa affermazione va intesa in senso ampio: così come vi sono pianeti invisibili a influenzare pianeti direttamente osservabili, così nella Psicoanalisi, le strutture psicologiche dell'inconscio e del preconscio possono essere considerate in un quadro di esperienze di introspezione, vissute o potenziali. Ora la domanda è la seguente: l’introspezione e l’empatia fanno sempre parte di ogni osservazione psicologica? A tale riguardo Kohut porta un esempio: la visione di una persona eccezionalmente alta. Osservare l’attributo fisico dell’altezza da un punto di vista privo di empatia ed introspezione, significa osservare un attributo squisitamente fisico! Ma se proviamo a metterci al posto della persona alta - cioè rivisitiamo nostre esperienze interne nelle quali ci siamo fatti notare per qualche attributo - accadono in noi due cose: una è quella di riconoscere il significato che può avere quella statura, e l'altra è quella di aver osservato un fatto psicologico. Conseguenza di quest'ultimo punto, è che quando osserviamo solo gli aspetti fisici in assenza di empatia ed introspezione non osserviamo il fatto psicologico di un’azione, ma solamente il fatto fisico dei movimenti. Ma cos’è un atto psicologico? La domanda è necessaria perché uno schema di movimenti con un suo fine preciso non basta a definire un atto psicologico.
Possiamo osservare un fenomeno “somatico”, “comportamentale” o “sociale” quando il nostro metodo di osservazione non include in modo prevalente introspezione ed empatia. Quindi possiamo definire i fenomeni come Mentali, Psichici o Psicologici, se la nostra modalità di osservazione include introspezione ed empatia come costituenti essenziali. Il termine essenziale sta a significare che introspezione ed empatia non possono mai mancare ma al contempo possono essere mescolate con altri metodi di osservazione; anche se poi il risultato finale è quello di un atto introspettivo o empatico. L'uso dell'empatia entra nella nostra vita di tutti i giorni e la nostra sensibilità psicologica è facilitata quando osserviamo persone con cui abbiamo qualche radice culturale comune; ma anche quando incontriamo persone che ci sembrano lontane da noi, confidiamo di capirle da un punto di vista Psicologico, attraverso la scoperta di una esperienza comune con la quale empatizzare! I pionieri dell’introspezione e dell’empatia per eccellenza sono stati già Freud e Breuer; tuttavia, altri aspetti dell’inconscio, dei fenomeni psicologici normali e patologici; le libere associazioni, l’analisi delle resistenze etc. hanno oscurato il fatto che il primo passo di questa scienza fosse l’introspezione e l’empatia. L’analisi delle libere associazioni e l’analisi delle resistenze sono da considerarsi strumenti ausiliari a servizio del metodo di osservazione introspettivo ed empatico. Ora la dimostrazione importante è quella di definire come questo metodo di osservazione determini il contenuto e i limiti del campo osservato; ma ancor di più la connessione fra introspezione e teoria psicoanalitica, e come il misconoscimento di quelle aeree ha portato ad omissioni ed errori.


Resistenze all’introspezione

La resistenza alla libera associazione è una funzione difensiva della mente, come una sorta di paura da parte del paziente di conoscere contenuti inconsci e i loro derivati. Ci sono altresì ragioni recondite che potrebbero essere ricondotte alla paura di rimanere “sguarniti e nudi” di fronte a tensioni emergenti. Di fatti, è come se fossimo più attrezzati ad un pensiero finalizzato ad un’azione.  L’introspezione si “oppone” a tale dinamica, in quanto la terapia analitica prepara “in toto” alla libertà di azione, e la libera associazione in se stessa prepara ad un rimaneggiamento strutturale attraverso una aumentata capacità a tollerare la tensione. Le apprensioni circa il dispendio di energie sia psichiche sia materiali nel senso di costi economici, sembrerebbero nascondere la paura dell’inattività di fronte al flusso di energia derivante dall’introspezione; come una sorta di evasione dalla realtà (questa può essere presente nelle forme patologiche). Tuttavia, il fatto che se ne possa fare un uso sbagliato, non ci deve distogliere dalla realtà che nei casi migliori essa è attiva, investigativa e intraprendente. Nella sua massima potenza, essa è animata ad ampliare ed approfondire il nostro campo di conoscenza.

Organizzazione mentale precoce
E’ fuori di dubbio che l’attendibilità dell’empatia diminuisca tanto più l’osservatore sia diverso dall’osservato, e in tal senso, gli stati mentali primitivi diventano una sfida alla capacità di empatizzare con una persona (o meglio con un assetto mentale passato). Nelle concettualizzazioni di Freud sulle “nevrosi attuali” l’introspezione non ha portato nessun risultato psicologico, se non angoscia e dolore. Tant’è vero che questi risultati portarono Freud a considerare tale tipo di nevrosi come il risultato di disturbi organici; da indagare pertanto con strumenti biochimici. Di fronte a stati psicopatologici gravi vennero messi in atto degli espedienti operativi. Invece di estendere una forma rudimentale di empatia agli stati primitivi, si confusero le osservazioni ottenute con il metodo introspettivo, con le teorie basate sul metodo dell’osservazione della psicologia sociale (relazione madre-bambino). Questo tipo di processi aldilà dell’empatia e dell’adattamento che ne deriva, sono simili al movimento dell’acqua del ruscello che incontra, i massi prima di confluire nel fiume. All’estremo opposto di questi processi, troviamo gli stati psicologici più vicini alla nostra empatia, al nostro processo logico e alla facoltà di scelta e di decisione.

Conflitto endopsichico e conflitto interpersonale
Kohut mette in evidenza una differenza tra diversi tipi di conflitti, in relazione alla gravità della psicopatologia: essi riguardano le strutture Es, Io e Super-Io per i pazienti nevrotici, mentre l’ambito interpersonale per pazienti più gravi (psicotici o disturbi al limite). I conflitti interpersonali sono relativi alle relazioni arcaiche (il Sé non adeguatamente formato nella relazione oggettuale risulta carente e bisognoso di appoggio per formare la propria identità e il carattere). 
Kohut, che nel 1959 non ha ancora formulato una teoria sistematica per i disturbi narcisistici, parte da una critica opposta alla psicoanalisi: esaminando la convinzione che la psicoanalisi non sia “sufficientemente interpersonale”, rivolge la sua attenzione ai termini “relazione interpersonale”, “interazione”, “transazione”, di solito prese in esame dagli psicologi sociali. In realtà agli occhi del lettore moderno appare già evidente che ciò che l’autore sta proponendo per semplice giustapposizione, è in realtà un radicale cambio di paradigma (Strozier, 2001). Kohut tuttavia cita il modello strutturale di Freud del 1922, facendo riferimento all’autonomia dell’Io (Hartmann, 1939), come modello della mente. Che significato psicoanalitico ha il termine “interpersonale”?  
Conflitto strutturale, nevrosi di traslazione, traslazione.  
Lo stesso Freud si occupò di investigare le psiconevrosi usando l’introspezione e l’empatia. Tuttavia il risultato di questa ricerca si focalizzò principalmente sulla scoperta dell’inconscio e del fenomeno della traslazione. Freud (1899) definì la traslazione come influenza dell’inconscio sul preconscio, al di là della barriera della rimozione. Manifestazioni principali della traslazione sono sogni, sintomi, aspetti del modo in cui l’analizzando percepisce l’analista. La Traslazione indica come l’inconscio influisce sulla parte più accessibile all’introspezione della psiche (vedi cap. 2 Concetti e teorie della psicoanalisi § “il concetto di traslazione”, p. 57). Mediante l’uso dell'introspezione emerse ciò che Freud chiamò conflitto strutturale (endopsichico). Esso riguarda la lotta tra le pulsioni infantili e le forze interne che vi si oppongono. In questa circostanza l’analista come figura di traslazione, non è sperimentato nell’ottica di un rapporto interpersonale, bensì come portatore di strutture endopsichiche inconsce (ricordi inconsci) dell’analizzando (nevrosi di traslazione). (Es.: un paziente racconta di non aver pagato il biglietto dell’autobus per arrivare in seduta. Egli nota che il volto dell’analista è serio mentre lo saluta. In questo caso l’analista come figura di traslazione è un’espressione del Super-io[1] inconscio dell’analizzando). 
Conflitto interpersonale, psicosi e disturbi al limite, metodo introspettivo. 
La psicoanalisi ha ampliato il proprio campo di indagine fino ad includere la psicosi. Le due prime e più importanti scoperte nel campo della psicosi furono quelle di Freud nel 1914(b) - parla di ipocondria psicotica mediante il riconoscimento empatico o introspettivo - e Tausk che nel 1919 parla del delirio schizofrenico di essere influenzato da una macchina (delirio di riferimento); esso riguarda la riesumazione di una parte primitiva del Sé, ovvero una regressione a esperienze somatiche penose ed angosciose dopo la perdita di contatto con l’esperienza del “Tu”.
I disturbi narcisistici[2] e gli stati limite a differenza delle nevrosi, rivelano mediante l'introspezione prolungata, una psiche non strutturata ovvero una psiche il cui principale sforzo è quello di mantenere un contatto con l’oggetto arcaico, o una tenue separazione da esso (conflitto interpersonale). L’analista in questo caso non funge da schermo per la proiezione della struttura interna dell’analizzando come per le nevrosi, bensì diventa una “continuazione diretta di una realtà primitiva che era troppo distante, troppo rifiutante o troppo instabile per essere trasformata in una solida struttura psicologica” (p. 17). L'analista è sperimentato introspettivamente nel quadro di una relazione interpersonale arcaia: egli è il vecchio oggetto con il quale l'analizzando cerca di mantenere un contatto, separare la propria identità o trarre un minimo di struttura interna. 
In tal senso il fulcro del conflitto è la relazione, nello specifico la relazione arcaica con i genitori, che non ha permesso un corretto sviluppo delle strutture psichiche e del Sé. Es.: un paziente schizofrenico arriva in seduta in uno stato di freddezza e riserbo. La notte precedente ha sognato un campo innevato e sterile, in cui una donna gli offre il seno, ma lui scopre che il seno era di gomma. La freddezza del paziente e il suo sogno si scoprono essere la reazione ad un rifiuto minimo ma significativo dell’analista (conflitto interpersonale). Traslazione e controtraslazione, afferma inoltre Kohut, denotano nient’altro che relazioni interpersonali nel senso della psicologia sociale. 
I due approcci teorici (strutture/nevrosi e relazione/disturbi narcisistici) possono essere combinati mediante il ricorso al concetto-ponte di osservatore partecipante. Il concetto di osservatore partecipante permette di far svanire la distinzione tra oggetto traslativo delle nevrosi strutturali e oggetto interpersonale arcaico dei disturbi narcisistici. Ma, senza questa differenziazione, afferma Kohut, la psicopatologia potrebbe contenere i più differenti fenomeni clinici come varietà o gradi della schizofrenia (Sullivan, 1940).  
Nelle psicosi e nei disturbi limite, i conflitti interpersonali arcaici occupano una posizione centrale; così come nelle nevrosi, è il conflitto strutturale ad avere importanza strategica. La stessa cosa si applica ai conflitti strutturali nelle psicosi. La scelta è determinata solo in parte dal passato. Mentre è vero che tutte le traslazioni sono ripetizioni, non tutte le ripetizioni sono traslazioni. 
Mediante l'introspezione scientifica prolungata possiamo differenziare: scelte oggettuali non traslative strutturate secondo modelli infantili (es. parte di quanto definito traslazione positiva); dalle vere traslazioni.Le vere traslazioni possono essere risolte da un'introspezione prolungata, le scelte oggettuali non traslative invece, sono al di fuori del conflitto strutturale e non possono essere influenzate dall'introspezione psicoanalitica. 
Kohut riprenderà questo argomento nell’ultimo paragrafo dello scritto, in cui farà più esplicito riferimento al problema del libero arbitrio e del determinismo psichico nella psicoanalisi classica.

Dipendenza 
Una ulteriore importante differenza introdotta da Kohut riguarda la dicotomia biologia/relazione. Tale genere di differenza determina il metodo di osservazione: alcuni concetti teorici derivano dall’osservazione psicoanalitica, ovverosia dalla considerazione biologica della realtà da cui traiamo per astrazione un modello teorico (teoria dello sviluppo psicosessuale); mentre altri concetti derivano da un altro metodo di osservazione: l’introspezione vicariante (o empatia)
Kohut prende come esempio per spiegare questa differenza la sessualità infantile. 
Quindi domanda se ad es. la dipendenza orale (come astrazione teorica psicoanalitica) potrebbe essere connessa all’osservazione interpersonale della dipendenza prolungata, biologicamente inevitabile dell’infante. 
Secondo Kohut, la risposta è affermativa. Questa è un’ipotesi psicoanalitica? Si può dire di si, perché tale ipotesi non sarebbe neppure esistita, senza la premessa della dipendenza biologicamente determinata. Dunque tutto ciò che è psicoanalisi ha una radice nella biologia (come anche il modello pulsionale di Freud). 
Kohut prende quindi in esame il concetto di dipendenza, e ne analizza l’etimologia individuando tre aspetti; biologico, sociologico, psicologico.
Biologico come rapporto tra due organismi. Il neonato è dipendente dalle cure che riceve dall’adulto. Sociologico come rapporto tra due unità sociali. L’adulto, sviluppa solo certe qualità in quanto membro della società ed è quindi dipendente da essa per la sua sopravvivenza. 
Psicologico:diciamo che alcuni pazienti hanno problemi di dipendenza o che li sviluppano nel corso dell’analisi. Cosa intendiamo con dipendenza psicologica?
Dal punto di vista psicoanalitico, le personalità oralmente dipendenti desiderano perpetuare il rapporto con l’analista. Il termine dipendenza orale deriva dall’osservazione psicoanalitica del paziente e costituisce un’astrazione sul suo stato mentale. Ciò combacia con il concetto di regressione ovvero ritorno ad uno stato psicologico pregresso. Ma non si discute il fatto che il lattante è dipendente dalla madre, bensì se lo stato mentale del lattante corrisponde a quanto troviamo nell'analisi dei desideri rimossi di dipendenza di un analizzando adulto! Ovvero: lo stato mentale del lattante corrisponde allo stato mentale di un analizzando adulto con desideri rimossi di dipendenza? 
Secondo Kohut no, e per dimostrarlo fa l’esempio inverso: lo stato mentale ed emotivo dell’analizzando dipendente non è quello del lattante al seno, in quanto un corrispettivo adulto di tale stato riguarderebbe la situazione di una persona totalmente assorta in un’attività di massima importanza per lei (ad es. lo scatto finale di una corsa di 100 mt., il solista nel punto culminante della sua melodia, l’amante nell’acme dell’unione sessuale). 
Se ipotizziamo che la dipendenza dell’adulto è un ritorno ad una primitiva gestalt psicologica, non abbiamo capito la psicologia dei bambini sani. Dunque per Kohut è solo l’osservazione psicologica (empatia circa lo stato reale) che fornisce la prova finale per qualsiasi scoperta: il principio biologico (teorizzazione psicoanalitica) può solo fornire utili indizi. 
E’ quindi sbagliato estrapolare l’interpretazione di uno specifico stato mentale da principi biologici, specialmente se questi contraddicono le osservazioni psicologiche; ad esempio è inutile effettuare un’interpretazione circa la dipendenza orale del paziente senza capire come sta realmente!
La dipendenza descritta come: tendenza di alcuni pazienti adulti a essere timorosi, aggrapparsi ostinatamente, tenersi stretti, avere resistenze a lasciarsi andare, può quindi essere definita secondo Kohut in quattro modi:
Come regressione alla situazione infantile. In questo caso essa non costituisce una replica di una fase normale dello sviluppo psicologico ovvero la regressione allo stato mentale di un bambino normale di genitori normali, ma è ascrivibile alla patologia infantile; nello specifico a fasi successive dell'infanzia in cui il bambino ha avuto esperienze specifiche di rifiuto (intricati miscugli di rabbia, paura e ritorsione). 
Come reazione del paziente per proteggersi dall'angoscia e dal senso di colpa derivati da conflitti strutturali mediante l’attaccamento al terapeuta, portatore mediante proiezione di fantasie narcisistiche benigne e onnipotenti. Quindi: la dipendenza psicologica non riguarda esclusivamente l’oralità. In taluni casi, questo è vero, ma l’osservazione empatica libera da aspettative di ordine biologico, può essere aperta al riconoscimento che una grande varietà di pulsioni, in stato di inappagamento può creare una sottomissione (Hörigkeit) al terapeuta. E’ dunque l’attaccamento ostinato e non l’associazione ad una pulsione a caratterizzare lo stato mentale in questione. 
Come resistenza al cambiamento o adesività della libido. Ci si dovrebbe rivolgere a questa ipotesi solo dopo aver esaurito le precedenti possibilità o in caso di evidenza psicologica. Es.: uno dei trenta superstiti di un campo di concentramento che aveva visto la morte di centomila persone, non riesce a lasciare il campo prima del trascorrere di quattro lunghi giorni, sebbene le guardie naziste fossero fuggite in seguito all’avanzata russa.
Come bisogno, da parte del paziente, del terapeuta per ottenere consolazione e sostegno. Analizzandi con insufficiente struttura psicologica hanno bisogno del terapeuta in quanto hanno realmente necessità di essere consolati e sostenuti. La loro dipendenza non può essere analizzata o ulteriormente ridotta per la comprensione globale: deve essere riconosciuta e accettata. In realtà in questi casi, il compito psicoanalitico maggiore è l’analisi della negazione del bisogno reale: il paziente deve imparare a sostituire le fantasie grandiose mantenute grazie all’isolamento sociale, con l’accettazione per lui penosa, della realtà della sua dipendenza. Ad es.: alcuni tossicodipendenti non hanno acquisito la capacità consolarsi da soli o addormentarsi - non hanno trasformato le antiche esperienze di consolazione e addormentamento in strutture endopsichiche -, pertanto la droga non è il sostituto delle relazioni oggettuali, bensì è un sostituto della struttura psicologica. In psicoterapia questi pazienti presentano la stessa dipendenza che hanno per la droga, per lo psicoterapeuta o la psicoterapia. Tale dipendenza non va confusa con la traslazione: il terapeuta non è uno schermo per la proiezione di strutture psicologiche esistenti, ma un sostituto di esse  
Sessualità, aggressività, pulsioni
In questo caso Kohut prende direttamente in esame il problema della sessualità nella teoria psicoanalitica per darne una definizione. La teorizzazione sulla sessualità ha prodotto una grande quantità di dispute. Secondo Kohut la qualità sessuale di un’esperienza non può essere ben definita né dal contenuto, né dalla zona corporea (rifiuto del modello psicoanalitico classico di sviluppo psicosessuale).  
Una prova dell’effettiva esistenza di desideri sessuali può provenire soltanto da una loro scoperta introspettiva ed empatica. La qualità sessuale dell’esperienza non può essere ulteriormente definita.
Tuttavia gli analisti intendono con il termine sessuale qualcosa di più ampio della sessualità genitale. La sessualità è il residuo di un’esperienza che era nell’infanzia più diffusa (sensualità). Freud (1921a) ha scelto il termine sessuale “a potiori” ovvero dalle più note di questo tipo di esperienze, ha insistito sull’aspetto biologico del termine sessuale per poterne salvaguardare l’aspetto psicologico: usando i termini forza vitale ed energia mentale si creano quindi dei malintesi nel riconoscimento della modalità primaria dell’esperienza, che è stata rifiutata (come per il polo ostilità-aggressività). 
Ciò che noi oggi chiamiamo pulsione, non denota un’energia che funge da motore, ma un’esperienza soggettiva interna con carattere di urgenza, che appare più chiara se messa in relazione alla corrispettiva esperienza interna in termini di investigazione introspettiva. L’esperienza può avere qualità pulsionale (volere, desiderare, tendere) ed è un’astrazione tra innumerevoli esperienze interne; connota una determinata qualità psicologica che non può essere ulteriormente analizzata mediante l’introspezione. 
Pulsione di vita e pulsione di morte pertanto, sono astrazioni teoriche, mentre la psicoanalisi deve concentrarsi sul vissuto reale, e non sulla teoria! Eros e Thanatos non appartengono a una teoria psicologica basata su osservazione introspettiva ed empatica, ma a una teoria biologica basata su un metodo di osservazione diverso. 
Narcisismo e Masochismo primario invece, costituiscono secondo Freud un ritorno a primitive forme di esperienze sessuali e aggressive alle quali corrispondono le forme più recenti (Narcisismo clinico e Masochismo clinico) reattive rispetto alla tensione proveniente dall’ambiente; ciò è coerente ed accettabile per Kohut, in quanto tale concetti trovano espressione nella comprensione psicologica. 
Kohut cita quindi Hartmann, Kris e Loewenstein, (1949) i quali suggeriscono che il biologo trova indizi utili nella psicologia; tuttavia le sue teorie si basano su osservazioni e prove biologiche, e afferma che d’altra parte l’applicazione dell’introspezione a ogni cosa animata non è scientificamente valida (vedi Ferenczi, 1924[3]). 
Kohut ammira l’audacia delle teorie biologiche freudiane, ma i concetti di Eros e Thanatos restano fuori dal quadro della psicologia psicoanalitica. Tuttavia, afferma anche Kohut, Freud rigettava le teorie biologiche se non poteva confermarle mediante l’osservazione psicoanalitica introspettiva. Un esempio lampante di questa posizione è ad es. la concezione freudiana della sessualità femminile (intesa come ritiro da una maschilità delusa) che ha scatenato la questione dell’antifemminismo di Freud. E’ evidente a livello biologico la donna possiede una femminilità primaria[4] e che tale femminilità non si esaurisce nel confronto con la sessualità maschile; tuttavia Freud non cambiò idea sulle sue teorie, in quanto esse trovavano corrispondenza nell’osservazione psicoanalitica: non volle quindi accettare una congettura biologica come un fatto psicologico. La concezione freudiana della sessualità femminile è un esempio della sua adesione al metodo di osservazione introspettiva ed empatica; tuttavia taluni altri concetti rimasero privi di una specificazione basata sulla comprensione empatica. Per quanto riguarda questi ultimi concetti, “accettare il punto di vista dinamico e la concezione di pulsione non è più giustificabile dell’accettare il punto di vista strutturale a livello anatomico”.

Il libero arbitrio e i limiti dell’introspezione
La nostra facoltà di fare una scelta o prendere una decisione è compatibile con la legge del determinismo psichico[5]? (Knight, 1946; Lipton, 1955). Secondo la psicoanalisi non esiste una libera scelta: siamo tutti spinti da forze irrazionali (inconscio) che possiamo solo razionalizzare (tentare di capire); inoltre, tendiamo a ipervalutare narcisisticamente le nostre funzioni psichiche.
Freud sostituisce quanto in precedenza affermato circa l’esistenza di un’area di libertà psichica. Tale esitazione emerge nella nota a piè di pagina in L’Io e L’Es (1922, p. 512) in cui afferma che la psicoanalisi si propone “di creare per l’Io del malato la libertà di optare per una soluzione o per l’altra”. Inoltre, il concetto di Ichtriebe (pulsioni dell’Io), l’affermazione che l’Io si sviluppa dall’Es o che il principio di realtà non è che una modificazione del principio di piacere sono tutte tesi a dimostrazione dell’esitazione di Freud. Le successive teorizzazioni freudiane incorporeranno in maniera implicita il convincimento di una qualche libertà di scelta: l’enfasi sull’Io, i commenti sulla genesi indipendente dell’Io in Analisi terminabile e interminabile (Freud, 1937) sono precursori di quanto noi conosciamo come autonomia dell’Io (Hartmann, 1939). 
Kohut si domanda quindi se in base allo strumento di osservazione introspettivo è possibile operare una riformulazione della questione, per chiarire come avviene la libera scelta. Secondo Kohut l'esperienza di essere obbligati e l'esperienza di indecisione e dubbio possono essere dipanate dall'introspezione. Quando mediante l'introspezione ristabiliamo le motivazioni alla base delle nostre scelte, diventiamo nuovamente consapevoli e ripristiniamo la libera scelta e la capacità di decisione. Possiamo allora risolvere l'esperienza di coazione. Inoltre, l'introspezione non può ulteriormente indagare lo stato della libera scelta, in quanto essa non è scomponibile. 
Ogni scienza ha un numero ottimale di concetti basilari: i limiti della psicoanalisi sono dati dai limiti della possibilità di introspezione e di empatia. Nel campo osservato regna il determinismo psichico. L'introspezione sottoforma di libere associazioni e analisi delle resistenze è potenzialmente capace di rivelare motivazioni e desideri, decisioni, scelte, atti. Tuttavia è necessario riconoscere i limiti oltre i quali lo strumento di osservazione non arriva, e bisogna accettare il fatto che certe esperienze non possono essere allo stato attuale delle conoscenze, ulteriormente chiarite. Ciò che sperimentiamo come libera scelta è l'esperienza dell'Io che non può essere divisa in ulteriori componenti mediante il metodo introspettivo (vedi p. 17).


Bibliografia
Ferenczi, S., (1924), “Thalassa. Psicoanalisi delle nevrosi e delle psicosi”, Tr. it. in Fondamenti di psicoanalisi vol. I Guaraldi, Firenze, 1972.
Freud, S., (1899), L’interpretazione dei sogni. In Opere. Vol. III, Bollati Boringhieri, Torino
Freud, S., (1914b), Introduzione al narcisismo. In Opere. Vol. VII, Bollati Boringhieri, Torino
Freud, S., (1915-17), Introduzione alla psicoanalisi. In Opere, Vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino, 1976.
Freud, S., (1921a), Psicologia delle masse e analisi dell’Io. In Opere. Vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino
Freud, S., (1922), L’Io e l’Es. In Opere. Vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino
Freud, S., (1937), Analisi terminabile e interminabile, In Opere, Vol. XI Bollati Boringhieri, Torino
Hartmann, H., (1939), Psicologia dell’Io e il problema dell’adattamento. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1966.
Hartmann, H., Kris, E., Loewenstein, R. M., (1949), “Note sulla teoria dell’aggressività” in Scritti di psicologia psicoanalitica. Bollati Boringhieri, Torino, 1978.
Kohut, H., (1959-1981), Introspezione ed empatia. Raccolta di scritti. Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
Kohut, H., (1966), “Forme e trasformazioni del narcisismo”. Tr. it. in La ricerca del Sé. Bollati Boringhieri, Torino, 1982.
Kohut, H., (1971), Narcisismo e analisi del Sé. Bollati Boringhieri, Torino, 1976.
Kohut, H., (1972), “Pensieri sul narcisismo e sulla rabbia narcisistica”. Tr. it. in La ricerca del Sé. Bollati Boringhieri, Torino, 1982.
Kohut, H., (1977), La guarigione del Sé. Bollati Boringhieri, Torino, 1980.
Kohut, H., (1978), La ricerca del Sé. Bollati Boringhieri, Torino, 1982.
Kohut, H., (1984), La cura psicoanalitica. Bollati Boringhieri, Torino, 1986.
Lipton, S. D., (1955), A note on the Compatibility of Psychic Determinism and Freedom of Will. Int. J. Psycho-Analysis, vol. 36, 355-56.
Ornstein, P. H., (1998), “Psicoanalisi dei pazienti con un disturbo primario del Sé. Una prospettiva basata sulla psicologia del Sé”. In I disturbi del narcisismo. Diagnosi, clinica, ricerca. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001.
Strozier, C. B., (2001), Heinz Kohut. Biografia di uno psicoanalista. Astrolabio Ubaldini, 2005.
Sullivan, H. S., (1940), La moderna concezione della psichiatria. Feltrinelli, Milano, 1961.
Tausk, V., (1919), “Origine della “macchina influenzatrice” nella schizofrenia”. Tr. it. in W. Reich e altri, Letture di Psicoanalisi a cura di R. Fliess Boringhieri, Torino, 1972.


[1] Imago inconscia del padre. Nella nevrosi, a differenza dei disturbi più gravi ciò avviene in quanto il paziente ha già formato la struttura Superegoica sulla base delle relazioni reali vissute con i genitori.
[2] Kohut fa riferimento alle psicosi e agli stati limite, in quanto all’epoca dello scritto non si era ancora giunti alla classificazione concettuale e clinica dei disturbi narcisistici della personalità analizzabili (p. 16).
[3] Nello scritto Thalassa, Ferenczi affronta il tema dell’ontogenesi e filogenesi, collegando sessualità e psicologia.
[4] Freud osservava nelle sue pazienti una lotta incentrata su desideri fallici e mentre accettava la bisessualità biologica, rifiutava l’idea di una precedente fase psicologica di femminilità senza una conferma a livello psicologico.
[5] Ogni avvenimento psicologico è determinato dal fattore inconscio.

Post più popolare

DSM-5: cosa è cambiato nella diagnosi?

I sistemi diagnostici in psichiatria sono basati sull'osservazione della presenza o assenza e della frequenza d...

Post più letti