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giovedì 22 dicembre 2022

Studio sul disgusto come regolatore dello stato del Sé, valori, principi e istinto di allontanamento

Freud (1899) osservò che in alcuni casi di nevrosi che non erano strutturalmente ossessivi, emergeva un nucleo isterico (cioè di esternalizzazione, o manifestazione sintomatica attraverso il corpo). Alcuni soggetti per esempio si mostravano disgustati dai bisogni fisici, e dalla sessualità in particolare: "che schifo dottore"; "mi fa vomitare". Freud riconobbe questo tipo di comportamento nel caso di Dora. In Dora il disgusto prendeva il posto del desiderio e Freud si interroga sulle motivazioni profonde e inconsce di questo atteggiamento. Il disgusto, concluse, appare allora come segno dell'avversione ad accogliere un desiderio, di cui il soggetto isterico diventa testimone. Il corpo diviene il mezzo e il veicolo attraverso il quale viene elaborato un trauma di origine sessuale; così afferma agli albori della prima topica. Ne "Il disagio della civiltà", Freud (1929) elevò il disgusto a forma di dignità nella condizione umana, una forma di resistenza che impedirebbe l'accesso alla soddsfazione: "A volte sembra di percepire che non è solo la pressione della civiltà, ma qualcosa nella natura stessa della sua funzione a negarci la piena soddisfazione e a spingerci verso altre strade". E spiega ulteriormente le ragioni di questa resistenza in una nota: "la funzione sessuale è accompagnata da una resistenza che non può essere ulteriormente spiegata, e che impedisce la completa soddisfazione costringendo ad allontanarci dalla meta, per dirigerci verso sublimazioni e spostamenti libidici". L'emozione del disgusto è stata descritta da Darwin Ekman (1972) tra le emozioni fondamentali, insieme a rabbia, tristezza, felicità, paura e sorpresa. Il disgusto emerge nei momenti in cui siamo immersi in un contesto intersoggettivo nel quale c'è una grossa frattura, ovverosia una discrepanza pressocchè incolmabile tra valori, opinioni, modalità comportamentali e di pensiero, tali che valicano i limiti di ciò che riteniamo accettabile, consono, sintonico e degno. Nel termometro omeostatico dell'equilibrio narcisistico (inteso in senso ancora non clinico, come stima di sè in noce) il disgusto svolge una funzione importante, segnalandoci una necessità imperativa di allontanamento, il fatto che siamo immersi in un sistema diverso (Altro) da noi, sbagliato, potenzialmente danneggiante e pericoloso, nel caso in cui un danno non è già, di fatti, ricevuto. Nel linguaggio non verbale la reazione immediata all'emozione del disgusto è quella ad esempio, di alzare le mani in segno di difesa, come a protezione del Sè. Procedendo in senso inverso al contrario del disgusto troviamo infatti proprio il desiderio, la stima, l'apprezzamento, la sintonizzazione, il bisogno di vicinanza e connessione, il legame e il dialogo. Tutti elementi che promuovono la possibilità della crescita dell'interazione in questione. Leggendo la dinamica del disgusto in termini di regolazione affettiva possiamo far risalire il disgusto a tutte quelle interazioni legate all'ambito dell'ansia e dell'intrusività, le reazione automatiche di allontanamento e difesa, che cercano di comunicare all'altro nella relazione l'inappropriatezza della comunicazione proposta. In senso verbale, come in senso non verbale tale interazione può altrettanto essere disturbante, causando quindi tipi di reazioni analoghe: la necessità di una cesura, una chiusura, un blocco, un allontanamento. Che indicatori sono questi in senso clinico? Tutte le volte che abbiamo a che fare con queste emozioni ci troviamo in un territorio nel quale la mente ci segnala la necessità di difesa, il bisogno di riparazione e il rischio pervasivo di un trauma importante perlomeno (nella migliore ipotesi) in senso relazionale, paura, pericolo incombente. Bibliografia Ekman, P. (1972). Le differenze universali e culturali nelle espressioni delle emozioni Freud, S.,(1899) L'Interpretazione dei sogni Freud, S., (1929) Il disagio della civiltà

lunedì 31 agosto 2020

Disturbi alimentari: origine e elaborazione della metafora del sintomo in psicoterapia

 

 Dalla pagina Instagram: @disturbialimentari_mentecorpo

L'organizzazione psicofisiologica, é estremamente influenzata dalla regolazione degli affetti (Beebe et al., 1992; Beebe, Lachmann, Jaffe, 1997), e ha un enorme impatto sulla nostra vita a più livelli. Alcuni studi longitudinali sulle rappresentazioni materne in gravidanza hanno dimostrato che é possibile anticipare eventuali esiti psicopatologici sin dalle prime battute, ovverosia già dal rapporto rappresentazionale che la madre stabilisce con il bambino quando é ancora in utero. Il modo in cui bambino viene pensato, infatti, avrà già una prima influenza sul successivo rapporto reale. Altrettanto dopo la nascita, le primissime interazioni possono essere altamente informative rispetto agli esiti adulti. Una madre responsiva e sensibile ai bisogni del bambino sarà in grado di fornirgli aspettative positive sulla possibilità di essere amato e accolto in senso ampio nei suoi bisogni. Nel corso dei primi mesi la psiche si forgia attraverso l'accudimento e il soddisfacimento dei bisogni fisiologici. La gestione dell'alimentazione, dalle poppate al passaggio all'alimentazione solida é un paradigma essenziale di osservazione per la comprensione di come la psiche del bambino potrà insediarsi nel corpo. Il contenimento materno dei bisogni e il rispecchiamento del bambino come essere umano individuale determinerà in maniera decisiva il modo in cui il bambino organizzerà se stesso a livello psicologico nel mondo da adulto (Winnicott, 1945, 1965, 1971). Si può affermare dunque che i disturbi dell'alimentazione molto spesso hanno la loro origine esattamente qui, ovverosia nei modi in cui da neonati abbiamo appreso ad organizzarci rispetto ai bisogni fisiologici e all'ambiente dal caregiver di riferimento.

Diversi studi (Pignatelli et al. 2016) hanno confermato la prevalenza di un vissuto di trascuratezza infantile legato a un esito DCA in età adulta. La trascuratezza o negligenza si manifesta spesso in maniera meno evidente rispetto agli abusi ma può avere esiti cumulativi devastanti principalmente per lo sviluppo dell'identità nucleare, un tema strettamente inerente ai disturbi alimentari: dove c'è il sintomo alimentare possiamo trovare anche una descrizione della personalità e della sua formazione, il più delle volte unica e peculiare cioè che riflette la storia psicologica personale dell'individuo. "Per alcuni è addirittura sconosciuta persino l'esistenza di figure che accudiscano e aiutino; per altri è stato costantemente incerto il luogo dove tali figure potessero trovarsi. Per molti di più la probabilità che una figura che li accudiva reagisse aiutandoli è stata nella migliore delle ipotesi incerta, e nella peggiore nulla. Non vi è da sorprendersi se questi individui, una volta diventati adulti non credono alla possibilità che esista mai una figura veramente disponibile e fidata che si curi di loro. Ai loro occhi il mondo appare sconsolato e imprevedibile; ed essi reagiscono evitandolo e lottando contro di esso" (Bowlby 1973, La separazione dalla madre). I bambini trascurati sopravvivono come adulti con un senso di identità, valore di sè e senso di sicurezza fragile.

Non si tratta solo del cibo: poiché i Disturbi del Comportamento Alimentare sono una malattia psicologica, essi si innescano in un ambiente che favorisce l'instabilità emotiva e ne costituisce una metafora (simbolo). Ecco perché spesso risulta  fallimentare la decisione di semplicemente "smettere" (qualsiasi siano i sintomi); ciò di cui c'è bisogno è curare l'aspetto  emotivo, vale a dire le emozioni non regolate alla base di tutta la manipolazione del cibo. Questa è la prima e più importante cosa da sapere e ricordare sui disturbi alimentari per capire cosa sta succedendo e perché non si riesce a controllarlo. Spesso si cercano soluzioni rapide o semplicemente un nuovo piano dietetico. La psicoterapia aiuta a sciogliere i nodi degli stretti meccanismi di coping che sono stati costruiti emotivamente dal momento dell'insorgenza del disturbo intorno alle proprie metafore. Non esistono infatti soluzioni rapide per i disturbi alimentari, come d'altra parte per tutti gli altri tipi di disturbo psicologico. L'unica fretta che si dovrebbe avere è quella di imparare nuove modalità più salutari di gestire e quindi regolare le emozioni. Questa é possibilità sempre presente in una relazione terapeutica sicura.

Le complicanze fisiche più frequentemente associate ai disturbi alimentari sono quelle cardiovascolari, gastrointestinali e muscolo-scheletrico. Proprio poiché una delle caratteristiche più importanti dei DCA riguarda la scissione mente corpo, il sintomo psicologico viene gestito ed espresso attraverso il soma. Spesso insieme alla dismorfofobia, é presente una scarsa capacità di prendersi cura di sè in senso ampio (spesso associata al neglect infantile), con rigidità e inflessibilità nel giudizio negativo su di sè. I sintomi fisici dunque risultano paradossalmente come subordinati alla sofferenza e al dolore psicologico che in quel momento occupano la vita dell'individuo nella sua interezza, come uno schermo che la attraversa e che prende tutto lo spazio del pensiero. La vita verrà organizzata intorno alla gestione del sintomo perché il sintomo é anche un modo di distrarsi dal dolore e ne costituisce un simbolo. Le complicanze fisiche che si aggravano con il progredire del disturbo vengono poi perlopiù sottovalutate perché il sintomo é funzionale al mantenimento di un equilibrio generale e si inquadrano nell'ambito di una mancanza di cure generalizzata per cui quasi diventano "l'ultimo dei problemi". Per questo motivo insieme al supporto medico é indispensabile una figura psicoterapeutica di riferimento, che spesso potrà coordinarsi in un lavoro congiunto con il nutrizionista e le altre figure che si occupano di stabilizzare la salute del paziente. La richiesta di aiuto é fondamentale ed è il primo modo della persona per interrompere il meccanismo di base di gestione problematica della sofferenza. È il modo sano, diverso di poter dire: "Io mi prendo cura di me oggi, oggi mi prendo cura di me davvero, faccio qualcosa per me e non contro di me".

Le nostre emozioni sono parte integrante del comportamento alimentare. Da sempre il cibo é associato all'idea del conforto e della cura. Quando questi elementi mancano nella nostra vita, il bisogno affettivo può essere esternalizzato in una concretizzazione mediante il cibo del simbolo originario (quello che manca). In questo senso simbolo e metafora sono particolarmente pregnanti per i disturbi alimentari. L'organizzazione del sintomo infatti sarà strettamente correlata al vissuto personale di mancanza. Attorno alla mancanza ci si potrà organizzare con un rifiuto, una protesta, una ribellione, una domanda, una sfida. In linea generale la battaglia del sintomo vuole essere giocata in un rapporto ma finisce per diventare un discorso solitario che ammala la persona. Per questo motivo é necessario un rapporto terapeutico tale che fornendo una lente nuova per osservare insieme il sintomo possa abbracciare e riformulare i significati personali che si stanno mettendo in gioco e che rimangono incastrati nella loro ripetizione. Rispetto al sintomo infatti non é sufficiente una comprensione razionale, la terapia deve agire come una goccia che scava nella pietra delle convinzioni acquisite nelle relazioni passate in tutti gli anni trascorsi, e ripetute nel presente da relazioni traumatiche o che ripetono adattamenti disfunzionali
 
La guarigione avviene nell'ambito relazionale (si sperimenta, non si capisce). La comprensione razionale dura il tempo di questa lettura. La comprensione emotiva modifica le azioni e lo stile di vita perché ha cambiato il modo in cui ci sentiamo con gli altri (le azioni sono diverse perché é cambiato il sentimento e di conseguenza il pensiero, non viceversa). Il sintomo alimentare invece é vissuto tutto in solitudine. La mente isolata é una mente solitamente affaticata, stanca, che tende ad ammalarsi di impoverimento (la fame controllata, gestita, o incontrollabile, su cui ci si ossessiona è data dal vuoto e ciò che sta a indicare) e governa in questa maniera il cibo, così come le relazioni interpersonali.


martedì 31 dicembre 2019

Il caso Marilyn Monroe e la responsabilità terapeutica


Only parts of us will ever
touch only parts of others —
one’s own truth is just that really — one’s own truth.
We can only share the part that is understood by within another’s knowing acceptable to
the other — therefore so one
is for most part alone.
As it is meant to be in
evidently in nature — at best though perhaps it could make
our understanding seek
another’s loneliness out.

'Fragments: Poems, Intimate Notes, Letters' by Marilyn Monroe


Nel testo "Il caso Marilyn Monroe e altri disastri della psicoanalisi" (Mecacci, 2000) si prendono in esame alcuni aspetti critici della disciplina psicoanalitica dai suoi albori ai giorni nostri. Il caso di Marilyn Monroe viene osservato per primo. Nel testo si vuole evidenziare la natura di inadeguatezza delle cure ricevute dai vari analisti nella loro pratica. 
Una delle paure più grandi di cui soffriva l'attrice era quella dell’abbandono. Marilyn passò da una famiglia adottiva all'altra dopo essere stata lasciata in orfanotrofio dalla madre. Non avendo avuto nessuno accanto a cui poter fare riferimento sin da bambina, fu in analisi per molti anni e cercò nei matrimoni la stabilità che le era mancata all'origine. Si dice che portasse sempre con sé un'immagine Lincoln, non avendo nemmeno mai conosciuto l'identità del padre: "La maggior parte delle persone può ammirare suo padre, ma io non ne ho mai avuto uno. Ho bisogno di qualcuno da ammirare. Mio padre é Abraham Lincoln…Intendo dire che penso a Lincoln come a mio padre. Lui é saggio e gentile e buono. È il mio ideale, Lincoln. Lo amo". 
Marilyn fu una donna dalla straordinaria intelligenza e sensibilità. A dispetto del quadro scarsamente empatico di lei dipinto da Mecacci, (forse dovuto anche a fini di sensazionalismo, che contrariamente a quanto l'autore afferma di voler fare all'inizio del libro, non manca affatto) Marilyn ebbe un successo planetario e incancellabile proprio in virtù della sua natura indomabile, libera e provocatoria. 

Marilyn inziò l'analisi sotto suggerimento della sua insegnante di recitazione con Margaret Herz Hoenberg, poi Anna Freud, quindi Marianne Rie Kris, Ralph Greeson e infine Milton Wexler. Fu trattata con un lavoro analitico di stampo classico alternato al manicomio, dosi massicce di farmaci e la camicia di forza. Non ho dubbi che l'attrice abbia fallito il suo trattamento!

"Anna Freud sottopone Marilyn al gioco delle biglie di vetro... Marilyn sta davanti a lei e deve muovere, in base a come le sposterà, Anna darà la sua interpretazione. (Marilyn) sposta le biglie una dopo l'altra nella direzione di Anna che può quindi diagnosticare un 'desiderio di contatto sessuale'... Anna Freud sintetizza così la diagnosi: emotivamente instabile, fortemente impulsiva, bisognosa di continue approvazioni da parte del mondo esterno; non sopporta la solitudine, tende a deprimermi di fronte ai rifiuti; paranoide con tratti schizofrenici"

Immagino che alleanza terapeutica potesse esserci tra le due donne! Difatti Marilyn paga cospicuamente Anna Freud per congedarla; vuole cambiare analista. La nuova terapeuta Kris però non é in grado di fare di meglio e la rinchiude in manicomio. Greeson la imbottisce di farmaci e la introduce ai suoi familiari. Entrambi gli ultimi due terapeuti si alternano tra loro e vengono infine rimpiazzati a causa di spostamenti geografici  di lavoro (a volte della paziente, a volte il loro). Ecco uno stralcio della lettera di Marilyn dal suo ricovero:

"Descrivendo le violenze psichiche e fisiche che aveva subìto (Marilyn), notava come i medici fossero interessati ai pazienti solo in quanto i loro disturbi trovavano un riscontro a ciò che avevano letto sui libri, e non perché vedevano in loro degli esseri umani sofferenti". 

Mecacci sottolinea il coinvolgimento di Greenson nella vita quotidiana con Marilyn, l'alternarsi con la terapeuta newyorchese Kris, i legami che i vari terapeuti avevano tra di loro e con Marilyn. 
È fuori di dubbio che uno sconfinamento dalle norme del setting fosse chiaro. Ma cosa ha fatto realmente e definitivamente fallire il trattamento, quando Marilyn fu trovata morta il 4 Agosto 1962? Nel testo ci si perde in una ricostruzione complottistica su un probabile coinvolgimento di Greenson con, addirittura, gli interessi sovietici. 
Queste affermazioni sembrano più adatte a quelle di una rivista di gossip o di una biografia romanzata che a un testo divulgativo di discussione sulla psicoanalisi. D'altra parte il peggio che si possa fare con la psicoanalisi é il gossip e la caricatura, e Mecacci non fallisce in nessuna delle due imprese. 

Più probabilmente quello che é mancato a questi analisti é stata una capacità di spogliarsi delle vesti di dottori per diventare terapeuti, proprio come esprime Marilyn nella sua lettera. È nelle parole di Marilyn sul suo ricovero, e nel costante aumentare delle dosi degli psicofarmaci somministratole che si denota tutta l'impotenza e l'incapacità di comprensione dei suoi analisti nei suoi confronti mentre avanzano le loro interpretazioni da manuale. Ancora una volta si conferma come sia la verità del paziente la bussola più importante da seguire per orientarsi. 

Il perseguire una verità storica in un processo psicoanalitico é assimilabile al rincorrere un'utopia. La verità ha il volto di chi la racconta. Questo é ancora più vero  nel caso di un paziente. La sua verità é tutto ciò che conta, perché é il modo in cui la storia é stata vissuta e ha lasciato una traccia in lei/lui a diventare la materia del lavoro da gestire e che vale la pena di ascoltare profondamente e indipendentemente da altri fattori. Questo é particolarmente importante perché il paziente é il centro del lavoro e con cognizione dei limiti é necessario, mediante l'uso della consapevolezza, spogliare il campo di altre futili attribuzioni più spesso appartenenti all'analista e spesso sottovalutate, del modo in cui lei/lui sperimenta la storia e le conferme alle proprie idee teoriche e impostazioni personali di vita. In definitiva dunque la prova ineluttabile del successo di un trattamento non sta nelle valutazioni pedisseque dei test di personalità, ma molto più semplicemente e infallibilmente nelle affermazioni del paziente sul lavoro svolto.

A proposito della responsabilità terapeutica, tanto quanto é importante rimanere costantemente critici sul lavoro del terapeuta, é importante considerare quanto essa sia bilaterale. L'impegno profuso nel lavoro deve riguardare infatti anche il paziente, nello specifico quando é in grado di comprendere che l'inizio di un lavoro non implica una posizione passiva da parte sua e di risoluzione magica per il terapeuta, al contrario richiede l'attivazione di risorse proprie che saranno stimolate dal lavoro congiunto e una partecipazione attiva.

Fortunatamente oggi la psicoanalisi non segue più l'impostazione classica. Soprattutto si é aperta insieme alla psichiatria più illuminata, al dominio delle neuroscienze impegnate nel coinvolgimento della filosofia e della fenomenologia nell'osservazione dell'esperienza mettendo al centro anche la soggettività dell'analista che non è più lasciato "fuori dal campo di osservazione". Ciò non significa che non ci saranno più errori, ma che oggi abbiamo più strumenti per uscire dalle empasse e comprendere il paziente; per avvicinarci alla sua esperienza con scopi di testimonianza e integrazione dell'esperienza. Oggi sappiamo che un farmaco non salva da solo un paziente per quanto grave. È soltanto un aiuto, che insieme a quello di una rete di elementi congiunti e congruenti di protezione, può risollevare poco alla volta la vita del paziente cresciuto in un contesto emotivamente disregolante e invivibile, che é stato appreso e confermato per decenni nel corso della sua storia.

Mecacci, L. (2000) Marilyn Monroe e altri disastri della psicoanalisi. LaTerza Edizioni.

domenica 15 novembre 2015

Il sogno come attività organizzatrice dell’esperienza - James Fosshage


 
Immagine tratta da: https://psychoanalyticdialoguesblog.wordpress.com/2015/07/30/by-joan-sarnat-standing-up-for-negative-feelings-in-psychoanalytic-supervision/comment-page-1/#comment-17


James Fosshage (1983, 1993, 1997; Fosshage, Loew, 1987; Lichtenberg, Lachmann, Fosshaghe, 1996) è l’autore post-kohutiano che più si è occupato di raccogliere l’eredità lasciata da Kohut sul tema del sogno, ampliando ed espandendo la teoria della psicologia del Sé sulla funzione e significato dei fenomeni onirici e integrando ai risultati della ricerca psicoanalitica quelli delle neuroscienze e degli studi cognitivi. 
 In particolare, se la psicologia del Sé di Kohut ha ipotizzato che il sogno è un fenomeno mentale molto più complesso, ovvero che assolve a diverse funzioni rispetto a quanto originariamente teorizzato da Freud, Fosshage ha sistematizzato e descritto dettagliatamente quali sono le diverse funzioni del sogno. 
 Per Fosshage (1983) “i sogni continuano gli sforzi consci e inconsci della veglia per risolvere i conflitti intrapsichici, attraverso l’utilizzazione di processi difensivi, attraverso una comprensione interna o attraverso una riorganizzazione creativa appena emergente” (p. 658). 

Il sogno rappresenta pertanto un processo di pensiero complesso, che si svolge durante il sonno, e la cui funzione centrale è l’elaborazione dell’informazione attraverso due modalità cognitive: la modalità del processo primario, immaginativa e dominata dai sensi; e la modalità del processo secondario, fondata su un piano verbale (Fosshage, 1997).
Queste due forme di elaborazione comparirebbero nel sogno sotto forma di immagini sensoriali e di parole dette (e non dette). Se le parole sono poste in modo logico e coerente per dare forma al significato cognitivo del sogno, le immagini sono poste in ordine sequenziale per esprimere un significato e favorire così un’elaborazione affettivo-cognitiva (Fosshage, 1983).
Queste immagini, sostiene Fosshage (1987), verrebbero scelte non per celare qualcosa, ma per favorire e promuovere gli sforzi del sognatore di elaborare e risolvere i problemi della vita quotidiana.

Il contenuto di un sogno, quindi, non viene più inteso come un mascheramento di un desiderio al fine di proteggere il sonno. Messi da parte la teoria freudiana pulsionale e il punto di vista energetico, Fosshage sostiene che i sogni – attraverso affetti, metafore e temi – rivelano direttamente le preoccupazioni immediate del sognatore (Fosshage, 1997).
La natura ambigua e caotica del sogno, dunque, non è spiegata attraverso il processo di mascheramento, ma dalla concomitanza di diversi fattori, tra cui il cattivo ricordo del sogno; l’intrinseca mancanza di chiarezza dell’attività mentale onirica; la difficoltà nel capire il significato delle immagini in una prospettiva vigile e la necessità di trovare una corrispondenza appropriata tra i due diversi stati mentali – onirico e della veglia (Fosshage, 1997).
Le immagini del sogno verrebbero scelte quindi non per celare qualcosa, ma perché costituiscono il miglior linguaggio iconografico di cui la persona che sogna dispone in quel momento.

La comprensione delle tematiche e delle metafore di un sogno richiede, secondo Fosshage (1994), delle associazioni da parte del sognatore. Tuttavia le immagini e gli scenari del sogno devono essere valutati clinicamente per quello che, metaforicamente, rivelano e non per ciò che nascondono. Non assumere che le immagini oniriche dell’oggetto siano proiezioni del Sé del sognatore, consente di avere accesso alle immagini che il sognatore ha degli altri, del Sé-con-altri e di altre importanti configurazioni relazionali. 
Il significato del sogno, può essere molteplice, proprio come l’attività mentale della veglia. Un sogno, quindi, può rappresentare un pensiero relativamente semplice (per es., recarsi al lavoro o svolgere altri compiti quotidiani), senza significati ulteriori. Oppure può, con le sue immagini, fornire una raffigurazione completa della vita del sognatore, tra cui traumi, cambiamenti importanti e condizioni di vita (Fosshage, 1989)1

“Piuttosto che chiedere ripetutamente al paziente di associare i singoli elementi del sogno”, scrive Fosshage (1989) “che tende a interrompere e frammentare l’esperienza del sogno da parte del sognatore, noi dobbiamo comprendere in senso globale la serie di immagini come se fossero le parole di una frase e il dramma complessivo del sogno come se si trattasse di frasi che formano una storia” (p. 5). Questa nozione rappresenta una radicale divergenza con il modello classico e, clinicamente, libera analista e paziente dal peso e dal compito (spesso fallimentare) di dover scovare l’importante significato latente di ogni sogno. 

Sulla base di queste premesse, in anni più recenti Fosshage (Lichtenberg, Lachmman, Fosshage, 1996) ha integrato i suoi sforzi di sistematizzazione con il modello multimotivazionale elaborato da Lichtenberg (1989), descrivendo un vero e proprio “Modello organizzativo del sogno”.
Centrale in questo modello è l’idea che tutta l’esperienza onirica si organizzi: 1) in congiunzione con il contesto esterno che ha avuto un impatto percettivo (per es., una strada fredda, un film visto la sera precedente etc.); 2) in risposta al sistema motivazionale dominante e/o in conflitto; e 3) in accordo con delle configurazioni organizzative, basate sulle esperienze passate del paziente, che sono state attivate. 

All’interno di questa cornice il sogno assume una duplice funzione: facilitare lo sviluppo e mantenere e reintegrare il Sé. La funzione evolutiva del sogno è una delle funzioni del sogno maggiormente sottolineata dalla psicologia del Sé (Paparo, Pancheri, 1999).
Al pari dell’attività vigile, l’attività onirica viene concettualizzata come lo sforzo di contribuire allo sviluppo dell’organizzazione psicologica creando, o consolidando, delle nuove soluzioni (Fosshage, 1983) e consentendo di raggiungere nuove prospettive, rappresentando nuovi modelli di comportamento. 

La signora D. 
 
Come esempio di funzione evolutiva del sogno l’autore riporta il sogno della signora D., una giovane donna, piacevole e attraente che aveva iniziato il trattamento a causa di sintomi d’insonnia, depressione e angoscia.
Quando iniziò il trattamento, la signora D. si sentiva profondamente insicura. Tentava di compensare la sua insicurezza lavorando molte ore e mostrandosi molto compiacente nei confronti delle richieste dei suoi colleghi di studio maschi. Durante l’analisi ricevette la proposta di entrare in un gruppo di lavoro specializzato composto da tre uomini che avevano lasciato il precedente studio per lavorare in proprio.
La signora D. si sentiva molto lusingata dall’offerta, ma anche molto esitante e incerta: “Suo padre aveva soffocato le proprie ambizioni e la metteva in guardia nei confronti del rischio di lasciare un lavoro “sicuro” [...] la signora D. si angosciava all’idea che i suoi vecchi soci potessero offendersi e che la società potesse fallire” (Lichtenberg, Lachmann, Fosshage, 1996, p. 179).
In questa fase dell’analisi, la paziente riportò il seguente sogno: 

Era in una stanza, in piedi in fondo a un tavolo operatorio. Il suo analista era in fondo dal lato opposto. Sul tavolo c’era un bambino piccolo. La cosa strana era che il bambino stava per avere un bambino. Il suo analista cambiava la posizione al bambino, che ora non guardava più verso l’analista ma verso di lei. Dal bambino usciva una donna pienamente matura (ibidem, pp. 179-180). 

Così commentano il sogno gli autori: 

La signora D. pensava che la donna matura rappresentasse lei stessa che prendeva posto nella nuova società. L’analista le fece una domanda sul cambiare posto al bambino. Lei disse che questo era il suo modo [dell’analista] per dirle che era lei, e non lui, che doveva fare un cambiamento allontanandosi dalla precedente aspettativa che, mosso dalle sue suppliche da brava bambina, l’analista avrebbe rimesso a posto le cose. Sapeva che la sua passività e il suo evitamento erano infantili e che il sogno le stava dicendo che doveva diventare adulta. Il sogno l’aiutò ad acquisire una nuova visione delle sue capacità di consolidare il proprio senso di sé come “donna pienamente matura”. (Lichtenberg, Lachmann, Fosshage, 1996, p. 180). 

La funzione del sogno di mantenimento e reintegrazione del Sé deriva direttamente nel concetto kohutiano di sogni sullo stato del Sé (Kohut, 1977). Da questa prospettiva, gli obiettivi dell’attività onirica sono considerati come rivolti, di fronte ad una minaccia di frammentazione o disintegrazione del Sé, a restaurare un senso di sé positivo e coeso.
Centrale in questi sogni è la regolazione degli affetti (Fosshage, 1997). Ad esempio, se in un occasione il paziente sente di non essere riuscito a manifestare la propria rabbia verso una minaccia percepita durante il giorno, può tentare di ristabilire un equilibrio attraverso un sogno. Questo è uno sforzo di regolazione degli affetti e di restaurare l’equilibrio del Sé.
Tuttavia, aggiunge Fosshage (1996), va tenuto conto del fatto che la funzione di restaurare un’organizzazione psicologica non sempre segue un movimento “verso la salute”. Al contrario, un sogno – così come accade durante la veglia – può tentare di ristabilire un modello organizzativo della mente familiare ma problematico.
Un sogno può cioè servire per riaffermare una vecchia visione negativa, più familiare e quindi meno ansiogena del Sé come inadeguato, ripristinando così un minimo di equilibrio psicologico.
In senso più ampio: “Quando sogniamo, usiamo e mettiamo in luce i nostri modelli primari di organizzazione del nostro mondo. Il sognare, come l’attività di pensiero che si svolge durante la veglia, può servire a mantenere o trasformare questi modelli” (ibidem, p. 181).
In questo caso, le immagini di sé, dell’altro e di sé-con-l’altro sono dipinti nelle immagini oniriche come legati tra loro, e lotte e conflitti relazionali possono affiorare e trovare – o non trovare – una soluzione. 

Secondo Fosshage (1996): “La storia [del sogno] implica drammaticamente una lotta relazionale con l’altro che, pieno di rabbia nei suoi confronti, tenta di dominarla sessualmente, un tema ripetitivo nella sua vita familiare. I suoi primi tentativi di affermare se stessa falliscono. E quindi, riprendendosi, trova il coraggio e la forza di urlare a gran voce, in cerca di aiuto dalle persone della stanza accanto – un’immagine di altri soccorevoli e un modo di vedere se stessa come più forte, potente e capace di difendersi” (p. 181). 


In breve, l’approccio all’analisi dei sogni proposto da Fosshage, si basa su una lettura fenomenologica rivolta a convalidare l’esperienza del sognatore, rafforzando la sua convizione sul suo significato. In questo modo si promuove nel paziente la possibilità di poter far affidamento sulla propria esperienza, piuttosto che sulla rilettura interpretativa fornita dall’analista per comprendere il significato del sogno cosicché l’integrità e la coesione del Sé vengano facilitate. 

Un esempio, particolarmente significativo di questo processo ci viene offerto da un caso clinico descritto dall’autore: 

[...]presento un sogno che ritrae gli stati interiori in cambiamento del sognatore. La sognatrice, una donna che aveva allora trentanove anni, era molto intelligente ed era molto dotata nel pensiero per immagini. Era stata cresciuta come “bambina modello” e aveva dovuto congelare una gran parte della sua vita affettiva come risposta sia a due genitori di successo ed estremamente intrusivi (che le avevano già predestinato un rigido programma di vita) che ad alcuni episodi di abuso sessuale attuati da suo fratello e da un vicino. Al momento più acuto di un collasso nervoso con intensi terrori paranoici ed idee suicidarie, era stata ricoverata per un mese, dietro sua richiesta, per potersi confrontare con i suoi terrori in una situazione più contenuta e quindi più sicura. 

Il sogno venne presentato in tre parti. 

I. Un villaggio che si estende in alto e in basso sul fianco di una collina. La collina non ha un fianco ripido ma dolce e graduale, come fosse femminile. È inverno. Guardo in basso verso il villaggio come se fosse il plastico di un trenino. Ci sono gruppi di case vicine, nella neve. Guardo i tetti; sembrano vecchi libri in pelle appollaiati su ogni casa. Ci sono rotaie del treno che passano, zigzagando attraverso il villaggio, unificandolo e creando connessioni, facendone un tutto. Ci sono verdi foreste di conifere, strade, piazze, sentieri di campagna nascosti sotto la neve. Il paesaggio è calmo, pacifico, assai bello. So che io sono il villaggio e allo stesso tempo mi libro sopra di esso. È il paesaggio di me stessa. 

II. Una sensazione di paura. Vengo riempita da quella specie di terrore che mi ha mandato all’ospedale. È enorme, soverchiante, impossibile da gestire. È su tutta me, lo sento sulla mia pelle e dentro di me. Sono paralizzata dalla paura. Una paura antica, familiare. Il villaggio entra in uno stato in cui l’animazione viene sospesa. È gelato e immobile; non c'è alcun movimento. La me stessa che è il villaggio smette di sentire. Ho la sensazione familiare di una paura seguita da un’assenza di sentimenti. 

III. Il tempo è passato, come nel racconto della storia di Rip Van Winkle. Sembra come se fossero passati venti anni (ma so che è passato ancor più tempo). Il villaggio è rimasto in uno stato di animazione sospesa. Per tutto questo tempo sono vissuta senza sentimenti. Ed ecco arriva il disgelo; il villaggio torna alla vita. I cottage sono nello stesso posto ma sembra come se fossero stati spostati in nuove località. La relazione tra le rotaie del treno, il villaggio e i cottage sembra la stessa quando la guardo dall'alto, ma la «me» che è nel panorama si sente diversa. Sono disorientata ma non spaventata. Sono grata del fatto che il sonno gelido sia finito. Ci sono ghiaccioli che si stanno sciogliendo sotto le grondaie dei cottage e la luce cade con un’inclinazione diversa sul paesaggio. Al momento della fine del sogno sono soltanto nel paesaggio e non più sopra di esso. Sto trovando la mia strada attraverso territori non familiari. Il disgelo ha fatto sì che degli appezzamenti di terra siano apparsi da sotto la neve. Il paesaggio non è più incontaminato come era all’inizio del sogno (quando era un modello... una bambina modello), ma io mi sento ben radicata in esso; è molto più reale e pieno di vitalità.
Questo sogno ci parla. Ci narra la storia drammatica di una trasformazione psicologica in corso. Il sonno ventennale di Rip Van WinkIe era cominciato quando la sognatrice aveva diciannove anni, alle soglie dell'età adulta, per dirla con le sue parole, quando aveva incontrato il primo marito. Cresciuta come una bambina modello, era graziosa e femminile ed aveva raggiunto una certa pace interiore ma al costo di essere “gelida” e distante dalla sua stessa esperienza (“So che sono il villaggio ed allo stesso tempo mi libro sopra di esso”). Nell’analisi la paziente aveva ricominciato a prendere contatto con le emozioni, aveva incontrato il terrore e si era congelata per fermarlo. Poi gradualmente, man mano che aveva cominciato a comprendere ed a farsi strada attraverso la sua paura, aveva cominciato a sciogliere il suo gelo, ad esser più pienamente “all’interno” della sua esperienza, e a diventare più viva e vitale. La sognatrice, in una pregnante immaginazione onirica, è in grado di cogliere sentimenti, stati del sé e trasformazioni, ed è in grado di valutare e consolidare ulteriormente questi cambiamenti interiori.
(Fosshage, 2005, pp. 71-72).


1 Questa ipotesi è confermata, indirettamente, dagli studi sul sonno. Diverse ricerche (per una rassegna si veda: Lichtenberg, Lachmann, Fosshage, 1996) hanno mostrato come i sogni REM sono dominati da immagini legate a scenari più tipicamente affettivi. Invece, i sogni che si verificano negli stati non-REM sono dominati da processi secondari del pensiero, e quindi più vicini all’attività mentale che si svolge durante la veglia.

venerdì 7 marzo 2014

Identità in adolescenza e comportamenti a rischio



Immagine tratta dal film "Christiane F. - Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino" (in tedesco Wir Kinder vom Bahnhof Zoo) Al concerto di David Bowie, insieme a due amici, Pollo e Bernd, Christiane decide di sniffare eroina per la prima volta. Ha 13 anni. Il film è tratto dalla vera storia di Christiane Vera Felscherinow.


Nel corso del ciclo di vita l’individuo sperimenta momenti di continuità e cambiamento volti a  favorire il processo di costruzione dell’identità. Tale sviluppo avviene per stadi. Ogni stadio è caratterizzato da uno specifico compito evolutivo che potrà produrre un esito positivo o negativo, a seconda di come verrà gestito. Durante l’adolescenza l’identità inizia a stabilirsi nel momento di crisi normativa, caratterizzato solitamente da un certo grado di confusione che, una volta risolta, lascerà il posto all’identità nucleare definita (Erickson, 1982).

Adolescenza e trasgressione sono dunque intimamente legate: per crescere un adolescente deve sfidare e mettere in discussione le regole che gli adulti gli hanno insegnato; per poterle fare proprie, modificarle o rifiutarle. Le norme si configurano come abitudini impartite dai genitori sin dall’infanzia nel corso delle interazioni volte alla regolazione degli stati fisiologici di fame/sonno/attivazione/interazione (Stern, 1985). Con la crescita la regolazione dello stato fisiologico si estende all’area del comportamento sociale e l’adulto trasmette, a questo punto anche verbalmente, delle regole di condotta. In ogni sistema regolamentare, sono impliciti ideali e valori di appartenenza ad un gruppo sociale: l’etica.

Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad un incremento del tasso di disagio nei minori di 18 anni, individuati come "a rischio psicosociale". L’età dei minori che presentano tali problematiche tende ad abbassarsi sempre di più. La trasgressività è una componente fondamentale dell’adolescenza; tuttavia la possibilità di differenziare tra la ricerca di affermazione della propria autonomia e identità, e il segnale di uno stato di disagio permette di capire come poter rispondere in modo utile a tali condotte. E' importante che i genitori siano sensibili rispetto ai segnali lanciati dai figli adolescenti. Adolescenti che presentano disturbi del comportamento hanno maggiore probabilità di incorrere in una serie di ulteriori difficoltà future.
Vengono definiti comportamenti a rischio, quelle condotte che vanno contro le norme, i valori ed i principi della comunità sociale di appartenenza e che sono indici di disadattamento (violenza a scuola, violenze sull’ambiente, uso di droga e spaccio, piccoli reati). 
Il termine rischio si riferisce quindi ad un insieme eterogeneo di comportamenti accomunati dalla loro valenza trasgressiva e possono distinguersi in ordine di gravità.

•Trasgressioni in generale
•Comportamenti aggressivi
•Violazione delle norme
•Abuso di sostanze e alcool
•Attività delinquenziali

Le caratteristiche psicologiche maggiormente legate alle condotte a rischio riguardano:

1)Aggressività, scarso autocontrollo, disturbi della condotta in età scolare e da comportamento delinquenziale, disturbo antisociale di personalità in adolescenza e in età adulta,
2)Insicurezza, ansia, isolamento sociale, bassa autostima nel periodo scolare; sintomi successivi di depressione, scarsa autostima in età adolescenziale ed adulta.

Le teorie psicoanalitiche hanno fornito una serie di possibili letture rispetto alle condotte a rischio: un inadeguato sviluppo dell’Io e Super-Io, in favore dell’Es; la ribellione verso l’autorità; il desiderio inconscio di punizione; l’aggressività legata alla paura e alla frustrazione. Per Winnicott (1984) il comportamento antisociale è il risultato di una carenza affettiva. L'adolescente mediante il comportamento a rischio mira con rabbia ad ottenere ciò che ritiene gli sia mancato, pertanto è un/a bambino/a deprivato che è diventato un/a ragazzo/a deviante in seguito all’esposizione ad un ambiente traumatico e privo di contenimento affettivo. Numerose ricerche hanno sottolineato la continuità evolutiva tra trauma, maltrattamento, disturbi psicopatologici e condotte violente, abuso di droga e alcool, come esito di un senso del Sé inaridito e frammentato.

Un fattore spesso presente nei soggetti a rischio è l’impulsività. Si tratta di una tendenza ad assumere forme pratiche di condotta in maniera incontrollata per difetto di capacità elaborativa e inibitoria. L'impulsività può essere determinata da fattori temperamentali, non necessariamente patologici, ma si manifesta in maniera spiccata quale sintomo di determinati quadri diagnostici: ADHD, disturbi della condotta, disturbi dell’umore, disturbi dell’alimentazione, dipendenze, epilessia, schizofrenia etc. L’impulsività può essere innescata da diversi meccanismi psicologici che riflettono il funzionamento mentale e l’organizzazione personologica del soggetto, nelle evenienze più frequenti esiste un offuscamento della coscienza o un disturbo della volontà, oppure una spinta affettiva particolarmente intensa.

Le caratteristiche psico-sociali dell’adolescente a rischio possono condurre anche a comportamenti a “limite”, dove vige la necessità di vivere al di là delle norme, quindi con un cattivo rapporto con l’autorità e un rifiuto per le regole. L’atteggiamento svalutativo che assumono questi adolescenti è sintomo di un’immagine di Sé negativa; incapacità di stabilire normali rapporti sociali, cariche aggressive dirette contro i vari componenti del nucleo familiare o contro se stessi, disagio esistenziale, radicale insofferenza nei confronti di sé e del mondo. Spesso ciò si rivela attraverso comportamenti auto-aggressivi, negli attacchi al corpo perpetrati tramite condotte anoressiche o bulimiche, all’integrità fisica e sociale minacciata da comportamenti a rischio, abuso di droghe e di velocità. Tale deficit dell’immagine di Sé, può incidere inoltre su una scarsa capacità progettuale, poiché è più facile identificarsi con ciò che “non si dovrebbe essere”, piuttosto che lottare per conquistare un sentimento di realtà in ruoli accettabili, ma “irraggiungibili con propri mezzi interiori”, conseguentemente avviene, come la chiama Erikson la “scelta di identità negativa”.

Le manifestazioni autoaggressive più allarmanti dell’adolescente riguardano il problema dei tentativi di suicidio, ma si osservano anche altre condotte autoaggressive quali: l'automutilazione impulsiva e gli equivalenti del suicidio. L'automutilazione impulsiva avviene in modo del tutto imprevedibile, dopo una crisi d’angoscia o di agitazione, il giovane attacca il corpo con maggiore o minore violenza. Gli equivalenti del suicidio riguardano quelle condotte nel corso delle quali la vita del soggetto è messa in pericolo dal punto di vista di un osservatore esterno, ma nel corso delle quali il soggetto nega il rischio che si è assunto. Esempi di equivalenti del suicidio sono gli incidenti in motorino o altri comportamenti di irresponsabilità verso la propria incolumità simili. 

L’adolescente usa la tendenza ad agire principalmente per autodefinirsi: elabora la propria realtà interna instabile e in continuo mutamento dinamico mediante una realizzazione concreta verso l’esterno. I comportamenti a rischio possono essere una risposta caratteristica che gli adolescenti mettono in atto rispetto ai compiti evolutivi. Tali comportamenti a rischio diventano allarmanti quando si configurano in un determinato quadro psichico, caratterizzato da rigidità e pervasività del comportamento reiterato.

Bibliografia:
Ammaniti, M. (2002), Manuale di psicopatologia dell’adolescenza. Raffaello Cortina Editore, Roma.
Erickson, E. (1982), I cicli della vita. Armando Editore, Roma 1984.
Marcelli, D., Bracconier, A. (1999), Adolescenza e psicopatologia. Masson, Parigi 1983.
Stern, D. (1985), Il mondo interpersonale del bambino. Bollati Boringhieri, Torino 1987.
Winnicott, D. (1984), Il bambino deprivato. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1986.

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