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martedì 31 dicembre 2019

Il caso Marilyn Monroe e la responsabilità terapeutica


Only parts of us will ever
touch only parts of others —
one’s own truth is just that really — one’s own truth.
We can only share the part that is understood by within another’s knowing acceptable to
the other — therefore so one
is for most part alone.
As it is meant to be in
evidently in nature — at best though perhaps it could make
our understanding seek
another’s loneliness out.

'Fragments: Poems, Intimate Notes, Letters' by Marilyn Monroe


Nel testo "Il caso Marilyn Monroe e altri disastri della psicoanalisi" (Mecacci, 2000) si prendono in esame alcuni aspetti critici della disciplina psicoanalitica dai suoi albori ai giorni nostri. Il caso di Marilyn Monroe viene osservato per primo. Nel testo si vuole evidenziare la natura di inadeguatezza delle cure ricevute dai vari analisti nella loro pratica. 
Una delle paure più grandi di cui soffriva l'attrice era quella dell’abbandono. Marilyn passò da una famiglia adottiva all'altra dopo essere stata lasciata in orfanotrofio dalla madre. Non avendo avuto nessuno accanto a cui poter fare riferimento sin da bambina, fu in analisi per molti anni e cercò nei matrimoni la stabilità che le era mancata all'origine. Si dice che portasse sempre con sé un'immagine Lincoln, non avendo nemmeno mai conosciuto l'identità del padre: "La maggior parte delle persone può ammirare suo padre, ma io non ne ho mai avuto uno. Ho bisogno di qualcuno da ammirare. Mio padre é Abraham Lincoln…Intendo dire che penso a Lincoln come a mio padre. Lui é saggio e gentile e buono. È il mio ideale, Lincoln. Lo amo". 
Marilyn fu una donna dalla straordinaria intelligenza e sensibilità. A dispetto del quadro scarsamente empatico di lei dipinto da Mecacci, (forse dovuto anche a fini di sensazionalismo, che contrariamente a quanto l'autore afferma di voler fare all'inizio del libro, non manca affatto) Marilyn ebbe un successo planetario e incancellabile proprio in virtù della sua natura indomabile, libera e provocatoria. 

Marilyn inziò l'analisi sotto suggerimento della sua insegnante di recitazione con Margaret Herz Hoenberg, poi Anna Freud, quindi Marianne Rie Kris, Ralph Greeson e infine Milton Wexler. Fu trattata con un lavoro analitico di stampo classico alternato al manicomio, dosi massicce di farmaci e la camicia di forza. Non ho dubbi che l'attrice abbia fallito il suo trattamento!

"Anna Freud sottopone Marilyn al gioco delle biglie di vetro... Marilyn sta davanti a lei e deve muovere, in base a come le sposterà, Anna darà la sua interpretazione. (Marilyn) sposta le biglie una dopo l'altra nella direzione di Anna che può quindi diagnosticare un 'desiderio di contatto sessuale'... Anna Freud sintetizza così la diagnosi: emotivamente instabile, fortemente impulsiva, bisognosa di continue approvazioni da parte del mondo esterno; non sopporta la solitudine, tende a deprimermi di fronte ai rifiuti; paranoide con tratti schizofrenici"

Immagino che alleanza terapeutica potesse esserci tra le due donne! Difatti Marilyn paga cospicuamente Anna Freud per congedarla; vuole cambiare analista. La nuova terapeuta Kris però non é in grado di fare di meglio e la rinchiude in manicomio. Greeson la imbottisce di farmaci e la introduce ai suoi familiari. Entrambi gli ultimi due terapeuti si alternano tra loro e vengono infine rimpiazzati a causa di spostamenti geografici  di lavoro (a volte della paziente, a volte il loro). Ecco uno stralcio della lettera di Marilyn dal suo ricovero:

"Descrivendo le violenze psichiche e fisiche che aveva subìto (Marilyn), notava come i medici fossero interessati ai pazienti solo in quanto i loro disturbi trovavano un riscontro a ciò che avevano letto sui libri, e non perché vedevano in loro degli esseri umani sofferenti". 

Mecacci sottolinea il coinvolgimento di Greenson nella vita quotidiana con Marilyn, l'alternarsi con la terapeuta newyorchese Kris, i legami che i vari terapeuti avevano tra di loro e con Marilyn. 
È fuori di dubbio che uno sconfinamento dalle norme del setting fosse chiaro. Ma cosa ha fatto realmente e definitivamente fallire il trattamento, quando Marilyn fu trovata morta il 4 Agosto 1962? Nel testo ci si perde in una ricostruzione complottistica su un probabile coinvolgimento di Greenson con, addirittura, gli interessi sovietici. 
Queste affermazioni sembrano più adatte a quelle di una rivista di gossip o di una biografia romanzata che a un testo divulgativo di discussione sulla psicoanalisi. D'altra parte il peggio che si possa fare con la psicoanalisi é il gossip e la caricatura, e Mecacci non fallisce in nessuna delle due imprese. 

Più probabilmente quello che é mancato a questi analisti é stata una capacità di spogliarsi delle vesti di dottori per diventare terapeuti, proprio come esprime Marilyn nella sua lettera. È nelle parole di Marilyn sul suo ricovero, e nel costante aumentare delle dosi degli psicofarmaci somministratole che si denota tutta l'impotenza e l'incapacità di comprensione dei suoi analisti nei suoi confronti mentre avanzano le loro interpretazioni da manuale. Ancora una volta si conferma come sia la verità del paziente la bussola più importante da seguire per orientarsi. 

Il perseguire una verità storica in un processo psicoanalitico é assimilabile al rincorrere un'utopia. La verità ha il volto di chi la racconta. Questo é ancora più vero  nel caso di un paziente. La sua verità é tutto ciò che conta, perché é il modo in cui la storia é stata vissuta e ha lasciato una traccia in lei/lui a diventare la materia del lavoro da gestire e che vale la pena di ascoltare profondamente e indipendentemente da altri fattori. Questo é particolarmente importante perché il paziente é il centro del lavoro e con cognizione dei limiti é necessario, mediante l'uso della consapevolezza, spogliare il campo di altre futili attribuzioni più spesso appartenenti all'analista e spesso sottovalutate, del modo in cui lei/lui sperimenta la storia e le conferme alle proprie idee teoriche e impostazioni personali di vita. In definitiva dunque la prova ineluttabile del successo di un trattamento non sta nelle valutazioni pedisseque dei test di personalità, ma molto più semplicemente e infallibilmente nelle affermazioni del paziente sul lavoro svolto.

A proposito della responsabilità terapeutica, tanto quanto é importante rimanere costantemente critici sul lavoro del terapeuta, é importante considerare quanto essa sia bilaterale. L'impegno profuso nel lavoro deve riguardare infatti anche il paziente, nello specifico quando é in grado di comprendere che l'inizio di un lavoro non implica una posizione passiva da parte sua e di risoluzione magica per il terapeuta, al contrario richiede l'attivazione di risorse proprie che saranno stimolate dal lavoro congiunto e una partecipazione attiva.

Fortunatamente oggi la psicoanalisi non segue più l'impostazione classica. Soprattutto si é aperta insieme alla psichiatria più illuminata, al dominio delle neuroscienze impegnate nel coinvolgimento della filosofia e della fenomenologia nell'osservazione dell'esperienza mettendo al centro anche la soggettività dell'analista che non è più lasciato "fuori dal campo di osservazione". Ciò non significa che non ci saranno più errori, ma che oggi abbiamo più strumenti per uscire dalle empasse e comprendere il paziente; per avvicinarci alla sua esperienza con scopi di testimonianza e integrazione dell'esperienza. Oggi sappiamo che un farmaco non salva da solo un paziente per quanto grave. È soltanto un aiuto, che insieme a quello di una rete di elementi congiunti e congruenti di protezione, può risollevare poco alla volta la vita del paziente cresciuto in un contesto emotivamente disregolante e invivibile, che é stato appreso e confermato per decenni nel corso della sua storia.

Mecacci, L. (2000) Marilyn Monroe e altri disastri della psicoanalisi. LaTerza Edizioni.

mercoledì 25 gennaio 2017

“L'altro indispensabile” - Alla base dei meccanismi di rispecchiamento: la formazione dell'identità

 Amore è il fatto che tu sei per me 
il coltello col quale frugo dentro me stesso
Kafka


L’idea per la quale il Sé richiede un Altro per la sua definizione ha origini antiche.
Possiamo ricercare le origini di questa concezione, per fornire un inquadramento storico più completo, a partire dall’approccio filosofico della Fenomenologia di Hegel (1803-06; 1807) al Riconoscimento (Anerkennung) per cui: “L’autocoscienza raggiunge il suo appagamento solo in un’altra autocoscienza” (trad. it., cit., vol. I, p. 151). Prima di Hegel, e della sua teoria che include un Altro per conoscere la realtà fu Cartesio (1637) nel suo Discorso sul Metodo, a parlare di coscienza intesa come Io. Per Cartesio l’Io pensante (Cogito) determina la realtà e gli oggetti esterni sono solo sue rappresentazioni. Hegel mosse le sue intuizioni sul tema Sé/Altro mutuando da Hobbes (1651) le basi per la descrivere lo Stato moderno a partire dal superamento dello stato-di-natura. Nella guerra di tutti contro tutti secondo Hobbes (1651) si scatenano tre tipi di passioni: la competizione, la diffidenza e la gloria. La fondazione dello Stato di diritto richiede secondo Hegel (1817), il superamento di tale condizione a favore della Lotta per il Riconoscimento (Hegel, 1807). Prima di Hegel, fu Fichte (1794; 1796) ad occuparsi del tema del Riconoscimento Sé/Altro come base per la fondazione del diritto di Stato, tuttavia il suo pensiero era caratterizzato da un maggiore soggettivismo, che viene superato nel sistema teorico di Hegel. Nella Fenomenologia dello Spirito (Hegel, 1807), l’autore descrive tale dialettica – esemplificata nella costruzione servo-padrone – come l’incontro di due autocoscienze. La Lotta per il Riconoscimento, rappresenta il momento di sfida, ossia di conflitto tra le autocoscienze per affermare la propria indipendenza. Essa è innescata da un fraintendimento fondamentale, ovverosia che riconoscersi debba significare escludere l’Altro, fino ad uccidersi o ad uccidere. Viceversa il riconoscimento autentico avviene soltanto a patto che l’Altro sia incluso. Il prezzo del sacrificio dell’indipendenza è pagato dal servo per ottenere la possibilità di ingaggiarsi nella dinamica di riconoscimento, senza cui non è possibile la sua stessa esistenza: “La coscienza infelice è la coscienza di sé come dell’essenza duplicata e ancora del tutto impigliata nella contraddizione. Assistiamo così alla lotta contro un nemico, contro cui la vittoria è piuttosto una sottomissione: aver raggiunto un contrario significa piuttosto smarrirlo nel suo contrario” (Hegel, 1807). Le implicazioni di questa dinamica si complicano ulteriormente dal fatto che la dipendenza del servo è relativa, in quanto l’autonomia del padrone dipende dal suo lavoro e dal suo stesso riconoscimento. La risoluzione della Lotta avviene nei termini di quanto viene attualmente descritto come intersoggettività, ovverosia la possibilità reciproca di vedere riconosciuta la propria libertà, nell’indipendenza dell’Altro, ovverosia superare la dialettica del conflitto. Questa concezione verrà ripresa da Marx (1849) per descrivere il rapporto tra salariato e capitalista.
Anche Husserl (1931) ha inteso l’Altro come la base dell’intersoggettività: la possibilità di conoscere gli altri avviene soltanto attraverso sé stessi e superando la soggettività solipsistica mediante l’approccio empatico (Husserl, 1952): “se vi fosse la possibilità di accedere direttamente all’altro in ciò che gli è essenzialmente proprio, allora l’altro sarebbe meramente un momento dell’essenzialmente mio e, in definitiva, io e l’altro non saremmo che la medesima cosa” (HUA I, p. 139).
Nella concezione di Emmanuel Lévinas (1961) troviamo un approccio opposto, che ha contribuito a coniare l'utilizzo contemporaneo dell’Altro come radicalmente distinto. Secondo Lévinas, l’Altro è antecedente al Sé e la sua semplice presenza equivale ad una richiesta che viene formulata prima ancora che la persona possa materialmente rispondere sia essendo d’aiuto che ignorando la richiesta formulata. In questo senso l’Altro assume gli stessi connotati dell’Altro concepito da Sartre (1943): ‘L'enfer, c'est les autres’ nell’accezione che trova una buona interpretazione in un versetto della Divina Commedia di Dante: ‘Tu vuo' ch'io rinovelli disperato dolor che 'l cor mi preme/ già pur pensando, pria ch'io ne favelli’. E’ interessante osservare come lo stesso approccio viene presentato nel recente lavoro di George Atwood (2012) The Abyss of madness per illustrare le origini dei processi dissociativi, che possono essere considerati modelli di disconoscimento dell’umanità dell’essere nella continuità spazio-temporale. Sartre (1943) ha concepito l’Altro come uno specchio che rimanda al Sé: “E tuttavia io lo sono, non lo respingo mai come un’immagine estranea, ma mi è presente come un me che io sono senza conoscerlo, perché lo scopro solo nella vergogna (in certi casi, nell’orgoglio). Sono la vergogna o la fierezza che mi rivelano lo sguardo altrui e me stesso al limite dello sguardo; che mi fanno vivere, non conoscere, la situazione di guardato”. Questa idea e quella dell’incontro faccia a faccia di Lévinas (lo sguardo dell’altro) la cui prossimità o distanza sono fortemente sentiti, assumono ad ogni modo in alcuni punti l’idea espressa anche da Derrida (1998) a proposito dell’impossibilità di una pura presenza dell'Altro (l’Altro potrebbe non può essere pura alterità). Lévinas parla dell'Altro in termini di ‘insonnia’ e ‘veglia’. La condizione d’incontro secondo l’autore produce una sorta di estasi, che rimane per sempre aldilà di ogni tentativo di cattura pieno; questa condizione è indeterminabile (o infinita). Anche se si assassinasse l’Altro, la sua alterità rimarrebbe: essa non viene in nessun caso negata e non può essere controllata.

domenica 8 novembre 2015

Sándor Ferenczi: il terzo viaggiatore



Il viaggio del 1909 verso verso la Clark University di Worcester vedeva insieme a Freud e Jung, presi dalla loro vicariante interpretazione dei sogni, anche un terzo viaggiatore: Sándor Ferenczi. 

Ferenczi era un medico ungherese. Intraprese l’attività di psichiatra e lavorò in particolare con gli omosessuali (Bokanowski, 1997). Come psichiatra si era interessato all’ipnosi e ai meccanismi eziologici della nevrosi. Aveva letto le opere di Freud e Breuer sull’isteria, e anche L’Interpretazione dei sogni, ma non ritenne le idee di Freud eccezionali, fin quando non si avvicinò a Jung, grazie al suo interesse per i meccanismi di associazione sincronizzati. Jung invitò Ferenczi ad una rilettura dell’opera di Freud sul sogno, principalmente per l’interesse comune relativo ai fenomeni della rimozione, di cui Freud parlava nell’ultimo capitolo del suo lavoro.
Fu così che Ferenczi rivalutò l’opera e nel 1908 chiese un incontro a Freud (Bokanowski, 1997). Freud dimostrò interesse per il lavoro di Ferenczi e lo invitò al Primo Congresso di Psicoanalisi di Salisburgo. Alla conferenza parteciparono tra gli altri, Jung con il suo lavoro sulla dementia praecox, e Freud con la presentazione del caso clinico dell’uomo dei topi. Da quel momento in poi ebbe inizio una lunga collaborazione. 

Secondo Bokanowski (1997), Ferenczi partecipò durante il viaggio verso Worcester all’analisi dei sogni di Freud e Jung e alla fine del viaggio l’amicizia tra Freud e Ferenczi ne risultò rinsaldata – al contrario di quella tra Freud e Jung.
Tuttavia in un successivo viaggio in Italia sembrerebbe che Ferenczi si sia mostrato eccessivamente bisognoso e dipendente dall’approvazione di Freud, che associò la situazione alla precoce morte del padre di Ferenczi. Un altro episodio spiacevole tra i due riguarda le vicende sentimentali di Ferenczi, che s’invaghì prima di una donna sposata, poi della figlia di questa donna, che prese anche in analisi mettendo sé stesso e Freud in una posizione scomoda. 
 
Ferenczi, anticipò temi fondamentali quali l’introiezione, la scissione, e la frammentazione che verranno successivamente ripresi ed ampliati da Melanie Klein, di cui fu analista. Ferenczi analizzò anche Jones, sebbene questi, nella sua opera sulla vita di Freud, lo abbia accusato di instabilità emotiva (Jones, 1953). L’autore anticipò anche il concetto di oggetto transizionale, approfondito in seguito da Winnicott, e in generale i temi della relazione

Il sogno, per Ferenczi può essere considerato un ponte tra intrapsichico e intersoggettivo (Bolognini, 2000). Rispetto a questo tema, la grande innovazione dell’approccio di Ferenczi è data infatti dall’attenzione a temi meno “metapsicologici” o “topografici”, per focalizzarsi sul vissuto del paziente.
Ferenczi introduce anche dei cambiamenti fondamentali nella tecnica psicoanalitica, che tengono primariamente in considerazione l’analista in quanto persona che partecipa allo scambio con il paziente, e non più unicamente come schermo speculare attraverso cui si analizza soltanto il materiale proveniente dal paziente (Ferenczi, Rank, 1924). Queste innovazioni costeranno a Ferenczi l’esclusione dalla Società Psicoanalitica Viennese. 

Il sogno come elemento psichico dotato di senso psicodinamico, viene preso in considerazione da Ferenczi intorno al 1909. In quell’anno l’autore pubblica L’interpretazione scientifica dei sogni, un saggio in cui prende in esame, a partire dall’idea freudiana di sogno come elemento dotato di significato e appagamento di un desiderio represso, una serie di sogni di alcuni suoi pazienti, di cui analizza il significato. In quegli stessi anni anche Jung scrisse un lavoro analogo (L’analisi dei sogni), probabilmente questi scritti avevano lo scopo di divulgare la teoria freudiana nei paesi d’origine dei due autori

Nel lavoro del 1909 Ferenczi riporta gli elementi di base della teoria freudiana del sogno, quindi indica alcuni simboli: la serratura come simbolo della masturbazione femminile, l’armadio come simbolo dei genitali femminili, cadere dall’alto come declino etico o materiale, il corpo umano come una casa, sparare come atto del coito.
A tale proposito Ferenczi ripete la raccomandazione di Freud sull’uso delle libere associazioni e del simbolismo nell’interpretazione: non è possibile rifarsi ad un “libretto dei sogni” in cui trovare subito la spiegazione per ogni piccolo frammento, ma bisogna indagare il significato dei simboli mediante la collaborazione nelle associazioni con il paziente. 
Ferenczi a differenza di Freud – che utilizzò i propri sogni nell’esposizione della Traumdeutung – parte dall’analisi dei sogni dei propri pazienti, e non indugia nell’autoanalisi – perlomeno non pubblicamente – nonostante la ritenga un esercizio indispensabile per chiunque voglia studiare i processi inconsci. 
 
Dall’analisi dei sogni dei pazienti nevrotici Ferenczi ricava una conoscenza circa “il significato patologico e terapeutico dei sogni e della loro interpretazione” (Ferenczi, 1909, p. 58).
Secondo Ferenczi l’analisi di un soggetto nevrotico può essere accelerata da una felice analisi dei sogni. Mediante il sogno infatti possono essere scoperti “complessi” che nelle libere associazioni della veglia potrebbero restare inconsci a causa del regime più alto della censura durante il giorno.
Il sogno può essere in questo modo osservato come una via breve alla scoperta del sintomo nevrotico, che se portato alla consapevolezza può accorciare il percorso verso la guarigione.
Ferenczi propone anche la possibilità, accennata da Freud, di una significatività diagnostica dei sogni che vede realizzata in una futura “psicologia patologica del sogno che tratti sistematicamente le particolarità della formazione onirica nei casi di isteria, nevrosi ossessiva, paranoia, dementia praecox, nevrastenia, nevrosi d’angoscia, alcolismo, epilessia, paralisi, deficienza mentale ecc.” (Ferenczi, 1909, p. 58). 

L’autore dà anche qualche indicazione circa il rapporto tra paziente e analista con il sogno: l’analista non è soltanto un “catalizzatore”, ma un “motivo scatenante” del sogno (Ferenczi, 1909, p. 103). Il sogno infatti nasce dall’interazione tra paziente e analista e torna dal luogo in cui ha avuto origine. In questo senso Ferenczi sembrerebbe accennare al sogno di transfert.
Il contenuto onirico per Ferenczi ha valore non tanto per il suo contenuto, quanto per la qualità umorale e atmosferica che determina. In questo caso Ferenczi intende dire che il sogno dà informazioni fondamentali sulla modalità di funzionamento psicologico del soggetto all’interno di una situazione relazionale che ha determinato il sogno stesso. Ciò è molto evidente in Ferenczi che dà al sogno una valenza traumatolitica.
Il concetto di “traumatolico” (Ferenczi, annotazione del 23 marzo 1931) esprime una ulteriore differenziazione teorica di Ferenczi da Freud. Il significato del sogno, per Freud, riguarda la soddisfazione di un desiderio rimosso. Ferenczi invece rileva che nel sogno è possibile osservare la presenza di elementi sintomatici relativi a traumi vissuti nel passato. Il sogno viene in questo senso concepito da Ferenczi come traumatolitico, ovvero come elemento che costituisce un tentativo di soluzione dell’evento traumatico. 
Nel lavoro onirico l’obiettivo perseguito dall’analista è quindi quello di ripetere mediante l’analisi del sogno la passività che il soggetto ha sperimentato durante l’evento traumatico. Il fine terapeutico dell’analisi del sogno è quello di rendere accessibili le impressioni sensoriali. Ma l’interpretazione del sogno è solo un aspetto formale del lavoro analitico, poiché ciò che è considerato indispensabile è che il paziente riesca a rivivere affettivamente le emozioni, per poterle elaborare.
Ferenczi ritiene infatti che il focalizzarsi sull’eccessiva consapevolezza sia una resistenza all’analisi. 

Ferenczi postula l’esistenza di due possibilità per il sogno: nella prima si vive un’esperienza puramente emotiva, ovvero priva di contenuti ideativi (ciò è definito sogno primario), nella seconda (sogno secondario, sogno di deformazione) il trauma può giungere ad una soluzione. Il sogno secondario viene infatti deformato in senso ottimistico per poter accedere alla coscienza.
Borgogno (2000) spiega la funzione traumatolitica del sogno in questi termini
“La Traumdeutung di Freud è subito per Ferenczi una sorta di Traume-deutung, dove ciò che è traumatico è la quota di dolore presente in un’esperienza psichica che il paziente può aver registrato senza avere tuttavia gli strumenti adatti per riuscire a metabolizzarla. La funzione ‘traumatolitica’ dei sogni è di riproporre un’esperienza eccessivamente dolorosa nel tentativo di darne creativamente una soluzione migliore: una ripetizione che non è puramente istintuale, ma dell’Io, per questo sforzo di modificare la sofferenza in modo più economico e più vantaggioso. Tale punto di vista sarà prevalente nei suoi ultimi lavori laddove Ferenczi sottolineerà che la censura, nell’imporre una distorsione, “valuta sia l’entità del danno che la misura in cui l’individuo può sopportarlo, e ammette alla percezione solo quel tanto di forma e contenuto del sogno che risulta tollerabile, presentandolo, ove necessario, come adempimento di un desiderio (1931, in 1920-1932, p. 187)” (pp. 85-86). Il sogno è per Ferenczi soprattutto comunicazione della realtà psichica del paziente (Borgogno, 1997). Il sogno infatti risulterà incomprensibile se slegato da tale realtà. 

Le potenzialità del sogno sono quindi quelle di offrire al paziente la possibilità di narrare e integrare la propria storia nell’ambito dell’incontro con l’analista: feeling is believing - sentire è credere (Ferenczi, 1913).
I sogni per Ferenczi non riguardano soltanto un’espressione simbolica di tendenze inconsapevoli, ma il tentativo di working-throught di eventi attuali, i cui resti diurni, chiamati da Ferenczi (1934) “resti di vita” riguardano nello specifico l’analista in quanto egli è in grado di rianimarli. Spesso, infatti, le persone che giungono in analisi hanno bisogno di ritrovare il contatto con gli affetti, e la loro vita relazionale è impoverita a causa di una mancanza di contatto con le emozioni che hanno isolato (Borgogno, 1998).
In questo senso Borgogno (1997), scorge in Ferenczi il germe di una psicoanalisi volta all’intersoggettività. Ferenczi esprime la sua opinione sull’importanza della relazione terapeutica affermando: “si può guarire con tutte le tecniche possibili: con interpretazioni tanto paterne quanto materne, con spiegazioni teoriche, mettendo in rilievo la situazione analitica, e finanche con la vecchia, buona suggestione e l’ipnosi” (Ferenczi, 1926, p. 383); per il suo approccio alla relazione e la sua considerazione del mondo interno, verrà considerato un capostipite degli indipendenti britannici. 

Esempi di analisi di sogni:

Il sogno del “poppante sapiente” (1923)
Spesso i pazienti raccontano sogni in cui dei neonati o bambini piccolissimi o addirittura in fasce, sono in grado di scrivere con perfetto agio, di regalare a chi è a loro vicino parole profonde, di sostenere conversazioni colte, di tenere discorsi e così via. Il contenuto di questi sogni, sembra nascondere qualcosa di caratteristico. Una prima interpretazione superficiale del sogno fa venire fuori un concetto ironico della psicoanalisi, che, come si sa bene, dà più valore ed effetto psichico al vissuto della prima infanzia di quanto non si faccia abitualmente. Questa esagerazione ironica dell’intelligenza del bambino, non farebbe altro che esprimere chiaramente il dubbio sulle comunicazioni psicoanalitiche a questo proposito. Ma poiché fenomeni simili sono molto frequenti nei racconti, nei miti e nella tradizione religiosa, e sono spesso rappresentati concretamente nella pittura (il dibattito della Vergine Maria con i dottori
della Legge), credo che l’ironia qui agisca unicamente da intermediario per evocare ricordi più profondi e più gravi dell’infanzia del soggetto. Il desiderio di divenire sapiente e di superare i “grandi” in saggezza e conoscenza non sarebbe altro che un capovolgimento della situazione in cui si trova il bambino. Una parte dei sogni che rappresentano questo contenuto manifesto e che io ho potuto studiare sono illustrati dalla celebre frase del libertino: “Se soltanto avessi saputo fare un uso migliore dell’allattamento!”. Infine non dimentichiamo che un buon numero di conoscenze sono effettivamente ancora familiari al bambino, conoscenze che in seguito saranno sepolte dalla forza della rimozione. (Ferenczi, 1923 in Bokanowski, 1997, pp. 102-103). 

Scambio di emozioni nel sogno
Un signore di una certa età fu svegliato durante la notte da sua moglie, preoccupata di sentirlo ridere così smodatamente durante il sonno. Il marito le raccontò di aver fatto un sogno: “Ero a letto; un uomo che conoscevo è entrato in camera; ho cercato di accendere la luce, ma non riuscivo ad arrivarci; provavo e riprovavo, ma invano. Anche mia moglie si era alzata dal letto per venirmi in aiuto, ma neppure lei era riuscita a concludere qualcosa; così vergognandosi di trovarsi in camicia da notte alla presenza di questo signore, aveva finito per rinunciarci ed era tornata a letto. Tutto ciò era così comico che sono stato preso da riso irrefrenabile, mentre mia moglie continuava a ripetermi: “Ma perchè ridi così, cosa c’è da ridere?”. Io non riuscivo a smettere fino a quando lei non mi aveva svegliato”. L’indomani il sognatore era estremamente abbattuto e soffriva di un terribile mal di testa. “Sono state quelle risate incredibili che mi hanno sfinito”, diceva. Dal punto di vista analitico questo sogno sembra molto meno divertente. Il “signore di sua conoscenza” che era entrato, è nel pensiero latente del sogno “l’immagine della morte, evocata la sera precedente sotto il nome di ‘grande sconosciuto’”. Il vecchio signore che soffriva di arteriosclerosi aveva avuto la sera precedente occasione di pensare alla sua morte. Le risate irrefrenabili sostituiscono le lacrime e i singhiozzi all’idea che egli debba morire. La lampada che non riesce ad accendere è la lampada della vita. Questo triste pensiero è in rapporto a un recente tentativo di coito non coronato da successo in cui anche l’aiuto di sua moglie in camicia da notte non era stato di alcun aiuto; allora ha preso coscienza del fatto che ormai era sulla china discendente. Il sogno è riuscito a trasformare quel triste pensiero dell’impotenza e della morte in una scena comica e i singhiozzi in riso. Ugualmente si incontrano scambi di emozioni e scambi di gesti di espressione nelle nevrosi, oltreché nel corso dell’analisi sotto forma di “sintomi transitori”.
(Ferenczi, 1916, pp. 95-96). 

Come è possibile osservare dall’analisi di questi sogni, il modo di procedere di Ferenczi all’interpretazione è differente rispetto a quello freudiano. Esso si avvicina di più invece alle modalità suggerite da Jung e Rank. Ferenczi non suddivide minuziosamente il sogno nelle sue piccole componenti, ma lo considera nella sua interezza. Le associazioni e le informazioni che vengono fornite dal paziente, inoltre sono usate oltre che per essere esplorate, per confermare un significato attribuito, dunque l’attendibilità di un’interpretazione.

Il sogno è definito da Ferenczi memoria stratificata in movimento dinamico. Esso riguarda il presente e la ricerca di un Io vivibile, mediante l’esperienza dell’interazione psicoanalitica (Borgogno, 2000).
Esso è una comunicazione essenziale del paziente e può racchiudere in sé elementi fondamentali rispetto a ciò che viene “non detto” (verbalizzato). Mediante il sogno c’è la possibilità che questo materiale emerga in forma “sensoriale”.
Tutto ciò riveste un grosso valore nel momento dell’incontro tra paziente e analista, poiché, per Ferenczi, è esattamente questo il genere di materiale che costituisce un’analisi “riuscita”. 

Qui Ferenczi fa riferimento ad un approccio basato su un'evoluzione del concetto che Freud chiamava abreazione. Propone cioè un approccio leggermente diverso e quanto mai attuale del transfert: la possibilità di sperimentare emotivamente i contenuti traumatici in un contesto di ripetizione protetto. Secondo Ferenczi, infatti i sogni vengono raccontati alla persona a cui si riferisce il contenuto latente. Nello specifico, la persona dell’analista. L’analista è la sorgente esogena del sogno: il paziente registra tutti i movimenti inconsci dell’analista e li ripropone nel sogno. Un esempio evidente di questo processo è il caso di una paziente di Otto Rank, citata da Ferenczi (1926, p. 381): la paziente di Rank fotografa prontamente il narcisismo del suo analista nel volerle proporre, circa l’interpretazione di un sogno, la propria teoria sulla nascita. 
L’analista deve invece, nella relazione con il paziente, avere tatto nel proporre le sue interpretazioni, in modo che queste possano essere “digeribili” (Borgogno, 2000). Inoltre è necessario, secondo Ferenczi, mantenere un ascolto attento e profondo sul contenuto del sogno, volto ad una comprensione dei contenuti effettivamente affidati dal paziente all’analista; più che concentrarsi sul compito di trovare una conferma narcisistica della propria teoria o modello. E’ immediata, in questo senso, la sensazione che si riceve, dalla lettura delle opere di Ferenzi, di vivacità ed attualità nel modo di lavorare con i pazienti, nello specifico in relazione ai sogni.
L’importanza dell’evoluzione teorica del pensiero di Ferenczi ci viene confermata anche dall’unico passo indietro operato da Freud (1920) nella sua definizione di sogno: ovvero quello relativo alla possibilità che il sogno possa riguardare, oltre che l’appagamento di un desiderio rimosso, anche i contenuti traumatici

E’ possibile che l’attenzione sull’aspetto del trauma abbia fatto seguito agli avvenimenti storici che anche la psicoanalisi come disciplina, nella sua evoluzione, ha vissuto direttamente sulla propria pelle: ci riferiamo alle brutture della prima guerra mondiale; le discriminazioni razziali e i molti soldati e civili morti e feriti in guerra.
Questi eventi hanno sicuramente messo in evidenza l’urgenza di contenuti conflittuali che avevano a che fare più con la realtà, così come indica acutamente Ferenczi, rispetto alla considerazione di contenuti più strettamente intrapsichici, relativi all’infanzia e allo sviluppo di un funzionamento psicologico peculiare in adattamento – in maniera più circoscritta – alle circostanze familiari

Ferenczi in questo senso parla di frammentazione e nello specifico di scissione
La scissione non è prerogativa del sognatore, perchè è l’ambiente ad aver contribuito a determinarla e a continuare a favorirla impedendo agli eventi traumatici di essere rivissuti (Borgogno, 2000). Il sogno che per Ferenczi è memoria sepolta o revenants relativa anche alla propria storia familiare, è invece l’accadimento psichico principale in cui si determina la dissociazione: Ferenczi ne parla come di morte psichica e affettiva, in cui il contatto umano con l’esperienza traumatica è allontanato per mezzo di difese autistiche estreme (Borgogno, 2000). Come risposta a queste formazioni psichiche di blocco, Ferenczi propone un maggior calore e una maggiore partecipazione da parte dell’analista, così come una maggiore fiducia nella “reversibilità dei processi psichici” (1932, p. 279). 
Nella nota del 10 agosto 1930 Ferenczi indica come la dissociazione si manifesta nel paziente: dalla sensazione di aver reciso o perduto la testa, alla vertigine, dall'essere travolti da un ciclone, alla proiezione su oggetti non umani. La scissione è descritta invece come una lacerazione subita. 

Secondo Borgogno (2000) l’analisi deve offrire un contenitore al sognatore in modo da poterlo scongelare, farlo rientrare nella sua pelle, superare la passività e l’anestesia. L’analista deve accogliere la regressione del paziente e assumersi la responsabilità del suo dolore psichico, aumentando l’ascolto e il coinvolgimento e indossando i suoi stessi panni prima di lui (Borgogno, 2000). Egli deve credere alle percezioni del sogno del paziente ed esplorarle soprattutto emotivamente. In questo modo, si consentirà al paziente di risperimentare il trauma, e trovare quindi una connotazione più consona a tale vissuto nel bagaglio della propria esperienza di vita. 

Per Ferenczi in tal senso, l’analista si pone “alla pari” del paziente e non in posizione gerarchica (superiore). Il suo ruolo consiste nell’avvicinare il paziente con sensibilità e rispetto, e discernere tra le identificazioni portate dal paziente. 
Sugli elementi della personalità del paziente in relazione “a chi sta parlando” dentro di lui, si può ravvisare anche un’anticipazione dei temi cari ai teorici delle relazioni oggettuali: l’introiezione e proiezione nella costruzione dell’identità (Borgogno, 2000). 

I temi introdotti da Ferenczi anticipano i paradigmi teorici di molti autori a venire. I limiti del suo approccio appaiono sostanzialmente legati alle sue stesse questioni irrisolte: nella mutua analisi forse Ferenczi cercava un appoggio per sé stesso e una risoluzione ai conflitti di dipendenza che rimanevano aperti in lui. 
Tale richiesta non venne esaudita da Freud in seguito alla richiesta di aiuto personale di Ferenczi

venerdì 13 febbraio 2015

Il caso clinico di Connie - di Stephen Mitchell: relazionalità e attaccamento nel trattamento psicoanalitico

 
A questo punto dell’evoluzione delle idee psicologiche,
la teoria dell’attaccamento e quella psicoanalitica,
anziché fornire percorsi alternativi, ci offrono la straordinaria possibilità
di una convergenza che porta ricchezza ad entrambi i modelli.
(Mitchell, 2000)

 Stephen Mitchell in un dipinto di Philip Ringstrom fonte: http://www.iarpp.net/resources/enews/vol11no1/index.html

E' stato recentemente pubblicato l'interessante volume di Morris Eagle "Attaccamento e psicoanalisi-Teoria, ricerca e implicazioni cliniche" (Raffaello Cortina, 2013). Il libro, si pone sulla scia della riflessione teorica più recente a proposito delle implicazioni cliniche della teoria dell'attaccamento (Bowlby, 1969, 1973, 1980).
Nel 2002, Peter Fonagy aveva pubblicato un libro dall'analogo titolo; "Psicoanalisi e teoria dell'attaccamento". Il libro ha trovato una tiepida accoglienza tra i ricercatori e gli psicoanalisti. La tradizione teorica dell'attaccamento così come quella di ricerca e quella psicoanalitica, sono considerate come appartenenti ad ambiti differenti.
Nel 2003 Fonagy annovera nel suo "Psicopatologia evolutiva" (il cui titolo originale è "Psychoanalytic theories, perspective from developmental psychopathology") il Modello della teoria dell'attaccamento di Bowlby tra le teorie psicoanalitiche considerate alla luce del processo evolutivo.
Un argomento di dibattito riguarda la possibilità di considerare la teoria dell'attaccamento nell'ambito del trattamento psicoterapeutico, e in particolare, psicoanalitico.
Il libro di Eagle, in tal senso, consente di riflettere a proposito del rapporto tra teoria dell'attaccamento e psicoanalisi, vagliando le aree di possibile contatto. Ciò che rende particolarmente interessante lo sforzo di Eagle è il fatto che l'autore considera oltre alla teoria psicoanalitica "classica" cioè pulsionale, gli approcci più recenti della psicoanalisi relazionale.
Una differenziazione spesso sottolineata riguarda infatti ciò che è considerato psicologia empirica, psicoterapia e psicoanalisi. Tale differenziazione riguarda nello specifico le differenti tradizioni d'origine a cui questi ambiti fanno capo. E' tuttavia ormai estremamente diffusa l'abitudine a fare riferimento a più livelli di considerazione (outcome, descrizioni cliniche, etc.) alla teoria dell'attaccamento.
In una recente ricerca Mikulincer, Shaver, Avihou-Kanza (2011), hanno proposto un approccio multidisciplinare allo studio delle narrative del sogno. Gli autori hanno associato lo studio sul materiale onirico mediante il metodo CCRT alle dimensioni di ansietà ed evitamento dell’attaccamento adulto. I risultati del CCRT hanno mostrato – in linea con la teoria dell’attaccamento – che W caratterizzate da ricerca di vicinanza, e RO e RS negative erano correlate ad ansietà, mentre W caratterizzati da distanziamento e RO negative erano correlate all’evitamento.
Uno degli obiettivi di questa ricerca era, oltre alla validazione empirica dell’indagine sui sogni come materiale informativo e utile ai fini della valutazione delle dinamiche relazionali, quello di trovare una corrispondenza tra una misura self-report dell’attaccamento e “marker motivazionali e cognitivi dell’insicurezza dell’attaccamento nelle narrative dei sogni” (Mikulincer, Shaver, Avihou-Kanza, 2011, p. 115), in relazione alla possibilità di collegare un aspetto “conscio” (ibidem) – quello del comportamento di attaccamento – con una misura “meno conscia” (ibidem) ovvero psicodinamicamente orientata come quella delle categorie derivate dagli autori dal metodo CCRT. Gli autori hanno affermato che: "I sogni possono contribuire significativamente alla comprensione di sé e al dialogo tra paziente e terapeuta" (Mikulincer, Shaver, Avihou-Kanza, 2011, p. 119).
Recentemente (2013) è stato pubblicato il volume di Beebe e Lachmann “The origins of Attachmnent. Infant research and Adult Treatment”. Il testo sembra indagare, come suggerisce il titolo, le origini dell’attaccamento nelle prime interazioni faccia a faccia madre-bambino.  La creazione di un modello psicoanalitico basato sulle interazioni reali e le successive applicazioni di questa teoria al trattamento adulto (regolazione interattiva/attenzione al contesto, microinterazioni non verbali, modelli di psicoterapia basati sull’attivazione fisiologica, principi di salienza, disconferma delle aspettative negative, regolazione attesa, rottura e riparazione, momenti affettivi intensi) era già stato proposto dagli stessi autori nel 2002, nel testo “Infant Research e Trattamento degli adulti”.

Un tributo personale a Mitchell. Sulla mia specchiera, due carte M&M's e Orfeo Milka, e una foto della mia città natale.

Il caso clinico di Connie (Mitchell, 2000).
Mitchell utilizza il caso di Connie per descrivere come le problematiche dell'attaccamento si rivelano a diversi livelli nella relazionalità per fornire una cornice entro cui pensare la matrice interattiva che si delinea nel processo psicoanalitico. "Da quando Bowlby ha presentato la sua rivoluzionaria teoria dell'attaccamento sono state introdotte ed elaborate altre prospettive relazionali centrate sulla permeabilità affettiva, sulle configurazioni di sé e oggetto e sull'intersoggettività (...) Tali sviluppi suggeriscono che questo è un momento particolarmente appropriato per esplorare le convergenze tra psicoanalisi e teoria dell'attaccamento". (Mitchell, 2000, p. 102). 
Connie richiede una terapia a causa di un persistente senso di tristezza, per la mancata elaborazione del lutto per la morte della madre. Suo padre che dopo l'evento la mandò in collegio, era un uomo provato e fragile a cui lei non doveva far pesare i suoi bisogni.
In secondo luogo sentiva che c'era qualcosa di diverso in lei, che le altre persone avevano ma che a lei mancava. Le sembrava che gli altri avessero un "Sé" ovvero un senso di chi sono e delle radici solide. Connie era sposata e aveva avuto un figlio. Il bambino presentava problemi di separazione. 
Connie sentiva con grande intensità e vergogna che il figlio era parte di lei: l'esperienza della gravidanza, aveva riattivato in lei ricordi relativi alla perdita della madre, in quanto perdita di parti di se stessa. Diventando madre, sperava di ritrovare la madre e le parti perse di se stessa. La perdita di Connie riguardava infatti non solo la madre, ma se stessa e tutto il suo mondo infantile. La gravidanza riempiva quel vuoto. Secondo Loewald, non siamo separati dagli altri significativi, ma co-creiamo esperienze emotive intense e condividiamo tali emozioni in modi che non corrispondono alle categorie discrete sé-altro e interno-esterno (permeabilità affettiva). Afferma Mitchell: "i residui delle esperienze di attaccamento (...) non includono solo modelli cognitivi del mondo interpersonale, ma anche stati affettivi di connessione indifferenziata con le figure di attaccamento organizzati intorno ad affetti positivi come l'euforia o la calma tranquillizzante, e attorno ad affetti negativi come la depressione, l'angoscia o il terrore. In questa visione, ciò che Connie ha bisogno di raggiungere nel corso dell'analisi non è una separazione netta da sua madre e da suo figlio, ma una maggiore capacità di contenere esperienze diverse, sia di unione con loro sia di differenziazione da loro". L'attaccamento all'assenza della madre costituiva di fatto il senso del Sé centrale per Connie. La continua elaborazione inconscia del lutto della madre serviva a mantenere il legame con lei, e con l'unica parte di se stessa di cui era a conoscenza. Il dolore definiva chi era, ovvero tutto ciò che conosceva di se. In mancanza di una figura di attaccamento sicura il suo sentire prendeva il posto di un punto di riferimento umano. L'attaccamento all'assenza era anche una bussola per orientarsi rispetto a quello che poteva aspettarsi dal mondo, e il modo in cui le relazioni avrebbero funzionato. 
Mitchell avverte che qualcosa nelle esperienze presenti di Connie rigeneravano la sua tristezza, qualcosa a cui stava rinunciando nel presente e che aveva perduto nel passato. Mitchell iniziò a parlare con Connie di cibo, perchè tra i suoi argomenti preferiti. Connie era salutista e mangiava molte verdure. Si concedeva però un pacchetto di M&M's ogni pomeriggio. Mitchell preferiva le Milky-Ways. Connie iniziò a riflettere su come con la morte della madre aveva perso una figura che si occupasse della sua alimentazione, come lei faceva ora con il figlio. In effetti lei mangiava inizialmente tutto quello che le sembrava ragionevole, ma poi finiva per concedersi tutto ciò che le capitava a portata di mano: non c'era nessuno che badasse alle ripercussioni sulla sua salute.
Connie non aveva mai fatto esperienza del preoccuparsi della sua salute e della sua sicurezza, non poteva concedersi di lasciarsi andare al desiderio e al piacere facendo affidamento sul fatto che qualcun altro avrebbe supervisionato il suo comportamento. Connie aveva dovuto svolgere da sola il ruolo di caregiver di se stessa. Ciò aveva generato in lei un senso cronico di tristezza e mancanza.
L'approccio di Connie alla cioccolata era prototipico del modo di organizzare le sue relazioni: immaginava quello che poteva avere e poi desiderava le cose che non superavano quei limiti. Con il marito, un uomo incapace di grande intimità aveva imparato che per sopravvivere doveva adattarsi a quanto era disponibile e non avanzare alcuna richiesta.
Bowlby suggerisce che nel contesto di un attaccamento sicuro è possibile utilizzare una base per esplorare il mondo. L'attaccamento nel contesto terapeutico tra Mitchell e Connie, le permise di esplorare il mondo interno ed esterno delle sue preferenze personali, i suoi desideri e i suoi impulsi. Se tale tipo di attaccamento manca, il bambino impara precocemente a svolgere da solo tale funzione, a un costo elevato: l'opportunità di abbandonarsi alla propria esperienza.
L'esperienza di attaccamento terapeutica aveva consentito a Connie di vivere qualcosa che le era mancato durante l'infanzia: la possibilità di abbandonarsi; l'assenza era stata rimpiazzata dalla presenza coerente di Mitchell, che consentiva la sua nascita: "La mente è in realtà transpersonale e contestuale ed emerge nelle interazioni con altre menti" (Mitchell, 2000, p. 111).
Il problema della spendibilità clinica della teoria dell’attaccamento sembra riguardare maggiormente i rapporti relativi alle rispettive tradizioni teoriche di riferimento, che un'effettiva incompatibilità tra di loro.
L’attaccamento svolge un ruolo centrale come dispositivo motivazionale biologico che spinge alla ricerca di sicurezza. John Kerr ha fatto riferimento in una comunicazione personale alla stanza d’analisi come metafora della Strange Situation (Mitchell, 2000). Considerare la teoria dell’attaccamento da un punto di vista strettamente “empirico” ne riduce il raggio d’azione potenziale. Un esempio paradigmatico analogo in tal senso è il comportamento sessuale.
Mitchell fornisce un elegante esempio di come possiamo utilizzare oggi la teoria dell’attaccamento all'interno della cornice concettuale della psicoanalisi relazionale.
Per rendere possibile l'integrazione tra teoria dell'attaccamento e psicoanalisi, forse sarebbe utile capire di quale psicoanalisi si parla, e ridefinire allo stesso modo il concetto di attaccamento.
La domanda che permane pertanto sembra piuttosto: quale esigenza teorica sottende la necessità di mantenere questa differenza?

martedì 17 giugno 2014

Philip Bromberg: il sogno come esperienza dissociativa


La grande onda di Kanagawa (神奈川沖浪裏 Kanagawa Oki Nami Ura?, lett. Sotto un'onda di Kanagawa) è una xilografia, in stile ukiyo-e, del pittore giapponese Hokusai (1760-1849). E' la prima e la più celebre tra quelle che compongono la serie intitolata 36 vedute del Monte Fuji. È stata pubblicata la prima volta nel 1832.


Trauma e dissociazione sono concetti che hanno avuto un destino psicoanalitico controverso, un destino caratterizzato da flussi e riflussi di interesse teorico e clinico. Il concetto di trauma ha infatti accompagnato la nascita e lo sviluppo del pensiero psicoanalitico.
A differenza del concetto di dissociazione, esso ha continuato a restare al centro delle riflessioni teoriche di analisti diversi. Freud (1914), anche dopo aver abbandonato la teoria della seduzione – concludendo che, se era vero che le isteriche riconducevano i loro sintomi a traumi inventati, “la novità consiste appunto nel fatto che [...] creano tali scene nella loro fantasia” (p. 391) – mantenne due distinti modelli del trauma: come esito di uno stato affettivo insostenibile, e come esito dell’affiorare di un’idea o fantasia inaccettabile (Krystal, 1988). Successivamente Freud (1926), nel tentativo di conciliare queste due visioni, descrisse il trauma come uno stato in cui l’Io si trova indifeso davanti al montare di pressioni pulsionali, siano esse di natura esterna o interna.

E’ quindi grazie agli autori delle relazioni oggettuali (Winnicott, Khan, etc.) che si assiste ad un recupero dell’importanza del concetto di “trauma ambientale” e dell’idea che non sia tanto il trauma o gli affetti scatenati da esso ad avere potenzialità disturbanti, ma l’impossibilità che questi vengano gestiti e regolati nella relazione con l’oggetto.

Come scrivono Stolorow e Atwood (1992) “dolore e patologia sono due cose diverse” (p. 63). Balint (1969) sottolineava come avesse importanza non l’evento in sé, quanto l’assenza di risposte di contenimento e sollievo alle reazioni dolorose al trauma. E’ in tale assenza che si configura la fonte reale degli stati traumatici e della psicopatologia. Questo concetto veniva ribadito anche per quelle sottili “interferenze” (Winnicott, 1949), sovrastimolazioni (Greenacre, 1958), ferite narcisistiche (Kohut, 1971), vale a dire l’insieme di quei traumi “silenziosi” (Hoffer, 1952) e “cumulativi” (Khan, 1963) che possono verificarsi lungo il percorso dello sviluppo.

Diverso è stato invece il destino del tema della dissociazione. Dopo la rottura con Breuer, Freud introduce il concetto di rimozione. Da allora, gli psicoanalisti hanno trascurato lo studio degli stati di coscienza e dei fenomeni dissociativi per concentrarsi sui temi del conflitto e della rimozione.

La dissociazione ha tuttavia continuato ad attrarre l’attenzione degli analisti, fino a essere recuperata grazie al lavoro di Sullivan e di autori britannici (Fairbairn, 1952; Winnicott, 1971) e a raggiungere oggi, tra gli attuali modelli psicoanalitici un aspetto di primo piano.

La metafora della mente come entità monadica è stata così sostituita da quella di un collage di organizzazioni e prospettive molteplici che si sovrappongono, dove l’esperienza viene appiattita grazie ad un illusorio senso di continuità (Bromberg, 2006).

Sul piano evolutivo questa nuova metafora organizzatrice si traduce con l’idea che la precoce relazione madre-bambino rappresenti il “luogo” in cui vengono costruiti i “ponti” tra i diversi stati del Sé: la madre che aiuta il bambino a tollerare e negoziare la transizione degli stati e degli affetti costituisce (e forma) nella mente un’esperienza di collegamento in grado unire la molteplicità delle esperienze contraddittorie e mutevoli di Sé (e di Sé con gli altri) (Pizer, 1998). Come spiega Bromberg (1998):

Il processo evolutivo che facilita la transizione tra stati di consapevolezza deriva dalla capacità di una persona in salute di appianare la consapevolezza dei cambiamenti, una conquista enormemente facilitata dalla presenza di un caregiver che, attraverso un processo di regolazione reciproca, aiuta il bambino a conseguire delle transizioni di stato non traumatiche per mezzo di un’adeguata responsività interattiva alla sua soggettività (p. 178).

Durante lo sviluppo, in cui le precoci esperienze formano le fondamenta dei vari stati del Sé e i collegamenti tra loro, la dissociazione consente lo sviluppo di una continuità, coerenza e integrità del senso del Sé. Se però la discrepanza tra le esperienze è troppo ampia per essere tollerata, e i “paradossi” non trovano una soluzione, il suo scopo diventa allora quello di evitarne la dissoluzione traumatica (Bromberg, 1993). Interviene allora la dissociazione a trasformare la normale molteplicità in una molteplicità dissociata. La molteplicità dissociata del Sé è l’esito del crollo dei ponti che legano i diversi stati del Sé allo scopo di preservare la necessaria illusione di unitarietà (Bromberg, 1998).

Quando questa illusione di unità è minacciata in maniera traumatica da un inevitabile, precipitoso sconvolgimento, essa diviene un ostacolo poiché [l’individuo] rischia di essere sommerso da informazioni che non può elaborare simbolicamente e trattare come uno stato di conflitto. Quando l’illusione di unità è troppo pericolosa per essere mantenuta, quello che chiamiamo compulsività e pensiero ossessivo può spesso servire per sostenere il processo dissociativo riempiendo questi “spazi”, negando persino che siano mai esistiti (Bromberg, 1993, pp. 111-112).

La dissociazione interviene allora a preservare la coerenza personale, il senso di continuità e di sanità mentale “scollegando ipnoticamente gli stati di consapevolezza incompatibili, consentendogli l’accesso solo come esperienze mentali discontinue e senza nesso sul piano cognitivo”. Il problema in questo caso è che “così facendo la cura diventa per gli individui traumatizzati anche il loro problema principale” (Bromberg, 1994, p. 196). E così, quello che in precedenza era la normale capacità dissociativa della mente, una configurazione fluida di stati del Sé multipli che rendono la persona in grado di “sentirsi uno in molti”, viene irrigidita all’interno di una struttura mentale dissociata (Bromberg, 1998, p. 16). Un “sacrificio del Sé [...] al servizio della sua conservazione” (Chefetz, Bromberg, 2004, p. 437).

L’effetto del trauma è il danneggiamento delle funzioni integrative della mente. Quello che resta è una “amnesia retroattiva” una “memoria somatica” priva di rappresentazione simbolica. Ai soggetti traumatizzati, secondo Stern (1997), rimarrebbero parti di esperienze non formulate, non espresse, perchè non hanno un contesto narrativo e un’esperienza del Sé nella quale esistere. I vasti domini di sensazioni, percezioni e pensieri associati al trauma, in attesa di essere formulati e dotati di significato, vengono mantenuti non formulati dalla dissociazione: l’esperienza non formulata riguarderebbe quindi ciò che non è stato portato alla coscienza, non ciò che è stato eliminato dalla consapevolezza, ed è per questo inaccessibile alla riflessione e non esprimibile con il linguaggio (1).

La sensazione di paura determinata dall’evento traumatico continua ad essere sentita come reale, ma viene percepita come un’aspettativa di quello che potrebbe accadere o che sta accadendo, piuttosto che di quello che è accaduto. La sensazione, per il soggetto traumatizzato, è quella di dover restare sempre “all’erta” per un pericolo che – è sicuro – si sta per presentare, piuttosto che per il ricordo di un pericolo.

E’ da questa prospettiva che Bromberg si è recentemente interessato ai sogni e al loro significato, tanto da intitolare il suo penultimo lavoro Destare il sognatore (Bromberg, 2006).

Bromberg (2006) nota che talvolta un paziente può iniziare la seduta dicendo “Non ho niente di cui parlare oggi; vorrei almeno aver fatto un sogno”. Un’affermazione che, classicamente, viene letta come una forma di resistenza, come se significasse: “Se avessi un sogno potrei evitarmi di pensare al perché non ho nulla da dire oggi”. Per Bromberg (2006) invece questa affermazione può essere letta come: “Ho voglia di raccontarle un sogno, ma non ho alcun sogno” (p. 33); come cioè la voce di uno stato del Sé dissociato che sta cercando di trovare una voce e che sta dicendo “Non ho niente di cui parlare oggi, ma forse qualcun altro dentro di me sì”.

Per questo motivo, sostiene, se il “sogno” può essere concepito come “il caso particolare più noto del più generale fenomeno della dissociazione – la normale capacità autoipnotica della mente umana – l’esperienza onirica potrebbe allora essere considerata la più comune tra le attività dissociative della mente – e la sua funzione notturna uno sforzo adattivo per gestire livelli minimi di esperienze non-me affettivamente disturbanti senza compromettere l’illusione di veglia della coscienza” (Bromberg, 2006, p. 41).

In altre parole, l’uso del sogno in analisi, ad un certo livello, viene concepito come un’esperienza transizionale che rende possibile il potenziale collegamento di stati del Sé dissociati, consentendo alle voci degli altri stati del Sé di essere ascoltate e avere accesso alla struttura dinamica che il paziente definisce “me”. “Il processo attraverso cui ha luogo tutto questo non è”, scrive Bromberg (2006, p. 41) “adeguatamente descritto dall’espressione ‘interpretazione dei sogni’”. Piuttosto, l’autore tenta di descriverlo come un graduale sviluppo di un dialogo tra lo stato del Sé di veglia del paziente-come-paziente e lo stato del Sé onirico del paziente-come-sognatore. Con questa metafora Bromberg si riferisce alla necessità, per l’analista, di indirizzarsi direttamente ai processi dissociativi che determinano il funzionamento della struttura dissociativa del paziente.

L’esplorazione del sogno del paziente, quindi, non può affidarsi esclusivamente all’interpretazione. Nella prospettiva di Bromberg (1998) l’obiettivo della cura è quello di aiutare il paziente a prendere parte e collegare i diversi aspetti di sé, favorendo così una maggior coerenza dell’esperienza di “chi egli sia”, pertanto il sogno può diventare un importante alleato: “Se accettiamo che il sognatore è dentro il suo sogno (dentro una realtà psichica a sé), non solo il nostro modo di trattare i sogni in psicoanalisi cambierà, ma tutto ciò che ha luogo tra noi e il nostro paziente sarà sperimentato diversamente, compreso il modo in cui percepiamo e usiamo transfert e controtransfert” (2006, p. 41).

Molto spesso, dice Bromberg (2006), gli analisti hanno avuto la tendenza a colludere con l’esperienza vigile che i pazienti fanno del sogno, considerandolo come qualcosa di alieno all’esperienza, qualcosa che può essere conosciuto soltanto in modo indiretto, attraverso le associazioni sul sogno ricordato.

Al contrario, secondo l’autore, se si accetta che la realtà “onirica” rappresenta un diverso stato di coscienza e che, il fatto che abbia luogo durante il sonno, non rende la sua distanza dalla realtà vigile più incolmabile di quella tra due qualsiasi stati del Sé dissociati, allora è possibile pensare che si possa sognare ed essere vigili al tempo stesso.

L’esplorazione del sogno diventa così il ricorso ad uno spazio potenziale (Winnicott, 1971) in cui ciascun membro della relazione è in grado di fare esperienza della realtà vigile dell’altro come se fosse il proprio “sogno”: “In altre parole, la soggettività del paziente, per quanto conoscibile direttamente solo dal suo autore, è, di fatto, accessibile esperenzialmente all’analista come fosse un suo sogno e viceversa, aprendo uno spazio in cui le realtà vigili di paziente e analista fanno posto ai potenziali sognatori” (Bromberg, 2006, p. 43).

Sul piano tecnico, questo significa che “quando un paziente porta un sogno in seduta, il compito dell’analista è quello di permettergli di portare in seduta il sognatore” (p. 41). Si tratta, in altre parole, di invitare il paziente a rivivere il sogno come se lo stesse sperimentando in quel momento – un invito a rientrare nel proprio spazio onirico conservando, al contempo, la sua realtà vigile.

Nella prospettiva di Bromberg (2006), il sogno, più che un racconto da comprendere, è una realtà di cui fare esperienza con la maggiore profondità possibile “come se stesse avendo luogo in questo momento” (p. 45). Il principale compito psicoanalitico; “interpretare” il sogno, si trasforma così nel tentativo di far nascere e sviluppare un dialogo tra il sé della veglia del paziente-come- paziente e il sé onirico del paziente-come-sognatore. Un metodo che sta a indicare “una moltitudine di processi attraverso cui stati del Sé fluttuanti nel paziente e nell’analista appaiono sulla scena del dialogo intersoggettivo generando, da entrambe le parti, maggiore coerenza nello stato del Sé” (ibidem, p. 24).



(1) “Solitamente pensiamo alla consapevolezza come allo stato naturale dell’esperienza. Immaginiamo che, se siamo inconsapevoli di un qualcosa, sia necessario fare qualcosa per poterne diventare consapevoli. [...] Ma che succede se capovolgiamo i termini e guardiamo alla comparsa dell’esperienza nella consapevolezza non come lo stato di cose che si verifica ‘naturalmente’, ‘da solo’, o senza intervento, ma come un evento naturale? ...Che succede se la tendenza naturale delle cose è di restare al di fuori della consapevolezza? Che succede se azione e sforzo sono richiesti non per mantenere l’esperienza fuori dalla consapevolezza, ma per portarla al suo interno?” (Stern, 1997, p. 85).

Bibliografia

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Fairbairn, W. R. D. (1952), Studi psicoanalitici sulla personalità. Bollati Boringhieri, Torino 1970.

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Khan, M. (1963), “Il concetto di trauma cumulativo”. In Khan, M. (1974), Lo spazio privato del Sé. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1979.
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Winnicott, D. W. (1971), Gioco e realtà. Armando Editore 1974.




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