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lunedì 5 gennaio 2015

Hans Christian Andersen - Il soldato e la ballerina. Quaranta novelle (XIX secolo) -


C’erano una volta venticinque soldatini tutti fratelli, perchè tutti fusi fuor dallo stesso vecchio cucchiaio di stagno. Avevano il fucile in ispalla, la divisa rossa e turchina, proprio bella, e tutti guardavano diritto dinanzi a sè. La prima cosa che udirono al mondo, quando fu tolto il coperchio della scatola, fu il grido: "Soldatini di stagno!" Chi aveva gridato così, battendo le mani, era un ragazzo, e i soldatini gli erano stati regalati per il suo natalizio. Egli li mise tutti sulla tavola: ogni soldato era identico agli altri; soltanto, per quello che era stato fuso l’ultimo, non era rimasto stagno abbastanza, e così gli era venuta una gamba sola; ma egli stava altrettanto saldo sull’unica gamba, quanto gli altri, che ne avevano due; e fu appunto questo soldatino che si distinse.
Sulla tavola, sulla quale si trovavano, c’erano molti altri balocchi; ma quello che più attirava lo sguardo era un grazioso castello di cartone. A traverso alle piccole finestre, si poteva vedere dentro, nella sala. Dinanzi al castello, certi alberelli erano piantati attorno ad un pezzettino di specchio, che doveva raffigurare un limpido lago; e sul lago nuotavano specchiandosi alcuni piccoli cigni di cera. Tutto questo era molto bellino; il più bello di tutto, però, era una piccola signora, ritta vicino al portone aperto del castello; anch’essa di cartone, ma con un vestito di velo leggerissimo, ed un sottile nastrino azzurro sulle spalle, posto a mo’ di sciarpa: nel mezzo del nastro era appuntata una stellina lucente, grande come tutto il suo viso. La signora arrotondava con grazia le braccia al di sopra del capo, perchè era una ballerina, e teneva un piede così alto, per aria, che il soldato, non vedendolo, credette che anche lei avesse una gamba sola.
"Quella mi andrebbe bene per moglie!" - pensò: "Ma è troppo aristocratica per me: abita un castello, ed io non ho che una scatola, che debbo dividere con altri ventiquattro compagni: non sarebbe casa per lei. Voglio vedere, però, se mi riesce di fare la sua conoscenza." - E si distese quant’era lungo dietro ad una tabacchiera, che stava anch’essa sulla tavola. Di lì poteva osservare comodamente la bella donnina, che non si stancava mai di starsene ritta su una gamba sola, senza mai perdere l’equilibrio.
Venuta la sera, gli altri soldatini di stagno furono riposti nella loro scatola, e quelli di casa andarono a letto. Allora i balocchi incominciarono a giocare per conto loro: un po’ facevano è arrivato l’ambasciatore, un po’ il lupo e le pecore, o la festa da ballo. I soldati strepitavano dentro alla scatola, perchè avrebbero voluto unirsi anch’essi al gioco, ma non riuscivano a sollevare il coperchio. Lo schiaccianoci faceva le tombole, e la pietra romana si sbizzarriva in mille ghirigori sulla lavagna. Fecero un chiasso tale, che il canarino si destò ed unì il suo canto all’allegria generale, ma sempre in versi però. I soli che non si mossero dal posto furono il soldatino e la ballerina. Essa rimase ritta come un cero sulla punta d’un piede, con le braccia levate al di sopra del capo; egli, altrettanto imperterrito sull’unica gamba, non le tolse un istante gli occhi di dosso.
Battè la mezzanotte, e tac!... saltò il coperchio della tabacchiera; ma non c’era tabacco dentro, c’era un diavolino nero, perchè era un balocco a sorpresa.
"Soldatino," - disse il diavolo nero: "A forza di guardare, ti consumerai gli occhi!"
Ma il soldatino fece come se non avesse udito.
"Sì, aspetta domani, caro!" - ammonì il diavolino.
Quando venne il mattino e i fanciulli si alzarono, il soldatino di stagno fu posato sul davanzale della finestra, e, fosse il diavolo nero od un colpo di vento, la finestra si spalancò a un tratto, e il soldatino precipitò dal terzo piano a capofitto nel vuoto. Fu una tombola tremenda: tese l’unica gamba all’aria, e rimase a baionetta in giù, con l’elmo fitto tra le pietre del selciato.
La domestica ed il ragazzino corsero subito giù a cercarlo; gli andarono vicino che quasi lo pestavano, e pure non riuscirono a vederlo. Se il soldatino avesse gridato: "Eccomi qui!" - l’avrebbero subito raccattato; ma, essendo in divisa, non gli parve decoroso mettersi a gridare.
Incominciò a piovere; i goccioloni, radi da prima, si fecero sempre più fitti, sin che venne un vero acquazzone. Quando spiovve, capitarono due monelli.
"Guarda, guarda!" - esclamò l’uno: "Un soldatino di stagno! Facciamolo andare a vela!"
Fecero una barchetta con un pezzo di giornale, ci misero il soldato e lo vararono nel rigagnolo della via. I due ragazzi gli correvano appresso battendo le mani. Cielo, aiutami! Che onde c’erano in quel rigagnolo e che corrente terribile! La pioggia doveva proprio esser caduta a torrenti! La barchetta di carta beccheggiava forte forte, e tal volta girava così rapidamente, che il soldato sussultava. Ma rimaneva intrepido, però, nè mutava colore; guardava sempre fisso davanti a sè e teneva il fucile in ispalla.
Improvvisamente, la barca scivolò in un tombino; e lì poi era buio pesto, come nella sua scatola.
"Dove sarò mai capitato?" - pensava: "Sì, sì, quest’è tutta opera del diavolo nero. Ah, se ci fosse qui, nella barchetta, la donnina del castello, mi sentirei tutto consolato, per buio che fosse!"
In quella, sbucò un vecchio ratto, che nel tombino aveva la sua casa.
"Hai il passaporto?" - domandò il ratto: "Fuori il passaporto!"
Ma il soldato rimase muto e si contentò di tener l’arma ancora più salda. La barchetta seguitava, e il ratto dietro. Uh! come digrignava i denti, e come gridava a tutti i fuscelli, a tutte le pagliuzze: "Fermatelo! fermatelo! Non ha pagato pedaggio, non ha presentato passaporto!"
La corrente divenne sempre più forte: il soldatino incominciava a veder chiaro già prima d’essere fuori del tombino; ma, proprio nel medesimo tempo, sentì uno scroscio tale, che avrebbe fatto tremare anche il cuore dell’uomo più valoroso. Figuratevi che il rigagnolo, appena fuori di quel passaggio, si buttava in un largo canale con un salto altrettanto pericoloso per la barchetta quanto sarebbe per noi la cascata del Niagara.
Oramai, il pericolo era così vicino, che egli non poteva più evitarlo. La barchetta precipitò; il povero soldatino si tenne ritto, alla meglio, perchè nessuno potesse dire d’averlo nemmeno veduto batter palpebra. La barca girò su se stessa tre o quattro volte, si riempì d’acqua sino all’orlo, sì ch’era sul punto di calare al fondo: il soldato era nell’acqua sino al collo, e la barca sprofondava sempre più giù, sempre più giù: la carta inzuppata era lì per isfasciarsi: già l’acqua si richiudeva sopra il capo del soldato... Egli pensò allora alla graziosa ballerina, che non avrebbe mai più riveduto, e un ritornello gli risonò agli orecchi:
Soldato, dove vai?
La morte incontrerai!
La carta si lacerò ed il soldato cadde di sotto; ma proprio in quel momento, un grosso pesce lo inghiottì.
Allora sì, che si trovò al buio davvero! Si stava ben peggio lì che nel tombino, e pigiati poi... Ma il soldato rimase imperterrito, e, anche così lungo disteso, mantenne pur sempre il fucile in ispalla.
Il pesce non si chetava un momento: correva qua e là con certi guizzi terribili; alla fine, si fermò e parve traversato come da un baleno: e allora qualcuno gridò forte: "Oh! il soldato di stagno!"
Il pesce era stato pescato, e poi portato al mercato e venduto, ed era capitato in cucina, dove la cuoca l’aveva aperto con un grande coltello.
Allora la cuoca prese il soldato con due dita a traverso il corpo e lo portò in salotto dove tutti vollero vedere quest’uomo meraviglioso, che aveva viaggiato nel ventre d’un pesce. Ma non per questo egli mise superbia: fu posto sulla tavola, e là... - Davvero che in questo mondo si dànno certi casi meravigliosi!... - Il soldatino di stagno si trovò per l’appunto nello stesso identico salotto di dov’era partito, si vide attorno gli stessi bambini, e vide sulla tavola, tra gli stessi balocchi, lo splendido castello con la bella ballerina, che se ne stava sempre ritta sulla punta di un piede ed alzava l’altro per aria, intrepida anche lei. Il nostro soldatino ne fu tanto commosso, che avrebbe pianto lacrime di stagno, se non gli fosse parso vergogna. Egli la guardò, ed essa guardò lui, ma non si dissero nulla.
A un tratto, uno dei bambini più piccini afferrò il soldato e lo gettò nella stufa, così, proprio senza un perchè al mondo. Anche di ciò doveva aver colpa il diavolo nero della scatola.
Il soldatino si trovò tutto illuminato e sentì un terribile calore: egli stesso non riusciva a distinguere se fosse il fuoco vero e proprio, o l’immenso, ardente suo amore. Non gli era rimasto più un briciolo di colore: fosse poi conseguenza del viaggio o delle emozioni nessuno avrebbe potuto dire. La ballerina lo guardava ed egli guardava lei; e si sentiva struggere, ma rimaneva imperterrito, col fucile in ispalla. In quella, una porta si spalancò; il vento investì la signorina, ed essa, volando come una silfide, andò proprio difilata nel caminetto presso il soldato: una vivida fiamma... e poi, più nulla. Il soldato si strusse sino a diventare un mucchietto informe, e il giorno dopo, quando la domestica venne a portar via la cenere, lo trovò ridotto come un cuoricino di stagno. Della bambolina non rimaneva altro che la piccola stella, ma tutta bruciata, nera come il carbone.

Traduzione dal danese di Maria Pezzè Pascolato (1903)

lunedì 24 marzo 2014

Donald W. Winnicott: stralcio da "Comunicare e non comunicare: studio su alcuni opposti" (1962) -


"Il gioco non è di fatto una questione di realtà interna, e neppure una questione di realtà esterna. Se il gioco non è né al di dentro, né al di fuori, dov'è? Fui vicino alla idea che esprimo nel mio lavoro La capacità di star da solo (1968b), in cui dissi che all'inizio il bambino è solo soltanto in presenza di qualcuno. Assistiamo all'impiego che un bambino fa di un oggetto transizionale, il primo processo di non-me e assistiamo al tempo stesso al primo uso che fa il bambino di un simbolo e la prima esperienza di gioco" (Gioco e realtà, 1971) .

"Nel corso della stesura di questo lavoro, mi sono trovato a sostenere il diritto di non comunicare. Questa era una mia intima protesta contro la spaventosa fantasia di essere sfruttato all'infinito, ovverosia contro la fantasia di essere mangiato o inghiottito, o ancora, contro la fantasia di essere scoperto.
Secondo me nella persona sana c'è un nucleo della personalità che corrisponde al vero Sè, questo nucleo non comunica mai con il mondo degli oggetti percepiti e il singolo individuo sa che esso non deve mai essere in comunicazione con la realtà esterna o influenzato da questa. Sebbene le persone sane comunichino e godano di questo comunicare, è pure vero l'altro fatto, ossia che ogni individuo è isolato, costantemente non comunicante, costantemente ignoto, di fatto non scoperto. Al centro di ogni persona c'è un elemento incomunicato, inviolabile, che è sacro e va preservato.
Il problema è: come stare isolato senza dover perciò essere distaccato? La risposta potrebbe venire dalle madri che possono comunicare con i loro piccoli solo nella misura in cui essi sono per loro oggetti soggettivi. Nel momento in cui gli infanti cominciano a percepire obiettivamente le madri, essi hanno già appreso a dominare diverse tecniche di comunicazione indiretta, la più evidente delle quali è il linguaggio. Esiste tuttavia un periodo transizionale, che mi ha particolarmente interessato, nel corso del quale si presentano oggetti e fenomeni transizionali che cominciano a fondare nel bambino l'uso dei simboli.
Secondo me, una condizione importante per lo sviluppo dell'Io sta in questa zona della comunicazione dell'individuo con fenomeni soggettivi, che sola dà la sensazione del reale. Nelle circostanze più favorevoli ha luogo l'accrescimento e il bambino possiede ora tre linee di comunicazione: la comunicazione che silenziosa per sempre, la comunicazione esplicita, indiretta e piacevole, e questa terza o intermedia forma di comunicazione che dal gioco si diffonde in esperienze culturali di ogni tipo.
La comunicazione silenziosa è legata al concetto del narcisismo primario? Le idee che siamo venuti esponendo hanno una portata pratica: esse ci suggeriscono che nel nostro lavoro dobbiamo tener conto del fatto che la non comunicazione del paziente può essere un contributo positivo, e ci impongono di chiederci se la nostra tecnica permette al paziente di comunicarci che non comunica. Il paziente può comunicare questo, solo se noi siamo pronti a cogliere il segnale con cui ce lo comunica e sappiamo distinguerlo dal segnale del disagio legato ad un'impossibilità a comunicare. In quanto stiamo dicendo c'è riferimento al concetto di essere solo in presenza di qualcuno, condizione che costituisce anzitutto un evento naturale della vita infantile e che in seguito è subordinata all'acquisizione di una  capacità di ritirarsi senza perdere l'identificazione con ciò da cui si è ritratti. Questa capacità si manifesta anche sotto forma di capacità di concentrarsi su un compito.
Ho cercato di dimostrare l'esigenza di riconoscere questo aspetto della salute: il Sè centrale non comunicante, immune per sempre dal principio di realtà, e silenzioso per sempre. Qui la comunicazione non è non-verbale; è assolutamente personale, come la musica delle sfere; essa rientra nell'esser vivo. E nello stato di salute, è da questo che sorge naturalmente la comunicazione.
La comunicazione esplicita è piacevole e implica tecniche estremamente interessanti, compreso il linguaggio. I due estremi, la comunicazione esplicita che è indiretta e la comunicazione silenziosa o personale, che fa sentire reali, hanno ciascuna il proprio costo, e nella zona culturale intermedia esiste per molti, ma non per tutti, una modalità di comunicazione che è un compromesso quanto mai prezioso".

giovedì 9 gennaio 2014

Masud Khan: l’influenza di Winnicott e la capacità di sognare





Il soggetto che sogna è l’intero soggetto. Khan, 1975, p. 50

Masud Khan, psicoanalista inglese di origine indiana, fu paziente e allievo di Ella Freeman Sharpe e di Donald Winnicott.
Tra i suoi principali contributi teorici ricordiamo il concetto di trauma cumulativo; Khan (1963) partendo dai concetti espressi da Ferenczi, Winnicott, Spitz e Bowlby, offre una prospettiva sul tema del trauma a cavallo tra la tradizione delle relazioni oggettuali inglesi e una nuova prospettiva, più francamente relazionale.
Il trauma cumulativo riguarda l’esperienza quotidiana e protratta di piccole defaillànce nelle cure materne, che generano nel bambino delle microfratture nella coesione del Sé. Tale genere di trauma non è riconoscibile come evento scatenante che è possibile isolare, ma al contrario come una serie di circostanze di distress e mancata sintonizzazione nella relazione con la madre, che appaiono fattori secondari nella valutazione dello stato di salute mentale del bambino, ma che tuttavia a lungo termine generano una situazione di frammentazione (Khan, 1963).
Nello specifico, il trauma cumulativo può caratterizzarsi per una serie di abbandoni, rifiuti, intrusioni, silenzi, mancata assoluzione delle necessità primarie del bambino di cure materne, che generano un vissuto di perdita ed inerzia e che può portare ad uno stato di alienazione.
Khan che risente dell’influsso dell’opera della Klein, nonostante sia schierato con il gruppo di mezzo degli indipendenti inglesi; indica nell’oggetto interno idoleggiato e composito un ultimo residuo della concezione kleiniana di oggetto interno.
L’oggetto composito riguarda l’introiezione di oggetti discordanti con il proprio Sé in una sorta di precoce dissociazione a partire dall’infanzia; mentre l’oggetto idoleggiato riguarda la possibilità di esteriorizzare gli aspetti discondarnti del Sé verso l’esterno mediante degli agiti perversi. Secondo Khan le perversioni sono un tentativo di autocura (Gazzillo, Silvestri, 2008).
Khan (1970) riflettendo sulla teoria freudiana elogia le scoperte del fondatore della psicoanalisi, in particolare relativamente alle sue capacità autoanalitiche e alla relazione amicale-transferale intrattenuta con l’amico Fliess. Secondo Khan, un amico è colui che consente di sperimentare vicinanza e distanza, sentimenti di ambivalenza nel processo autoconoscitivo (Gazzillo, Silvestri, 2008).
L’autore rivela le radici della sua formazione psicoanalitica riferendosi spesso
a Winnicott: “Ho incominciato a scoprire nel mio lavoro clinico con gli adulti, che questi possono servirsi dello spazio onirico esattamente nello stesso modo in cui il bambino usa lo spazio transizionale che gli offre il foglio di carta per i suoi scarabocchi” (Khan, 1972).
Nello scritto Uso e abuso del sogno nell’esperienza psichica l’autore approfondisce il tema della capacità ed incapacità di sognare, per spiegare come nel primo caso ciò consenta la creazione di uno spazio immaginativo in cui il sogno trova la possibilità di attualizzarsi; mentre nel secondo caso, di come l’incapacità di simbolizzare interferisca nella formazione del sogno. Winnicott (1971) in Gioco e realtà indica nelle personalità schizoidi – in contrapposizione con quelle caratterizzate da una più marcata impulsività – un opposto funzionamento in relazione al sogno: mentre lo schizoide cerca di “uscire dal sogno” per avvicinarsi maggiormente ai fatti della realtà esterna; le personalità impulsive al contrario, ricercano nel sogno la possibilità di entrare in maggiore contatto con il proprio mondo interno.
Khan (1972) illustra quindi come sia una caratteristica essenziale e allo stesso tempo comune, quella del momento in cui il paziente fa uno shift nel corso dell’analisi nella qualità e nell’uso dei sogni. Il sogno – secondo Khan – contiene materiale preconscio altamente descrittivo che viene represso nell’attività intrapsichica del paziente.
E’ il concetto di transfert secondo l’autore ad aver adombrato quello dell’interpretazione dei sogni; ma di fatto essi sono argomenti affini (Khan, 1972, p. 71).
Il lavoro di Khan sul sogno viene influenzato in particolare da due capitoli di Gioco e realtà (Winnicott, 1971): “Sogno, fantasia e vita reale”, e “L’uso di un oggetto ed entrare in rapporto mediante identificazioni”.
Nel volume, Winnicott presenta il caso clinico di una donna di mezz’età afflitta dal continuo tormento della fantasia o “daydreaming”. Il caso viene riportato da Winnicott (1971) come dissociazione primaria. La donna distingueva tra il vivere reale entrando in contatto con gli oggetti, e la fantasia onirica. Winnicott scrive: “tuttavia il fantasticare rimane un fenomeno isolato, che assorbe energia ma che non contribuisce né al sogno né alla vita reale. In qualche misura, il modo di fantasticare è rimasto statico per tutta la vita di questa paziente; vale a dire che esso datava dai primissimi anni, poiché il modello era già stabilito nel tempo in cui la paziente aveva due o tre anni. Ma era presente già da allora, e probabilmente aveva avuto inizio con una “cura” per farle smettere di succhiare il pollice” (p. 56).
Winnicott individua la differenza tra sogno e fantasia mediante i meccanismi difensivi che ognuno dei due processi psichici utilizza: per il primo è caratteristica la rimozione, mentre per il secondo la dissociazione. Attraverso il processo analitico, la donna riesce a guadagnare l’integrazione e le sue fantasie diventano più ancorate alla realtà. La differenza tra fantasia e stato dissociativo è molto sottile, maggiormente qualitativa che quantitava. Spiega Winnicott: 

La mia paziente è nella mia stanza per il suo trattamento ed un piccolo pezzo di cielo è accessibile alla sua vista. E’ sera. Dice: “Io sono su quelle nuvole rosa dove posso camminare”. Questo, naturalmente, potrebbe essere un volo dell’immaginazione. Potrebbe essere un modo in cui l’immaginazione arricchisce la vita, così come potrebbe essere materia per un sogno. Al tempo stesso per la mia paziente, questa cosa medesima può essere qualche cosa che appartiene ad uno stato di dissociazione e non può diventare conscio, nel senso che lì non c’è mai una persona intera per essere consapevole dei due o più stati dissociati che sono presenti ogni volta nello stesso momento. La paziente può stare seduta nella sua stanza, e pure senza fare assolutamente nulla tranne che respirare, ha (nella sua fantasia) dipinto un quadro, oppure fatto qualcosa di interessante nel suo lavoro, oppure ha fatto una passeggiata in campagna; ma dal punto di vista dell’osservatore nulla di tutto questo è accaduto. In realtà niente è probabile che accada, a causa del fatto che nello stato dissociato tante cose accadono. D’altra parte, essa può stare seduta nella sua stanza pensando al lavoro di domani e facendo programmi o pensando alle sue vacanze, e questo può essere una esplorazione immaginativa del mondo e del luogo in cui sogno e vita sono la stessa cosa. In questo
modo oscilla dallo star bene alla malattia e di nuovo allo star bene [...] Questa particolare donna ha talenti e potenzialità piuttosto eccezionali per varie forme di espressione artistica di sé, e conosce abbastanza della vita in genere e del vivere, nonchè della propria potenzialità, per riconoscere che, in termini di vita, lei sta perdendo l’autobus, e che ha sempre perduto l’autobus (quasi fin dall’inizio della sua vita). Inevitabilmente essa è una delusione per se stessa e per tutti quei parenti e amici che nutrono speranza su di lei. Essa sente, quando la gente spera in lei, che gli altri aspettano qualcosa di lei o da lei, e questo la porta a scontrarsi con la propria essenziale inadeguatezza. Tutto ciò è motivo di intensa sofferenza e di risentimento nella paziente ed è del tutto evidente che senza aiuto essa correva il rischio di suicidarsi, ciò che per lei sarebbe stato semplicemente la cosa da raggiungere più vicina all’omicidio. Quando giunge vicino all’omicidio comincia a proteggere il suo oggetto, così a quel punto ha l’impulso di uccidere se stessa e in tal modo porre fine alle proprie difficoltà mediante la propria morte e la loro cessazione. Il suicidio non porta soluzioni, soltanto la fine della lotta.
(Winnicott, 1971, pp. 57-58). 

Nel secondo capitolo citato da Khan (1972) di Gioco e realtà, l’autore indica come Winnicott fa differenza tra il relazionarsi con l’oggetto e il fare uso dell’oggetto: “Per usare un oggetto, il soggetto deve aver sviluppato una capacità di usare gli oggetti” (p. 143). Questa capacità è un’altra conseguenza della bontà dello sviluppo data dall’ambiente in cui il bambino cresce.
Tra l’uso dell’oggetto e la relazione con l’oggetto c’è uno spazio in cui il bambino avrebbe dovuto poter sperimentare l’onnipotenza. Questi fenomeni sono palesementi collegati alla realtà delle relazioni esterne, e non riguardano la semplice proiezione.
Queste idee di Winnicott sono ricondotte da Khan al modo in cui il paziente sogna in seduta.
L’autore racconta quindi il caso clinico di un paziente che nel pieno della sua analisi racconta un sogno molto lungo e complesso, di cui tuttavia riesce a ricordare sono una parte, nonostante esso occupi tutta la notte. Khan risponde al paziente chiedendogli se egli abbia effettivamente dormito durante la notte. Il paziente imbarazzato spiega che tale genere di sogni gli capitano sin dall’adolescenza lasciandogli un senso di depersonalizzazione e sfinimento.
Il paziente in realtà non dorme, piuttosto finisce in un macabro e strano stato di coscienza in cui rincorre episodi sempre più complessi del sogno rimanendo impantanato in tale processo. Si tratta – anche in questo caso – di un stato mentale dissociato in cui il paziente si rifugia per isolarsi dalla realtà circostante.
All’origine di questi episodi, il paziente associò degli incubi terrifici avuti durante l’infanzia. I traumi infantili del paziente hanno impedito la sua capacità di usare il sogno in modo maturo; ovvero come luogo in cui riporre i propri desideri e modo per preservare il sonno. Il paziente non aveva i requisiti esposti da Kahn (1962) nel precedente lavoro sulla capacità di sognare; per questo motivo egli poteva fare soltanto incubi.
Ciò che Khan (1972) vuole mettere in evidenza e ribadire rispetto al lavoro di Winnicott, è che la dissociazione può manifestarsi come uno stato onirico spaventoso e terrificante in cui il paziente si rinchiude per affrontare il trauma e per negare i suoi istinti libidici. Il paziente arriva al punto di scambiare il sogno con sé stesso, tanto che emerge sin dalle prime battute dell’analisi il racconto di un sogno che sembra “non finire mai”. L’analisi riesce quindi a porre fine a questo stato dissociativo strettamente collegato al sogno perchè, come affermato da Winnicott (1971), il paziente riesce a distinguere tra fantasia e realtà, sogno e realtà, dissociazione e realtà, riacquistando la connessione con il mondo esterno.
Il secondo argomento che Kahn discute è quello dell’attualizzazione dello 
spazio-onirico. L’analista deve essere in grado di distinguere tra il processo del sognare e lo spazio analitico in cui il sogno si attualizza. Riprendendo la definizione freudiana di sogno come appagamento di un desiderio, Khan (1972), ribadisce che il sogno è una capacità strettamente connessa alle funzioni dell’Io di usare la simbolizzazione (concetto base del freudiano lavoro onirico).
Khan illustra quindi il caso clinico di una ragazza di ventitre anni, in analisi da tre anni; descritta dall’autore come un caso che corrisponderebbe oggi alla diagnosi di disturbo borderline. La ragazza porta il seguente sogno in seduta: 

Nel mio sogno sono nella mia stanza e Peter mi sta scopando. Mi rendo conto di quello che sta accadendo e finisce. 

Khan è impressionato dall’incipit del sogno “Nel mio sogno”; esso indica uno spazio specifico del sogno. La ragazza nel corso delle associazioni fatte al sogno arriva a capire, mediante il sogno stesso, che nello spazio onirico è stato possibile per lei attualizzare l’esperienza del senso del Sé e della sua istintività che era stata, fino a poco prima agita verso l’esterno.
Il sogno è definito dunque da Kahn come un processo biologico della psiche umana che si configura come il risultato di uno sviluppo adeguato della persona, facilitato da cure ottimali e holding ambientale durante l’infanzia.
Per Khan (1972) il sogno è un nuovo spazio transizionale in cui la persona ripone i propri contenuti psichici. Se non si riesce a sviluppare tale capacità – secondo l’autore – il risultato sarà la tendenza all’acting out, così come un eccesso di senso opposto (dissociazione), porta l’individuo a chiudersi nel proprio mondo onirico, senza riuscire a rivolgere lo sguardo al mondo reale.
L’attualizzazione dei contenuti inconsci nello spazio del sogno permette una efficace elaborazione mediante l’uso della simbolizzazione.
Nell’ultimo lavoro sul sogno, Al di là dell’esperienza onirica, Khan (1975) esprime una nuova ipotesi: “bisognerebbe distinguere tra l’esperienza onirica e il significato del testo onirico che viene ricordato. La mia esperienza clinica mi ha insegnato che il sognare è un’esperienza psichica del tutto diversa da quella fornita dal testo onirico rievocabile” (pp. 48-49).
L’autore segue l’esempio di Starobinski nel saggio Hamlet et Oedipe (1970) che aveva affermato: “l’inconscio non è soltanto linguaggio, è drammaturgia”, e ribalta il concetto espresso da Pontalis (1955) “il soggetto che parla è l’intero soggetto” per affermare che “il soggetto che sogna è l’intero soggetto” (Khan, 1975, p. 50). L’autore vuole chiarire il ruolo del Sé nel sogno: 

Esiste un’esperienza onirica della quale nel testo onirico non vi è traccia; si tratta cioè di due eventi che non sono né complementari né antitetici. Nell’esperienza complessiva di sé, da parte di un individuo, possono a volte sovrapporsi, oppure restare separati e privi di rapporti. Ma non dobbiamo dimenticarci che l’esperienza onirica esiste e influenza il comportamento dell’individuo, anche quando non viene riconosciuta né descritta (con parole o con immagini); e che si deve intervenire sull’assenza di un’esperienza vissuta in una persona, senza cercare di articolarla nell’ambito del processo secondario.
(Khan, 1975, p. 52). 

Ciò che Khan intende dire è che mediante l’esperienza onirica, il paziente può esprimere parti del proprio Sé che sarebbero altrimenti irraggiungibili. Questo genere di esperienza, è in grado di arricchire la vita della persona; così come la sua assenza, al contrario, la impoverisce.

venerdì 13 dicembre 2013

Sul sentimento di vergogna


E tuttavia io lo sono,
non lo respingo mai come un’immagine estranea,
 ma mi è presente come un me che io sono senza conoscerlo[1],
perché lo scopro solo nella vergogna
(in certi casi, nell’orgo­glio).
Sono la vergogna o la fierezza
che mi rivelano lo sguardo altrui
e me stesso al limi­te dello sguardo;
che mi fanno vivere, non conoscere,
la situazione di guardato.
Sartre (1943)

Freud
Io mi rimprovero qualche cosa
– ho paura che altre persone lo sappiano
mi vergogno quindi di fronte agli altri.
Freud (1895, p. 53).

In psicoanalisi, il tema della vergogna è stato spesso trascurato in favore della maggiore attenzione rivolta alla colpa. La vergogna riferendosi sia alla morale, che al Sé, era più difficile da identificare a livello psicodinamico (Frølund, 1997).  La concezione originaria sulla vergogna, a partire da Freud offre alcuni spunti di approfondimento e riguarda perlopiù un affetto con potenzialità di difesa[2]; così come la moralità. Nella Minuta K Freud (1895) elenca tre tipi di nevrosi[3] da difesa: isteria, nevrosi ossessiva e paranoia. In tutti questi tipi di nevrosi: “la vergogna e la moralità sono le forze rimoventi (…) l’insorgere della vergogna [è connessa] con l’esperienza sessuale mediante legami (…) profondi” pp. 50-51). I diversi tipi di nevrosi, si definiscono secondo Freud, proprio in base alla modalità di esecuzione della rimozione: “la nevrosi è il negativo della perversione” ovvero della manifestazione sessuale grezza, priva di rimozione (Laplanche, Pontalis, 1967).
Freud (1895) dedica una particolare attenzione al tema della vergogna nella descrizione eziologica della nevrosi ossessiva. In questo caso, l’esperienza primaria infantile (definita anche trauma[4]) è talmente precoce da non poter essere che accompagnata da piacere, tuttavia quando questa esperienza viene richiamata alla memoria sorge l’autoaccusa (in tedesco Vorwuf, rimprovero) che genera vergogna “ovvero paura che la gente sappia” (p. 53) e rimozione. Al posto del ricordo e dell’autoaccusa, si formerà – mediante spostamento lungo catene associative – un sintomo di contrasto: ovvero “una certa sfumata scrupolosità” (Freud, 1895, p. 52). Nel 1896, ne “Le nuove osservazioni sulle neuropsicosi da difesa”, Freud si riferisce alla vergogna non solo come forza che rimuove, ma anche come risultato della difesa riuscita: “Scrupolosità, vergogna, sfiducia in sé stessi sono i sintomi con i quali comincia il terzo periodo, quello dell’apparente sanità o, più propriamente, quello della difesa riuscita” (p. 313).
Ne “L’interpretazione dei sogni, Freud (1899) parla della vergogna descrivendo tra i sogni tipici, il “sogno di imbarazzo per la propria nudità”. Esso riguarda un desiderio esibizionistico proibito, che nel sogno trova soddisfacimento, ma che proprio per essere giunto a trovare una rappresentazione crea anche la sensazione penosa della vergogna. “Il contesto nel quale tali sogni si presentano in soggetti nevrotici, nel corso delle mie analisi, non lascia (…) alcun dubbio sull’esistenza alla base del sogno, di un ricordo della primissima infanzia. Soltanto nella nostra infanzia è esistito un periodo in cui eravamo visti seminudi (…) e non ci vergognavamo della nostra nudità (…). Questa infanzia che non conosce vergogna appare più tardi al nostro sguardo retrospettivo come un paradiso, e il paradiso stesso non è altro che la fantasia collettiva dell’infanzia del singolo. Ecco perché anche in paradiso gli uomini sono nudi e non si vergognano l’uno di fronte all’altro, finché giunge un momento in cui la vergogna e l’angoscia si destano, avviene la cacciata, cominciano la vita sessuale e il lavoro della civiltà” (pp. 227-228). L’esibizionismo ha a che fare con una rappresentazione di sé del soggetto che si pensa osservato dall’altro. L’Io diviene pensabile in quanto guardato dall’altro, ovvero esposto agli sguardi dell’altro. Anche questa concezione classica sembra un’impronta che si può adattare sia al modello relazionale, che alla teoria di Kohut della psicologia del Sé.
In “Lutto e melanconia” (1917), Freud afferma che il melanconico, manca di vergogna: “Il senso di vergogna di fronte agli altri (…) manca nel melanconico, o quanto meno non è appariscente. Si potrebbe mettere in rilievo nel melanconico la caratteristica opposta di un assillante bisogno di comunicare che trova soddisfacimento nel mettere a nudo il proprio Io. Non è dunque essenziale stabilire se il melanconico nel suo autodenigrarsi, abbia ragione, nel senso che la sua critica converge con il giudizio degli altri (…) Ha perduto il rispetto di sé e certamente per un buon motivo (…) L’analogia con il lutto ci induce a concludere che il melanconico ha subito una perdita che riguarda l’oggetto, da ciò che egli dichiara risulta invece una perdita che riguarda il suo Io” (p. 106).
Freud (1933) considera l’origine della vergogna non nella paura bensì nel senso di inadeguatezza: “Shame, which is considered to be a feminine characteristic par excellence but is far more a matter of convention than might be supposed, has as its purpose, we believe, concealment of genital deficiency. We are not forgetting that at a later time shame takes on other functions” (p. 132). Dunque la vergogna per Freud ha una duplice valenza: sia di meccanismo di difesa, che affetto e sintomo, e riguarda un fenomeno che coinvolge “gli altri che osservano”.
Ferenczi
Il ritiro dell’amore e il fatto di essere completamente soli
con la propria esigenza d’amore
di fronte a una maggioranza compatta e schiacciante
provocano nei bambini cosiddetti normali
la vergogna e la rimozione (nevrosi)
Ferenczi (1921, p. 257)

Uno sguardo al passato, rispetto al tema della vergogna, risulta proficuo rivolgendosi alla concezione di Ferenczi di mutua analisi. Essa può essere – almeno in parte secondo Kilborne (1998) – considerata una reazione rispetto alla vergogna dell’autore nei confronti del rifiuto da parte di Freud di accoglierlo come analizzando. Ferenczi cercava un analista che non indulgesse nella “confusione delle lingue”[5]. Ferenczi scrisse infatti che la sua stessa analisi non proseguì abbastanza a fondo a causa di motivazioni narcisistiche del suo analista, ovvero per “la sua ferma determinazione ad essere sano, e per la sua antipatia verso ogni debolezza e anormalità (…) introdusse la fase “educativa” troppo presto”. Ferenczi scrisse questa critica a Freud in data 1 Maggio 1932 del suo diario, commentando che dalla sua scoperta Freud non amava più i suoi pazienti, bensì era tornato all’amore del suo ben organizzato e coltivato Super Io (un’ulteriore prova della sua antipatia per psicotici, pervertiti e ogni cosa in generale “troppo anormale”). Il modello terapeutico di Freud, secondo Ferenczi stava diventando più interessato all’ordine, carattere e rimpiazzo di un cattivo superio con uno migliore, e stava diventando pedagogico. Poiché Freud non era disposto ad ammettere errori, Ferenczi, sensibile alla vergogna e alla ferita narcisistica, scrisse a proposito del bisogno dell’analista di ammettere debolezze ed esperienze traumatiche. Queste ammissioni, secondo Ferenczi, hanno l’effetto di ridurre e abolire la distanza e il senso di inferiorità del paziente. Significativamente il 21 Luglio 1932, dopo aver declinato l’offerta di presidenza dell’International Psychoanalytical Association (21 Agosto 1932), marcando irrevocabilmente la sua rottura con Freud, Ferenczi scrisse un lavoro “On feeling of shame” nel suo Diario clinico: “Così si comportano gli adulti, quando proiettano sui bambini la loro passionalità, ed è quanto anche noi, analisti, abbiamo fatto presentando le nostre distorsioni sessuali imposte ai bamini come teorie sessuali infantili”. Tre giorni dopo, il 27 Agosto 1932, Freud scrisse a Eitingon che “il rifiuto di Ferenczi è un’azione nevrotica di ostilità verso il padre e i fratelli, per mantenere il piacere regressivo di svolgere il ruolo di madre verso i propri pazienti”. L’approccio di Ferenczi, rigettato infine da parte di Freud, conteneva in germe molte delle più recenti considerazioni in ambito psicoanalitico. La concezione di self disclosure o di parità tra paziente e analista della psicoanalisi relazionale, così come la concezione dei meccanismi di scissione e dissociazione derivanti da un evento traumatico, nonché l’origine della psicopatologia da ricercare nella relazione madre bambino, piuttosto che nella sessualità infantile, fanno tutte capo al lavoro innovativo e lungimirante di Ferenczi. Egli si interrogava sull’autenticità dell’esperienza affettiva in analisi sia per il paziente che per l’analista, credendo che solo l’amore autentico potesse avere un valore riparativo e terapeutico[6] (Ciocca, 2003).
Winnicott
Non sarebbe tremendo
se il bambino guardasse nello specchio
e non vedesse niente?
Paziente citato da Winnicott, (1967, p.136)

Dagli albori della psicoanalisi fino agli anni 50, il tema della vergogna passa in secondo piano. E’ Winnicott, nella sua descrizione dello sviluppo del bambino in relazione alla madre a riportare l’attenzione sull’importanza dell’essere riconosciuti come soggetti nella propria unicità, da un altro significativo e soprattutto “reale[7]“. Winnicott (1967) parla del ruolo di specchio svolto dalla madre, come colei che permette al bambino di vedere se stesso (Mollon, 2002). La madre sufficientemente buona[8] (Winnicott, 1952, p. 88) è in grado di adattarsi ai bisogni del bambino creando un’illusione di onnipotenza che getterà le basi per lo sviluppo sano. L’esperienza del Sé del bambino si basa infatti sul principio “sono veduto, quindi esisto”. L’emergere del Sé sano – Vero Sé – rappresenta la realizzazione di un potenziale che viene alla luce grazie ai gesti creativi del bambino e può essere compromesso da fattori ambientali. Nel Falso Sé infatti la madre non riesce a comprendere il bambino attraverso i suoi gesti ed egli sarà obbligato ad un’accondiscendenza estranea al suo vero Sé finendo per imitare l’ambiente e rassegnandosi ad abbandonare i gesti creativi ponendo così le basi per un senso di sé basato su sentimenti di vulnerabilità, vergogna, estraniamento, irrealtà.

Kohut

The struggle of the patient who suffers from a narcissistic personality disorder to reassemble himself, the despair—the guiltless despair, I stress, of those who in late middle age discover that the basic patterns of their self as laid down in their nuclear ambitions and ideals have not been realized... This is the time of utter hopelessness for some, of utter lethargy, of that depression without guilt and self-directed aggression, which overtakes those who feel that they have failed and cannot remedy the failure in the time and with the energies still at their disposal.
The suicides of this period are not the expression of a punitive superego, but a remedial act—the wish to wipe out the unbearable sense of mortification and nameless shame imposed by the ultimate recognition of a failure of all-encompassing magnitude
Kohut (1977) citato da Morrison (1983)

L’approccio di Kohut al narcisismo ha consentito di rivalutare il ruolo della vergogna nella teoria psicoanalitica, tanto da meritare successivamente la definizione di Broucek (1982) “shame is to self-psychology what anxiety is to ego psychology – the keystone affect” (p. 369). Il lavoro di Kohut segna un primo passo nel cambiamento definitivo del paradigma psicoanalitico verso le relazioni oggettuali, anche se il suo inserimento all’interno delle teorie definite come tali, è controversa (Greenberg, Mitchell, 1983). L’attenzione alla condizione “psicotica” – narcisistica e borderline – precedentemente ritenuta difficilmente trattabile, viene reinterpretata da Kohut (1959) come struttura di personalità fortemente connotata da un deficit nel senso del Sé. Questo tipo di condizione, è caratterizzata da forti bisogni di dipendenza; una dipendenza che non è manifestazione di una fissazione orale come erroneamente concepito da Freud (1905), bensì di un bisogno concreto di appoggio che si manifesta chiaramente nel transfert. Kohut (1959) riconosce pertanto che le dinamiche di transfert non riguardano soltanto una ripetizione del passato, ma anche la necessità del paziente di un oggetto-sé in grado di sostenere i suoi bisogni relativi soprattutto alla possibilità di essere visto da un Altro, ad es. il terapeuta, per poter raggiungere un senso di stabilità (Kohut, 1971).  
Nel modello dello sviluppo kohutiano, i genitori fungono da oggetto-sé. Il compito principale dell’oggetto-sé è quello di svolgere una funzione speculare, ovvero fornire risposte empatiche che permettono il dispiegarsi dell’esibizionismo e della grandiosità del bambino. Il bambino in questo modo è in grado di elaborare il proprio Sé grandioso (2-4 anni) ovvero la sua iniziale onnipotenza (Kohut, 1966). Mediante l’idealizzazione dell’immagine parentale (imago parentale idealizzata) il bambino ricava (interiorizzazione trasmutante) un senso di uguaglianza al genitore forte e potente, cosiché è consentita la formazione dell’ideale dell’Io. La frustrazione adeguata alla fase di sviluppo permette di elaborare, in modo graduale, l’iniziale onnipotenza del bambino e di interiorizzare la funzione speculare dell’oggetto-sé (ovvero la sua modalità relazionale) ed il senso di essere uguale ad un ideale, consentendo la formazione del Sé nucleare. Tra i 4 e i 6 anni il bambino potrà procedere all’elaborazione del Sé bipolare – costituito dall’ideale dell’Io ricavato dagli oggetti-sé idealizzabili e dalle ambizioni realistiche, ciò che realmente si è in grado di fare – ovverosia il senso di avere delle risorse e delle intenzioni. Agendo in questo modo, il genitore rende possibile al bambino vivere l’esperienza dell’individualità (Kohut, 1971).
Quando invece i genitori falliscono nel loro ruolo di oggetto-sé si genera l’angoscia di disintegrazione (Kohut, 1977); ovvero una minaccia al proprio senso di identità. Il Sé grandioso viene scisso – dando origine al senso di vanagloria, orgoglio, arroganza – oppure rimosso – dando luogo a sentimenti di impoverimento (Self depletion), bassa autostima, vergogna, depressione (Kohut, 1971). Ne deriva un disturbo narcisistico in quanto il Sé grandioso non può essere neutralizzato poichè non ha ricevuto sufficiente rispecchiamento (Kohut, 1972, 1977).
L’incontro tra il bisogno del paziente e la funzione rappresentata dal rapporto affettivo del terapeuta oggetto-Sé, diventa quindi un’unità primaria nello sviluppo psichico. Kohut (1971) teorizzerà a tale proposito tre tipi di transfert di oggetto-sé: speculare, idealizzante e gemellare.
Kohut (1971) nota come le specifiche esperienze patologiche del narcisismo cadono nello spettro che va dall’ansia grandiosa e dall’eccitamento da una parte, al mite imbarazzo e consapevolezza di sé o estrema vergogna, ipocondria e depressione dall’altra (p. 200). Similarmente, come definizione della depressione, Kohut (1977) parla di una depressione “senza colpa”, definita dal fallimento a raggiungere ambizioni e ideali, che può essere considerata una sostituta della vergogna. Di fatto colpa e vergogna sembrano correlare tra loro, ed è possibile distinguere manifestazioni depressive caratterizzate da colpa, o manifestazioni depressive caratterizzate da vergogna. A seconda se predomina la perdita o l’aggressività, o il fallimento nel vivere un ideale. Inoltre, è messo in evidenza come la vergogna e il conflitto predominano spesso nei suicidi portati a termine. Kohut (1977) parla di una tremenda hopelessness, o letargia, di quelle depressioni senza colpa e autodirette, che sovrastano quelli che sentono di aver fallito e non possono rimediare, con energie ancora a loro disposizione. Il suicidio in questo caso non è un’espressione di un superio punitivo, ma un atto di rimedio, per scacciare il senso soverchiante di mortificazione e vergogna senza nome imposta dal riconoscimento del fallimento di grandezza onnicomprensiva.
Pertanto Kohut (1971, p. 181) non riconosce la vergogna come dovuta al confronto con un ideale dell’Io, bensì all’esibizionismo “costituzionale” del Sé non neutralizzato (Morrison, 1984).
I disturbi del Sé possono essere differenziati, secondo Morrison (1984) in primari e secondari, i disturbi secondari riguardano la reazione “acuta e cronica” di un sé consolidato alle esperienze dell’infanzia, dell’adolescenza e della maturità che implicano un sé sufficientemente coeso, mentre nei disturbi primari la
la vergogna non ha lo spazio necessario ad emergere, in quanto il sé non è in grado di registrare tale sentimento poiché sovrastato dal carico del panico e della diffusione dei confini (p. 83). Secondo Morrison (1984), l’antidoto alla vergogna riguarda l’accettazione. Nel trattamento psicoanalitico dei pazienti depressi, è necessario non trascurare la rabbia narcisistica che deriva esattamente dalla mancanza di consapevolezza riguardo il senso di vuoto e fallimento dovuto agli obiettivi non conseguiti del Sé grandioso, che rendono il Sé non accettabile.

La concezione di Kohut (1972) di rabbia narcisistica, riguarda infatti in maniera complementare la vergogna: l’Uomo Tragico è colui che non è in grado di riconoscere sé stesso, in quanto soffre di un vuoto che risulta dal mancato rispecchiamento ricevuto dall’ambiente. Ciò causa una vulnerabilità primaria alla rabbia, in quanto la persona stessa è drammaticamente incapace di riconoscere chi è; parafrasando la citazione di Winnicott (1967), “non trova sé stesso”. 


Schema dell’approccio terapeutico secondo Kohut (1971).


La vergogna sperimentata come evento relazionale può attivare difese molto rigide, come il diniego, la dissociazione e la costruzione di strategie protettive come “i rifugi della mente” (Steiner 1993), utili a preservare il sé da sentimenti di impotenza, abbandono e vergogna. Queste difese, se non riconosciute, possono impedire sia la comunicazione, sia la simbolizzazione dell’esperienza traumatica stessa nella forma di un linguaggio comunicabile. La dissociazione può presentarsi sottoforma di “scissione verticale”[9] così come indicato da Kohut (1971), in cui è possibile osservare due rappresentazioni del sé distinte; una di tipo maniacale, l’altra di tipo depressivo con relativi sentimenti di autosvalutazione e vergogna, che possono portare nei casi estremi al suicidio. 
Broucek
It is important to distinguish between
shame stress,
the narcissistic affect shame,
and the process which regulates this affect,
 shame regulation.
Broucek (1982)
Broucek (1982) ha studiato la vergogna e le sue connessioni con lo sviluppo narcisistico. Secondo l’autore “significant shame experiences may occur in the first one and a half years of life” (p. 372); e riguardano in essenza lo sviluppo del senso di sé. Broucek considera indici di una risposta di vergogna la postura, come ad es. il capo chino o l’allontanamento dello sguardo dei bambini il cui intento non è riuscito mentre un loro interesse era stato attivato. Broucek (1991) respinge l’ipotesi di una barriera innata per gli affetti di eccitazione o di gioia, citando casi in cui l’eccitazione o la gioia vengono interrotti, mentre sorge la vergogna. La proposta di Broucek è che queste prime fonti di vergogna o senso di colpa sono il risultato delle esperienze del bambino d’inefficacia interpersonale. In questo modo Broucek lega lo sviluppo positivo del senso di sé all’efficacia, in particolare nelle relazioni interpersonali, mentre la vergogna emerge quando si verificano degli errori. Secondo Broucek (1982) la vergogna emerge quando il contatto con la madre si interrompe:  
[I]n the infant’s contacts with mother at those moments when mother becomes a stranger to her infant. This happens when the infant is disappointed in his excited expectation that certain communicative and interactional behavior will be forthcoming in response to his communicative readiness ... shame arises from a disturbance of recognition, producing familiar responses to an unfamiliar person, as long as we understand the “different” mother to be the unfamiliar person. That a mother (even a “good enough” mother) can be a stranger to her own infant at times is not really surprising since the mother’s moods, preoccupations, conflicts and defences will disturb her physiognomy and at times alter her established communication patterns [p. 370].
L’autore afferma che la vergogna è l’esperienza affettiva di base di dispiacere e dolore psichico associata con i disturbi del narcisismo. La “Nameless shame” di Kohut (1977), ha origine nel periodo sensomotorio e nonverbale, quando sia la componente dell’ideale dell’Io che il Superio sono operativi. La colpa emerge solo nel periodo verbale, che riguarda lo sviluppo della coscienza e l’interiorizzazione dei valori morali. La vergogna inoltre secondo l’autore è intimamente connessa alla sessualità; egli ipotizza che la vergogna è una fonte primaria d’inibizione, che limita la forza della vita erotica. Al contrario di Freud, tuttavia, Broucek afferma che non è la civiltà che si è sviluppata intorno alla possibilità di inibire il desiderio sessuale, ma sono i vincoli innati della sessualità con la vergogna ad aver svolto un ruolo fondamentale nella costruzione della civiltà. A sostegno di questa ipotesi afferma che l’aumento dell’incidenza della depressione, insieme al diffuso senso di disperazione, riguarda la sensazione che la vita ha perso significato, e ciò è riconducibile alle violazioni della funzione di protezione che deriva dalla vergogna nel garantire ad esempio all’individuo psichicamente ancora immaturo, come un adolescente, di essere coinvolto in un livello di intimità fisica maggiore di quanto sia psicologicamente preparato a gestire. Un interessante concetto esposto da Broucek (1991) è quello di oggettivazione: i bambini diventano consapevoli che sono oggetto di controllo sia degli altri che di se stessi. Secondo Broucek questa esperienza frantuma la relazionalità con caregivers che il bambino aveva precedentemente dato per scontata. I bambini diventano così in grado di distinguere tra le esperienze in cui la loro soggettività viene rispettata, e quelle in cui vengono trattati soprattutto come “oggetti”. Essere trattati senza considerazione verso i propri sentimenti e interessi può assumere molte forme, tra cui la vergogna. La vergogna verrà da quel momento in poi attivata quindi ogni volta che i bambini saranno trattati come oggetti, e soprattutto quando sperano o si aspettano di ottenere uno scambio soggettivo. Secondo Broucek (1991) per tutta la vita sperimentiamo momenti in cui “esistiamo con l’altro in un campo di esperienza affettiva condivisa e in sovrapposizione di coscienza” e momenti di 'coscienza disgiuntiva', in cui c’è un godimento reciproco come meri oggetti” (p. 46). “Nello stato di improvvisa, non cercata, o indesiderata auto-oggettivazione l’esperienza immediata di un individuo di realtà dell’essere può essere persa, con conseguente vergogna e trasformazione del mondo interpersonale e fenomenale come disorientante. In quei momenti il mondo può sembrare in pericolo di collasso ... e di conseguenza, in una sorta di vertigine” (p. 40).
Broucek (1991) propone quindi che l’esperienza della vergogna di sentirsi un mero “oggetto” possa essere una fonte di derealizzazione, depersonalizzazione, e la frammentazione del senso di Sé coeso; questa concezione è stata definita da Lichtenberg (1994) un importante contributo alla comprensione degli stati traumatici.
Dal punto di vista della situazione analitica, Broucek (1991) afferma che un certo grado di oggettivazione del paziente avviene sempre quando si legge il suo comportamento alla luce di una teoria, e ciò rischia di mettere il paziente nella condizione di provare vergogna (p. 101). D’altra parte l’uso del lettino in analisi consente di ridurre al minimo la possibilità che il paziente provi vergogna, ma bisogna anche considerare il rischio che ciò si traduca in una manchevolezza nell’analisi di tale aspetto del paziente (p. 86).

Thrane
I am ashamed of what I am.
Shame therefore realizes an intimate relation of myself to myself.
Through shame I have discovered an aspect of my being
Sartre (1943, p. 221).

The guilty person focuses on the act;
 a man ashamed, on himself.
A man who is ashamed
is ashamed of what he is.
Thrane (1979)

Secondo Thrane (1979), non è un caso che gli adolescenti siano particolarmente inclini alla vergogna: essa, è strettamente connessa all’identità. Per l’adolescente, l’obbedienza agli ammonimenti dei genitori assume il significato di essere all’altezza degli ideali degli adulti.
La vergogna consta, secondo l’autore di due aspetti: uno è personale, ovvero relativo agli ideali di sé – come ad esempio la forma del proprio corpo; definito dall’autore “l’oggetto primordiale della vergogna”–, mentre l’altro riguarda l’aspetto sociale. In questo caso la vergogna riguarda gli altri: in particolare “essere di fronte agli altri”. Ad esempio, arrossire o sudare sono risposte sociali alla vergogna, così come il desiderio di non essere visibili agli altri può essere tale da suicidarsi. La vergogna è vissuta come un colpo all’immagine di sé, mentre la colpa riguarda un senso di “aver preso più di quanto sia giustamente proprio”. Mentre nella vergogna si cerca il segreto, nella colpa si cerca la confessione. Il colpevole si concentra sul gesto, un uomo che prova vergogna, su se stesso.
Un antidoto alla vergogna è l’umorismo: coloro che sono in grado di ridere di se stessi si sentono superiori alle loro debolezze e mancanze, e la vergogna viene pertanto dissipata. Ciò che cambia secondo Thrane (1979) è il senso di essere attivi rispetto a tale sensazione: “Il clown che fa ridere gli altri di se stesso non si sente umiliato, poiché è egli stesso ad averli fatti ridere “ (Piers, 1953 p. 42).
Citando Walsh (1970) Thrane afferma che una fonte importante di vergogna o orgoglio riguarda le origini, le istituzioni di cui si fa parte, la cultura e le persone associate allo sviluppo in quanto esse definiscono considerevolmente l’identità dell’individuo.
La vergogna dipende infatti dai processi di identificazione, così come suggerito anche da Erikson nel modello dello sviluppo dell’identità (1950). Tuttavia solo alcune identificazioni possono essere scelte, infatti quelle più importanti come ad esempio quelle infantili o inconsce, non vengono scelte.
La vergogna inoltre è relativa agli ideali. Per vergognarsi è necessario sentire che si è privi di valore, spregevoli invece che ammirevoli, perdere l’autostima e l’amore di sé, allontanarsi da sé stessi con disgusto, e aspettarsi che gli altri facciano altrettanto, temere i loro sguardi di disprezzo, e desiderare di essere invisibile.
In tal senso mentre la vergogna è orientata all’esterno, il senso di colpa è orientato internamente. La vergogna implica un pubblico, anche se solo nella fantasia. Tale esperienza diventa condivisibile solo dopo che si è superata attraverso un riadattamento di ideali, o dell’umore. Ma ciò che si cerca non è il perdono, bensì l’accettazione che diventa una conferma della propria identità.
La vergogna a quel punto diventa una responsabilità dell’individuo in quanto ha in precedenza svolto un ruolo di protezione nei confronti dell’identità; nel momento in cui era in atto una costruzione amorevole di sé.
Secondo Thrane (1979), il paziente arriva in analisi insoddisfatto della sua identità, tale vergogna circa il suo essere produce migliori potenzialità di cambiamento. La vergogna, come afferma anche Kohut manca soltanto in presenza di un sé completamente disintegrato, in quanto relativo ai disturbi primari del Sé.
La stessa intrusione del terapeuta nel regno privato del sé, può indurre nel paziente molta vergogna. Il transfert di idealizzazione e identificazione può essere utilizzato come un modo per scongiurare la vergogna.
Thrane inoltre considera la vergogna dell’analista una protezione della propria integrità psichica riguardo all’osservazione del mondo privato del paziente: tale vergogna riguarda il riconoscimento che il paziente è qualcun altro e non un semplice oggetto di tecnica. In questo modo il senso di  vergogna dell’analista, produce l’ideale di riservatezza come una certezza evidente, invece che come un’esternazione imbarazzante imposta da considerazioni di prudenza. La pratica della psicoterapia è un mestiere solitario in molti modi e pertanto il senso di vergogna è sicuramente una causa parziale di solitudine; tuttavia afferma Thrane, il terapeuta che non prova vergogna per i suoi pazienti potrebbe perdersi nel mondo privato dei suoi “casi”. L’aiuto di altri colleghi diventa una costellazione narcisistica di pezzi di un puzzle, pertanto il senso di vergogna dell’analista è un riconoscimento dell’alterità irrevocabile e della naturale dignità del paziente.

Amati Sas
 
Da uno studio sistematico sulla vergogna, l’autrice Amati Sas (1992) percorre come via d’unione alle differenti teorie sul tema, quello dell’ambiguità. Ciò è dovuto principalmente al fatto che le teorie degli autori incrociate, non corrispondono tra loro, a maggior ragione con gli esempi che vengono riportati. Tuttavia differenti approcci teorici messi insieme consentono una visione unitaria sul tema.
L’esperienza clinica dell’autrice riguarda soprattutto il lavoro con pazienti che riportano eventi traumatici importanti. Elementi di vergogna emergono chiaramente in questo tipo di pazienti che combattono con sentimenti di alienazione e conflitto (Amati Sas, 1989). Bettelheim (1943) ha notato che una persona esposta a condizioni estreme si comporta in un modo che essa stessa non approva. La persona rimane con differenti immagini di sé che corrispondono a contesti diversi e non possono essere introdotti in un unico registro.
In queste situazioni, l’elaborazione della vergogna presuppone la capacità di accettare la sfida di scoprire molteplici varianti della propria immagine a seconda delle circostanze, e il placare il conflitto interno che ne deriva, così come  la continua necessità di ristabilire la propria continuità e coerenza, cioè il senso della propria identità.
L’ambiguità è caratterizzata dalla possibilità di adattamento, malleabilità, permeabilità e non conflittualità all’interno della personalità.
La parte più dipendente della personalità diventa particolarmente evidente nelle circostanze in cui una persona esposta a condizioni estreme sente di aver perso la sua continuità. In queste circostanze traumatiche, gli aspetti ambigui della personalità − i residui dell’indifferenziazione primaria (di solito scissi, proiettati e depositati nel quadro stabile degli oggetti esterni), invadono l’Io più maturo, integrato e differenziato. Questa regressione all’ambiguità corrisponde a quello che Winnicott chiama 'fear of breakdown’, Anna Freud ‘fear of surrender’ e Masud Khan ‘dread of resourceless dependance’. Essa è vissuta dalle vittime di situazioni estreme come un cambiamento, una nuova verità’, in cui, inaspettatamente devono ‘adattarsi e familiarizzare con qualsiasi cosa(Amati Sas, 1985).
La vergogna può essere facilmente definita come una sensibilità propria del campo narcisistico’, relativa ai legami simbiotici che si accompagnano sempre alle relazioni oggettuali.
Per comprendere la vergogna, è importante notare la reciprocità del legame simbiotico, in cui ognuno è il potenziale depositario di ansie e incertezze altrui. Il legame simbiotico, che è mutuo e tacito, comporta la capacità di essere il depositario dell’ambiguità di un altro.
Quando si è nella posizione dell’oggetto ausiliario, ci si assume la responsabilità per la propria ambivalenza verso gli aspetti ambigui dell’altro (ciò è particolarmente evidente nella posizione dello psicoanalista).
Vergogna e ambiguità possono essere pertanto connesse. Quando l’ambiguità predomina nella personalità, non si manifesta la vergogna. Tuttavia, se il senso di vergogna diventa troppo angosciante, il soggetto può difendersi contro di essa diventando indefinito o confuso.
Nel momento in cui emerge la vergogna, l’Io può essere spinto a intraprendere un lavoro di conoscenza e simbolizzazione, perché è costretto a funzionare’, al fine di recuperare l’equilibrio perduto nel suo senso di continuità e coerenza. In questi casi si può ricorrere a un intervento preventivo (gesti o comportamenti), oppure si può intraprendere uno sforzo più complesso di rappresentazione e simbolizzazione, inducendolo mediante un diverso registro. Nei casi di vergogna catastrofica che travolge il senso di continuità del sé, è necessario un periodo di elaborazione e contestualizzazione’ più lungo; un maggiore sforzo per recuperare i propri punti di riferimento interni ed esterni (come si può osservare nel processo terapeutico dei superstiti).

[1] L’essere per altri non è una relazione oggettiva, conoscitiva, tra me e l’altro, ma una relazione d’essere, che si coglie immedia­tamente negli stati o affetti psicologici come la vergogna.
[2] La difesa è definita da Freud (1895): “un’avversione a dirigere l’energia psichica in modo da produrre dispiacere” (p. 49).
[3] Ricordiamo che Freud suddivise le nevrosi in attuali (derivanti da disfunzione somatica sessuale) e psiconevrosi (relative a un conflitto). La nevrosi narcisistica ad esempio, figura tra le psiconevrosi, ovvero tra le patologie più vicine alla psicosi che alla nevrosi. In tal senso questa classificazione verrà poi accolta significativamente da Kohut (1959) per mettere in evidenza il diverso ambito d’azione per la psicoanalisi quando essa riguarda un paziente nevrotico o psicotico.
[4] Negli “Studi sull’isteria” (1892-95) Freud fornisce una definizione di trauma psichico come “qualsiasi esperienza provochi gli affetti penosi del terrore, dell’angoscia, della vergogna, del dolore psichico” (p. 177).
[5]La confusione delle lingue tra l’adulto e il bambino. Il linguaggio della tenerezza e della passione”, lavoro presentato al Congresso di Wiesbaden dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale.
[6]Elasticità della tecnica psicoanalitica” (1928).
[7] Gli indipendenti inglesi hanno definito il bambino come un essere programmato per ottenere un’interazione armoniosa e uno sviluppo non traumatico, che può incorrere in cure genitoriali inadeguate (Mitchell e Black, 1995): “Bowlby citava come una pietra miliare nel sorgere della sua linea di pensiero indipendente il momento in cui si alzò con aria di sfida per affermare nel mezzo di una di queste discussioni: “Ma le cattive madri esistono davvero” (p. 140). Tale espressione segnò lo sviluppo delle teorie inglesi postkleiniane.
[8] Lettera a Money Kyrle.

[9] I concetti di scissione orizzontale e verticale in Kohut (1971) riguardano nel primo caso una rimozione del nutrimento narcisistico proveniente da determinate fonti;  mentre nel secondo caso dalla negazione completa di un intero aspetto della realtà psichica del soggetto dal Sé centrale (p. 176; p. 195). Il compito dell’analista è quello di abolire entrambe le barriere.

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