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giovedì 22 dicembre 2022

Studio sul disgusto come regolatore dello stato del Sé, valori, principi e istinto di allontanamento

Freud (1899) osservò che in alcuni casi di nevrosi che non erano strutturalmente ossessivi, emergeva un nucleo isterico (cioè di esternalizzazione, o manifestazione sintomatica attraverso il corpo). Alcuni soggetti per esempio si mostravano disgustati dai bisogni fisici, e dalla sessualità in particolare: "che schifo dottore"; "mi fa vomitare". Freud riconobbe questo tipo di comportamento nel caso di Dora. In Dora il disgusto prendeva il posto del desiderio e Freud si interroga sulle motivazioni profonde e inconsce di questo atteggiamento. Il disgusto, concluse, appare allora come segno dell'avversione ad accogliere un desiderio, di cui il soggetto isterico diventa testimone. Il corpo diviene il mezzo e il veicolo attraverso il quale viene elaborato un trauma di origine sessuale; così afferma agli albori della prima topica. Ne "Il disagio della civiltà", Freud (1929) elevò il disgusto a forma di dignità nella condizione umana, una forma di resistenza che impedirebbe l'accesso alla soddsfazione: "A volte sembra di percepire che non è solo la pressione della civiltà, ma qualcosa nella natura stessa della sua funzione a negarci la piena soddisfazione e a spingerci verso altre strade". E spiega ulteriormente le ragioni di questa resistenza in una nota: "la funzione sessuale è accompagnata da una resistenza che non può essere ulteriormente spiegata, e che impedisce la completa soddisfazione costringendo ad allontanarci dalla meta, per dirigerci verso sublimazioni e spostamenti libidici". L'emozione del disgusto è stata descritta da Darwin Ekman (1972) tra le emozioni fondamentali, insieme a rabbia, tristezza, felicità, paura e sorpresa. Il disgusto emerge nei momenti in cui siamo immersi in un contesto intersoggettivo nel quale c'è una grossa frattura, ovverosia una discrepanza pressocchè incolmabile tra valori, opinioni, modalità comportamentali e di pensiero, tali che valicano i limiti di ciò che riteniamo accettabile, consono, sintonico e degno. Nel termometro omeostatico dell'equilibrio narcisistico (inteso in senso ancora non clinico, come stima di sè in noce) il disgusto svolge una funzione importante, segnalandoci una necessità imperativa di allontanamento, il fatto che siamo immersi in un sistema diverso (Altro) da noi, sbagliato, potenzialmente danneggiante e pericoloso, nel caso in cui un danno non è già, di fatti, ricevuto. Nel linguaggio non verbale la reazione immediata all'emozione del disgusto è quella ad esempio, di alzare le mani in segno di difesa, come a protezione del Sè. Procedendo in senso inverso al contrario del disgusto troviamo infatti proprio il desiderio, la stima, l'apprezzamento, la sintonizzazione, il bisogno di vicinanza e connessione, il legame e il dialogo. Tutti elementi che promuovono la possibilità della crescita dell'interazione in questione. Leggendo la dinamica del disgusto in termini di regolazione affettiva possiamo far risalire il disgusto a tutte quelle interazioni legate all'ambito dell'ansia e dell'intrusività, le reazione automatiche di allontanamento e difesa, che cercano di comunicare all'altro nella relazione l'inappropriatezza della comunicazione proposta. In senso verbale, come in senso non verbale tale interazione può altrettanto essere disturbante, causando quindi tipi di reazioni analoghe: la necessità di una cesura, una chiusura, un blocco, un allontanamento. Che indicatori sono questi in senso clinico? Tutte le volte che abbiamo a che fare con queste emozioni ci troviamo in un territorio nel quale la mente ci segnala la necessità di difesa, il bisogno di riparazione e il rischio pervasivo di un trauma importante perlomeno (nella migliore ipotesi) in senso relazionale, paura, pericolo incombente. Bibliografia Ekman, P. (1972). Le differenze universali e culturali nelle espressioni delle emozioni Freud, S.,(1899) L'Interpretazione dei sogni Freud, S., (1929) Il disagio della civiltà

lunedì 4 maggio 2020

Unicità e acrobazia. Sindrome da impostore, pseudologia fantastica, mitomania. Il millantatore o bugiardo patologico e le caratteristiche dell'identità diffusa

Karl Friedrich Hieronymus von Münchhausen, conosciuto come il Barone di Münchhausen (Bodenwerder, 11 maggio 1720 – Bodenwerder, 22 febbraio 1797), è stato un militare tedesco. È il personaggio a cui si è ispirato Rudolf Erich Raspe per il protagonista del romanzo "Le avventure del barone di Münchhausen". Il vero barone era infatti divenuto famoso per i suoi inverosimili racconti: tra questi, un viaggio sulla Luna, un viaggio a cavallo di una palla di cannone e il suo uscire incolume dalle sabbie mobili tirandosi fuori per i propri capelli.
Ed io sempre ho preferito originale 
anche tristo ad ottima copia. 
(Vittorio Alfieri)

 È una malattia che Jung identificò quando studiava Hitler, e chiamò pseudologia fantastica. Consiste nell'inventarsi una bugia e finire col credere che sia una verità.
(Federico Orlando)

I caratteri nevrotici ne soffrono in senso fruttuoso, basato cioè su una colpa dimensionata, ovverosia che corrisponde a un certo senso di inadeguatezza utile e non invalidante; consapevole dei propri limiti e potenzialità, che può aiutarli spronandoli a crescere e migliorare, proprio basandosi su un senso di realtà adeguato. I narcisisti maligni invece come illustrato nelle vignette di Kernberg (1984), possono creare facilmente un'ideazione patologica e ripetuta che fondamentalmente pone le basi per sfiorare la psicosi (un certo scollamento dalla realtà ancora nell'ambito tuttavia della fantasia). Può capitare che, come si dice in inglese, alcuni di questi personaggi tornino a casa con il cadavere ("going away with murder" espressione idiomatica che sta a significare - "farla franca"), in poche parole che di fatto essi riescano a vendersi per ciò che non sono neppure. Presentano agli altri, cioè, un ideale grandioso che di fatto non corrisponde a una concretezza raggiunta. Sono personaggi tragici, vuoti, assetati dello stesso veleno che alimentano in una corsa verso un podio inesistente, un nulla cosmico, sostenuto fortemente tra traumi infantili di mancato riconoscimento e sintonizzazione e una consistente e inesauribile vergogna. I più, li elogeranno anche, non rintracciando nei loro toni altisonanti il tipico gonfiore inconsistente. In queste circostanze connotate sempre da un sentore verso il "più", l' "alto", il "migliore" (e chi più ne ha più ne metta in tal senso) si salva solo chi scappa. Scappare quindi, da chiunque si presenti con toni altisonanti in genere è l'unica via d'uscita al meccanismo delle somme e sottrazioni - l'unico linguaggio che questi soggetti conoscono e sono in grado di proporre e riproporre in tante salse diverse della stessa solfa. La grandezza reale, o anche un'autostima equilibrata non manca mai di umiltà; l'originalità è la capacità di essere chi si è, senza bisogno di crearsi un'identità fantastica o fotocopiata. Dunque fuggite dai re del tutto io (un tutto io non so essere). Così ne parla Alice Miller: "Ho conosciuto una donna che a carnevale si dava alle più sfrenate follie, perchè ciò significava per lei l'unica possibilità di essere libera e creativa. Ma più tardi, quando essa fu in grado di mostrare l'altra faccia di sè stessa tramite la creatività, invece che mettendosi in maschera, il suo interesse per il Carnevale si limità alla realizzazione di decorazioni e costumi. Lei personalmente non volle più indossare costumi mascherati, perchè ciò le ricordava tutta la triste dissimulazione della sua vita precedente. Simili e analoghe esperienze mi hanno portato a pensare se un giorno non sarà possibile far crescere i bambini in maniera tale che essi in seguito possano apprezzare di più tutti i lati della loro natura, senza essere invece costretti a reprimere i lati proibiti con tanta intensità, da doverli poi sfogare in forma violenta e oscena. ... Il falso Sé "buono" è il risultato della cosiddetta socializzazione, delle norme sociali che i genitori ci hanno trsmesso in maniera consapevole e intenzionale, e il Sé "cattivo" pure lui falso, trova le sue radici nelle primissime percezioni del comportamento dei genitori, visibile solo dal loro figlio usato come valvola di sfogo. Esso viene considerato come la "natura umana. E' senza dubbio offensivo e scomodo per la gente venire a sapere che le valvole di sfogo, finora ben nascoste che si credeva aver trovato nell'educare i propri figli dimostrino di avere un effetto venefico sulla generazione futura. (Miller, 1989, p. 199)
Heinz Kohut: I diversi tipi di tendenza alla pseudologia fantastica possono essere classificati nel modo seguente: a) può essere dovuta a una pressione del Sé grandioso, nel qual caso le bugie attribuiscono qualche successo importante al Sé del bugiardo b) può essere dovuta alla pressione del bisogno di un oggetto idealizzato, nel qual caso le #bugie attribuiscono importanti risultati, grandi ricchezze, economiche o intellettuali, o elevato status sociale a un'altra persona che occupa uno posizione di #leadership (è cioè una figura parentale) nei confronti del paziente. Nella loro forma relativamente più manifesta le falsificazioni riguardano il padre reale del paziente o altri parenti della generazione dei genitori. (Kohut, 1971, pp. 113) Winnicott: "Il vero sé (noto anche come sé reale, sé autentico, sé originale e sé vulnerabile) e il falso sé (noto anche come sé sociale, sé idealizzato, sé superficiale e pseudo sé) sono concetti psicologici, originariamente introdotti in psicoanalisi nel 1960 da Donald Winnicott . Winnicott ha usato il vero sé per descrivere un senso di sé basato su un'esperienza autentica spontanea e la sensazione di essere vivi, di avere un sé reale. Il falso sé, al contrario, Winnicott vedeva come una facciata difensiva, che, in casi estremi, poteva lasciare i suoi detentori privi di spontaneità e sentirsi morti e vuoti, dietro una mera apparenza di essere reali. I concetti sono spessi citati in relazione al narcisismo" Kernberg: "Vi è (...) un gruppo di pazienti che si colloca tra il disturbo narcisistico di personalità e il disturbo antisociale di personalità; esso è caratterizzato da ciò che io denomino sindrome di narcisismo maligno (1984). Tale sindrome è definita dalla combinazione di: 1) un disturbo narcisistico di personalità; 2) un comportamento antisociale; 3) aggressività egosintonica o sadismo rivolto verso gli altri o espresso mediante un particolare tipo di automutilazione trionfante o tentativi di suicidio; 4) un forte orientamento paranoide". Per pseudologia fantastica (o mitomania o bugia patologica) si intende un'elaborazione intenzionale e dimostrativa di esperienze o eventi molto poco probabili e facilmente confutabili. In un lavoro del 2012 Katie Elizabeth Treanor la definisce "l'abituale, prolungata e ripetuta produzione di mistificazioni, spesso di natura complessa e fantasiosa (...), bugie facilmente mascherabili che non vengono utilizzate per ottenere un tornaconto materiale o qualsivoglia vantaggio sociale, quanto per accrescere la propria autostima o proteggersi dal giudizio altrui". Il paziente fa sue, come vissute, le esperienze che inventa di sana pianta, elabora ricordi come se fossero momenti realmente vissuti. La pseudologia fantastica è una categoria nosografica che è stata discussa in psichiatria, descritta per la prima volta da Anton Delbrück nel 1891, caratterizzata dal ricorso abituale alla bugia. Si ritrova in soggetti narcisistici, istrionici o psicopatici (i cosiddetti "bugiardi patologici") e può riguardare i più disparati eventi o argomenti (luoghi, avventure galanti, situazioni improbabili, etc.), amplificati parossisticamente fino a raggiungere gradi altissimi di inverosimiglianza. Viene considerata un prodotto diretto dell'immaginazione: non dipende pertanto da deficit di memoria e non deve quindi essere confusa con le confabulazioni. Caratteristiche principali della pseudologia fantastica sono le seguenti: Le storie raccontate sono di solito avvincenti e fantasiose, ma non vanno troppo oltre la realtà. La possibilità di verità è la chiave di sopravvivenza del bugiardo patologico. Non sono dovute a manifestazioni di depressione o a una psicosi più ampia: durante il confronto il bugiardo patologico può anche ammettere che le storie non sono vere, anche se controvoglia. La tendenza ad inventare storie è cronica; non è provocata dalla situazione immediata o da pressioni sociali, ma più da un innato tratto della personalità. Un motivo totalmente personale, e non esterno, serve a discernere la patologia clinicamente: es., situazioni pericolose o di stress possono indurre una persona a mentire ripetutamente, senza evidenza di un reale sintomo patologico. Le storie raccontate tendono a dipingere come positiva la persona del narratore. Il bugiardo "decora la sua stessa persona" raccontando storie che lo presentano come eroe o come vittima. Per esempio, la persona si presenta nelle storie come estremamente coraggiosa, dice di conoscere persone importanti e famose, o dice di guadagnare più soldi di quanti ne guadagni in realtà. (Wikipedia) Kernberg, Otto F. (1993). Severe personality disorders: Psychotherapeutic strategies. New Haven, CT: Yale University Press. Kohut, Heinz (1971) The Analysis of the Self: A Systematic Approach to the Psychoanalytic Treatment of Narcissistic Personality Disorders . International Universities Press, New York. Winnicott, D. (1960). Ego Distortion in Terms of True and False Self - The Maturational Processes and the Facilitating Environment. http://www.psicologiapsicoterapiapsicoanalisi.com/2014/10/narcisismo-e-analisi-del-se.html

venerdì 31 agosto 2018

L'amore non è abbastanza - dimmi come ami, ti dirò: "chi sei?"


Mother! è un film del 2017 scritto e diretto da Darren Aronofsky,
con protagonisti Jennifer Lawrence e Javier Bardem.

Anche il più riuscito dei rapporti ha le sue falle.
Come insegnano i principi della regolazione affettiva delle interazioni umane (Tronick, 1989; Beebe, Lachmann, 2002) è impossibile essere perfettamente sintonizzati con qualcuno la maggior parte del tempo; spesso e a maggior ragione nei momenti di maggiore crisi individuale o svincolo evolutivo. Nell'osservazione diretta dell'interazione madre-bambino è possibile osservare che i momenti di "rottura" o anche "pausa" sono essenzialmente più frequenti rispetto a quelli di "incontro" e tali disgiunzioni attese vengono considerate parte del normale processo interattivo, cui segue una forma riparativa - più o meno funzionale a seconda della specifica diade. Tali principi sono stati applicati con successo allo studio delle relazioni adulte. E' infatti possibile prevedere sin dall'osservazione delle interazioni infantili una linea evolutiva che segnerà l'orientamento regolativo generale dell'individuo verso una sicurezza o insicurezza dell'attaccamento (Bowlby, 1969, 1972, 1980; Ainsworth et al., 1978).

I conflitti esistenti nell'ambito delle relazioni affettive familiari e intime possono avere un impatto generalmente sottovalutato ma di enorme portata per la salute mentale, lasciando la persona ripetutamente ansiosa, scossa, paurosa, triste o impotente, fino a sentirsi bloccata; oppure con un costante vissuto di essere sbagliata, in difetto o inadeguata. I maggiori danni sostenuti - sia dal soggetto che le mette in atto, sia da chi le riceve - solitamente riguardano le strategie di difesa di basso livello rispetto all'esame di realtà, quali ad esempio l'aggressività passiva, ovverosia un comportamento celato e socialmente accettabile o giustificabile che nasconde effettivamente un danno inferto, ma anche e soprattutto la rabbia narcisistica, con i difetti empatici che ne consegue; la manipolazione emotiva istericoforme, e le dinamiche di squilibrio di potere (schiavo-padrone e dipendenze). A livello nevrotico più alto sono invece facilmente riscontrabili colpa e vergogna.

Le dinamiche succitate sono in bassa percentuale e occasionalmente vissute anche nella maggiorparte delle interazioni, ma aumentando in frequenza e pervasività descrivono i più comuni circoli disfunzionali delle relazioni apertamente e storicamente conflittuali. Si osserverà, in queste ultime più frequentemente, un'organizzazione del tono emotivo focalizzato sul negativo, piuttosto che sul positivo, e un basso livello di capacità di accettazione, comprensione e reciprocità.

Possiamo sviluppare relazioni dannose con chiunque nel corso della vita – la relazione dannosa con un partner ad esempio (oppure un dirigente, un amico, etc.). Ciò che è utile osservare in termini clinici è che spesso questo genere di rapporti consiste in uno specchio o ripetizione di antiche dinamiche familiari, relative ai rapporti originari con genitori, fratelli, figure di riferimento primarie, etc.
I rapporti dannosi con i caregiver in particolare, sono particolarmente comuni, e soprattutto difficili da affrontare e gestire perché legati a un dogma sociale e culturale estremamente radicato, specialmente nella cultura italiana.
Uno degli elementi meno considerati in merito, ad esempio, è la continuità dell’influenza invalidante che ne deriva. Questo perchè non si può “lasciare” un genitore e andare a cercarsene uno nuovo, come si fa più spesso con gli amici o con un partner. Il senso di colpa e la disapprovazione che la società impone sulle spalle di chi vive problemi di questo tipo possono spesso essere una motivazione sufficiente ad una sofferenza silenziosa, taciuta e nascosta.

La società impone intorno a nucleo familiare una serie di “convenzioni” basate su assunzioni essenzialmente false: la neo-mamma che deve essere per forza eternamente felice e instancabile, e soprattutto volta al sacrificio della sua identità distinta dall'essere madre; i “genitori che sono sempre i genitori” quindi intoccabili e nel giusto per definizione etc. Ma ce ne sarebbero tante altre parte dell'esperienza comune che resta tuttavia come dissociata. 
La realtà degli eventi però ci mostra in modo irrefutabile che vivere in un ambiente con dinamiche disfunzionali, o di negazione/diniego, genera a lungo termine un logorio che determina una serie di problemi che richiedono un successivo inevitabile lavoro di emancipazione ed attenzione costante. Ciò che non si osserva, si ripete, con le conseguenze del caso.

Sacrificare continuamente il proprio benessere per il quieto vivere con un parente distruttivo, intrusivo o invalidante ad esempio, significa “fare la cosa giusta”? Ci sono molte opzioni tra il soffrire costantemente le problematiche che presenta un caregiver e il tagliarlo completamente fuori.
Tagliare fuori un caregiver estremamente dannoso, tuttavia, nei casi in cui questo è strettamente necessario, ovvero in tutti quei casi in cui il soggetto diventa vittima di soprusi, violenze, sviluppa sintomi fisici o psicopatologici, problemi comportamentali etc., non è una tragedia, ma un effettivo diritto e una necessità. In questi casi diventa più evidente come il dogma sociale condiviso si attiene, in realtà, alla maggioranza di persone che fortunatamente non ha una misura di cosa implichi un contesto simile. Oppure a chi ha dolorosamente internalizzato un sistema di diniego tale che si è conformato al proprio ambiente, pagandone tuttavia un caro prezzo consapevolmente o meno.

Quali sono i segni più insidiosi, nascosti e comuni di una relazione "originaria" o "ripetuta" dannosa?
Innanzitutto, una mancata capacità di rispettare gli spazi e i bisogni dell'altro, figlio, partner, amico etc. Tali meccanismi originano spesso dal comportamento di un genitore che vive l'identità separata del figlio come un rifiuto verso di lui (vedi invertimento dei ruoli genitore-figlio, invischiamento e responsabilità per la felicità dell'altro vissuto come incompleto, o parte mancante di sè).
In secondo luogo, l'evitamento dei momenti affettivi autentici, anche quelli negativi
. Un evitamento del riconoscimento della parte emotiva dell'esperienza, nella sua totalità. Sviluppare un adeguato livello di accettazione e compassione, verso se stessi e verso gli altri, può essere molto complicato quando chi avrebbe dovuto prendersi cura di noi ha ignorato i nostri bisogni più profondi e basilari, ponendoci di fronte ai propri. La sensazione può essere quella di essere invisibili (inesistenti, non importanti), o come se i propri sentimenti o bisogni emotivi costituiscano un fastidio, pertanto debbano essere nascosti (in questi contesti viene promosso un alto tasso di vergogna - mancata accettazione, o senso di indegnità che si trasmetterà non solo nelle relazioni "ripetute" ma anche spesso a livello trans-generazionale nella successiva prole).

Un pensiero molto comune può essere: “In fin dei conti ho avuto un tetto sopra la testa e del cibo. Non dovrei lamentarmi”. La sofferenza che si sperimenta in questo genere di trascuratezza emotiva tuttavia è reale, nonostante il fatto che per altri possa essere andata peggio.
Gli abusi fisici reiterati causano un danno più evidente, ma l’abuso e l’abbandono emotivo (anche solo minacciato) può creare profonde cicatrici.
L’entità del trauma sperimentato non dovrebbe essere misurata su una scala che prevede una legittimazione soltanto sulla base della gravità evidente e marcata (esteriore o tangibile) del danno. Un danno emotivo può essere invisibile e tuttavia continuare ad essere invalidante per il resto della vita.

In essenza vivere la propria vita occupando un posto nel mondo significa affrancarsi dalla storia, osservandola come distinta da un destino disegnato. Ovverosia apprendere una nuova libertà emotiva e relazionale dalle ripetizioni del passato, acquisendo consapevolezza e padronanza sulla propria storia e le proprie modalità, e mettendo in atto le nuove capacità apprese in contesti più accoglienti.

mercoledì 5 luglio 2017

Fluttuazioni narcisistiche e compassione nello sviluppo e decorso dei DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare)



Searching all directions with your awareness, 
you find no one dearer than yourself. 
In the same way, others are thickly dear to themselves. 
So you shouldn't hurt others if you love yourself.

(TheravadaUdana 47 - Rajan Sutta)

Viruncamban, uno dei dodici giganti demoni guardiani Ramayana all'aereoporto Suvarnabhumi (Bangkok, Thailand). La statua riproduce lo stesso gigante del Temple of the Emerald Buddha (Wat Phra Kaew). Viruncamban, dal volto blu e gli occhi da coccodrillo, aveva il potere di rendersi invisibile. Fu eletto da Tosakanth dopo che la meditazione del demone era stata interrotta. Dopo aver assistito alla morte dell'amico stretto Satasoon per mano di Hanuman, Viruncamban si rese invisibile a sé stesso e al suo esercito, e scurì il cielo per facilitare la sua fuga nell'oceano, mentre la sua falsa immagine combatteva instancabilmente. Sotto suggerimento di una fanciulla celeste denominata Wanarin, Viruncamban si nascose sotto il letto dell'oceano vicino al Monte Akatkiree.

Un recente articolo pubblicato sulla rivista Eating Behaviours ha esaminato il ruolo della compassione verso di sé, nelle problematiche relative all’immagine corporea e allo stile alimentare.
Cos’è la compassione per sé stessi? Essa riguarda un atteggiamento di cura e gentilezza verso di sé, piuttosto che di giudizio; la capacità di riflettere sul proprio dolore con umanità, piuttosto che rifugiarsi nell’isolamento; la consapevolezza dei propri limiti, piuttosto che rimuginare sui fallimenti (Neff, 2003a). 
Quali sono i rapporti tra autostima e compassione per sé stessi? L’autostima può essere definita come una valutazione complessiva positiva di sé (Rosenberg, 1965); la compassione riguarda invece una forma più stabile e incondizionata di cura di sé, che si differenzia dalle fluttuazioni narcisistiche (ad esempio assumere un atteggiamento rigidamente difensivo verso l’ottimismo o il pessimismo). In tal senso la differenza tra autostima e compassione per sé stessi consiste nell’espressione di un giudizio perentorio (polarizzato, fisso) riguardante il proprio valore, rispetto alla possibilità di accettarsi semplicemente per quel che si è nella propria unicità, cioè proprio perché “sé stessi”. 
La compassione verso di sé, ha comunque un’influenza significativa sull’equilibrio narcisistico: un sano livello di autostima infatti, prevede il riconoscimento delle proprie qualità e dei propri limiti in maniera bilanciata. Tale costrutto come aspetto basilare della compassione psicologica in senso più ampio (rivolta agli altri), è stata associato anche alla possibilità di riconoscere il proprio ruolo in situazioni di crisi, imparare dai propri errori, e alla capacità di riconoscere e accettare parti di sé (positive o meno) per ciò che sono.
In che modo la compassione verso di sé incide nello sviluppo dei DCA? Kelly, Vimalakhantan e Carter (2014) hanno trovato che il miglior predittore per lo sviluppo di disturbi alimentari consisteva in un basso livello di compassione verso di sé. Pazienti con problematiche alimentari che riuscivano a sviluppare la capacità di essere compassionevoli verso di sé durante il trattamento, mostravano una risposta migliore alle cure, nel corso di 12 settimane (Kelly, Carter, e Borairi, 2014). 
Questi dati suggeriscono che la possibilità di accettare sé stessi gioca un ruolo importante nella gestione dell’immagine corporea e nella gestione dell’alimentazione in relazione alle problematiche narcisistiche legate al piacersi fisicamente, e al “sentirsi abbastanza”. 
I ricercatori Kelly, Vimalakhantan e Carter (2014) hanno anche evidenziato un altro aspetto relativo alla compassione verso sé stessi: il timore di provarla oppure di ricevere compassione dagli altri risultava essere il miglior predittore rispetto al mantenimento della problematica alimentare. Come vengono letti questi risultati clinicamente? Ricevere compassione dagli altri o provare compassione verso di , può rappresentare un’esperienza relativamente spaventosa per alcuni individui in quanto essa implica un’ammissione di vulnerabilità (cioè della propria umanità rispetto a un’illusoria onnipotenza), che può essere negativamente letta come debolezza o fallibilità. Tale livello di perfettibilità in questi casi si scontrerà con le difese narcisistiche più resistenti (“devo essere perfetto/a o non sono niente”). 
Secondo Gilbert et al., (2011) le persone che temono di più la compassione in realtà sono convinte di non meritarla; oppure sono eccessivamente (irrealisticamente) preoccupate di abbassare i propri standard e apparire deboli agli altri (quindi in maniera amplificata a sé stessi). E’ stato visto che queste persone mostrano in media un livello più alto di psicopatologia rispetto alla popolazione totale.  
In conclusione, la capacità di ricevere e provare compassione è un importante fattore protettivo contro lo sviluppo di disturbi alimentari (così come altri tipi di dipendenze compulsive) e può facilitare la remissione dei sintomi quando il disturbo è già presente. Essa può quindi essere considerata un importante obiettivo terapeutico nel corso del trattamento dei DCA, e di altri tipi di disturbi in generale.
Bibliografia

Kelly, A.C., Carter, J.C., Borairi, S. (2014), Are improvements in shame and self-compassion early in eating disorders treatment associated with better patient outcomes? International Journal of Eating Disorders, 47(1),54-64.

Kelly, Vimalakhantan, Carter (2014), Understanding the role of self-esteem, self-compassion, and fear of self-compassion in eating disorder pathology: An examination of female students and eating disorder patients. Eating Behaviours, 15 (2014) 388-391.
Neff, K. D., (2003a), Self compassion: An alternative conceptualization of a healthy attitude toward oneself. Self and Identity, 2(2), 85-101.
Rosenberg, M. (1965), Society and the adolescent self-image. Princeton: Princeton University Press.

martedì 29 marzo 2016

Un artista del digiuno (Kafka, 1922)




La gabbia 
In questi ultimi decenni l’interesse pei digiunatori è molto diminuito. Mentre prima meritava metter su spettacoli di questo genere per proprio conto, oggi sarebbe assolutamente impossibile. Erano altri tempi quelli. 
Tutta la città si occupava allora del digiunatore; a ogni giorno di digiuno aumentava l’interesse del pubblico; tutti volevano vedere il digiunatore, almeno una volta al giorno; e negli ultimi giorni c’erano perfino degli abbonati che sedevano intere giornate davanti alla sua piccola gabbia; anche di notte avevano luogo delle visite alla luce delle fiaccole, per aumentare l’effetto; quando il tempo era bello la gabbia veniva trasportata all’aperto, e allora erano specialmente i bambini a cui veniva mostrato il digiunatore; mentre per gli adulti costituiva spesso solo uno spasso, a cui si partecipava perché era di moda, i bimbi lo guardavano ammirati a bocca aperta, tenendosi per precauzione per la mano, mentre egli, pallido, nella sua maglia nera, con le costole esageratamente sporgenti, sdegnando perfino una poltrona, se ne stava seduto sopra paglia sparsa qua e là, facendo a volte un cenno cortese con la testa, a volte rispondendo alle domande con un sorriso sforzato o allungando un braccio attraverso le sbarre per far palpare la sua magrezza; e finiva poi per sprofondarsi in se stesso senza occuparsi più di nessuno, neppure del battito dell’orologio – così importante per lui unico mobile della sua gabbia, per guardare fissamente cogli occhi semichiusi dinanzi a sé, succhiando di quando in quando un sorso d’acqua da un minuscolo bicchierino, per inumidirsi le labbra. 

Gli spettatori del digiunatore secondo il fumettista Crumb)

Oltre agli spettatori consueti e mutevoli c’erano anche dei guardiani fissi, scelti dal pubblico, che per una strana coincidenza eran di solito macellai e, sempre a tre per volta, avevan il compito di sorvegliare il digiunatore giorno e notte, perché, clandestinamente, non riuscisse a nutrirsi in qualche modo. Ma era solo una formalità, adottata per tranquillità della folla, poiché gli iniziati sapevano bene che il digiunatore, durante il periodo, non avrebbe toccato nessuna qualità di cibo, a nessun costo, neppure se vi fosse stato costretto; lo impediva il rispetto verso la sua arte. 
Ma naturalmente, non tutti i guardiani potevano intendere ciò; a volte si formavano dei gruppi di sorveglianti notturni che compivano il loro dovere molto superficialmente, si ritiravano di proposito in un cantuccio lontano, per darsi tutti a giuocar a carte, con l’intenzione evidente di dare al digiunatore il modo di fare un piccolo spuntino che, a loro parere, avrebbe potuto consumare ricorrendo a qualche segreta riserva. 

Per il digiunatore nulla era più penoso di questi guardiani; lo facevano diventare melanconico, gli rendevano terribilmente difficile il digiuno; a volte riusciva a vincere la sua debolezza e cantava durante la veglia finché aveva fiato, per mostrar a quella gente quanto ingiustamente sospettavano di lui, ma serviva a poco, perché quelli invece lo ammiravano per la sua abilità di mangiare perfino mentre cantava. Preferiva di molto quei guardiani che si sedevano proprio vicino alla gabbia e, non contenti della fioca illuminazione notturna della sala, lo illuminavano con lampadine elettriche tascabili, che l’impresario metteva a loro disposizione. 
Quella luce cruda non lo disturbava per nulla; tanto, dormire non poteva, mentre gli riusciva di appisolarsi un poco sempre, con qualsiasi illuminazione e a qualsiasi ora, anche se la sala era piena di gente e di fracasso; egli era dispostissimo a passare la notte con quei guardiani senza dormire mai; era pronto a scherzare con loro, a raccontare loro qualche storia della sua vita errante, ad ascoltare a sua volta i loro racconti, e tutto soltanto per tenerli svegli, per convincerli continuamente che non c’era nulla da mangiare nella gabbia e che egli digiunava come nessuno di loro avrebbe potuto fare. La sua felicità toccava il colmo, però, quando faceva giorno e, a sue spese, veniva portata loro un’abbondantissima colazione, su cui si gettavano con l’appetito proprio delle persone sane dopo una faticosa veglia notturna. 




C’era, è vero, della gente che vedeva in questa colazione una scandalosa circonvenzione dei guardiani da parte sua, ma era un andar troppo oltre, e quando si chiedeva a quelle persone, se fossero disposte ad assumersi la veglia notturna senza colazione, per andare in fondo alla cosa, si dileguavano, pur restando fedeli ai loro sospetti. Questo d’altronde faceva parte di quei sospetti che circondavano comunque l’arte del digiuno. Nessuno infatti, era in condizione di passar tutti quei giorni e quelle notti ininterrottamente come guardiano accanto al digiunatore, e nessuno dunque poteva sapere, per propria esperienza, se il digiuno veniva osservato davvero senza interruzioni, in maniera assoluta; solo il digiunatore in persona era in grado di saperlo e di essere così anche lo spettatore pienamente soddisfatto del suo digiuno.
Egli invece non era soddisfatto mai, per un’altra ragione: forse non era dimagrito per il digiuno tantoché alcune persone, pur dolenti, erano costrette a rinunciare a quello spettacolo perché non sopportavano la sua vista ma piuttosto perché non era soddisfatto di sé. Egli solo sapeva e nessuno iniziato lo sospettava quanto fosse facile il digiunare. Era la cosa più facile del mondo. Non lo nascondeva neanche, ma non gli si prestava fede e, nel migliore dei casi, lo si riteneva modesto, più spesso avido di pubblicità o addirittura un imbroglione, a cui il digiunare certo era facile, perché sapeva renderselo tale, e aveva anche la faccia tosta di lasciarlo intendere. Tutto questo ormai l’aveva dovuto sopportare, e nel corso degli anni ci s’era perfino abituato, ma nell’intimo questo malcontento lo rodeva sempre, tant’è vero che mai, dopo nessun periodo di digiuno questa testimonianza non gli si poteva negare aveva lasciato la gabbia spontaneamente. Come termine massimo del digiuno l’impresario aveva fissato quaranta giorni, non gli permetteva di superare mai quel limite, neppure nelle metropoli ... e non senza ragione. L’esperienza insegnava che sino a quaranta giorni si poteva aumentare gradatamente l’attenzione di una città con una pubblicità sempre più intensa; più a lungo il pubblico non rispondeva più; si notava una sensibile diminuzione dell’affluenza; c’era naturalmente qualche divario, sotto quest’aspetto, tra un paese, tra una città e l’altra, ma la regola era che quaranta giorni costituissero il limite massimo. 


Il quarantesimo giorno la porta della gabbia inghirlandata veniva aperta, una folla di spettatori entusiasmati gremiva l’anfiteatro, una banda militare suonava, due medici entravano nella gabbia per fare le misurazioni di rito al digiunatore, con un megafono venivano diffusi tra la gente i risultati dell’esame medico, e finalmente arrivavano due giovani signore, felici di esser state designate dalla sorte, per aiutare il digiunatore a uscire dalla gabbia, scendere due scalini e arrivare sino al tavolino ove era imbandito un pranzo da malati, preparato con cura. A questo punto il digiunatore si ribellava sempre. Porgeva di buon grado, sì, le braccia scheletriche alle signore chine su di lui, che gli tendevano le mani pronte per aiutarlo, ma non si voleva alzare. 
Il circo rappresentato da Juan Esplandiu

Perché smettere il digiuno proprio ora, dopo quaranta giorni? Avrebbe resistito ancora a lungo per un tempo illimitato; perché farlo smettere proprio ora ch’era nel punto culminante del digiuno, anzi non c’era ancora arrivato? Perché defraudarlo della gloria di continuare ancora a digiunare, di diventare non solo il più grande digiunatore di tutti i tempi questo, forse, lo era già ma di superare perfino se stesso sino a un punto incredibile, perché sentiva che le sue possibilità di digiunare erano addirittura illimitate? Perché quella folla che dimostrava di ammirarlo tanto, aveva tanta poca pazienza con lui? Se resisteva lui a digiunare ancora, perché non voleva resister lei? E levava lo sguardo verso gli occhi di quelle signore, apparentemente così gentili, in realtà così crudeli, scuotendo la testa troppo pesante per il suo debole collo. E poi era stanco, se ne stava bene lì nella paglia e doveva invece rizzarsi in tutta la sua lunghezza, per andare verso quel cibo, il cui solo pensiero gli procurava una nausea, che solo per riguardo alle signore cercava faticosamente di soffocare. Ma poi avveniva quel che capitava sempre. Interveniva l’impresario e senza dir una parola – la musica non permetteva di scambiarne neppure due levava le braccia sul digiunatore, come se invitasse il cielo a guardare una buona volta sulla paglia la sua opera, quel povero martire e questo il digiunatore lo era, ma in tutt’altro senso, - afferrava il poveretto per la esile vita, facendo credere, con un eccesso di precauzione, di aver a che fare con un oggetto molto fragile, per consegnarlo poi non senza averlo di nascosto scosso un poco, facendogli così oscillare in qua e in là senza controllo le gambe e il busto alle signore, che erano intanto mortalmente impallidite. 


Da quel momento il digiunatore tollerava tutto; la testa pendeva sul petto, come se fosse rotolata lì per caso, fermandosi per una qualche ragione inspiegabile; il corpo era tutto incavato; le gambe con le ginocchia serrate per istinto di conservazione, raspavano il suolo come se non fosse quello vero, ma lo stessero, a quel modo, soltanto cercando; e tutto il peso, per quanto modesto del suo corpo, gravava sopra una delle signore, che, cercando aiuto intorno e tutta ansimante – non s’era certo immaginata così quell’incarico onorifico – prima allungava il collo quanto era possibile, per preservare il viso dal contatto col digiunatore, ma poi, vedendo che non ci riusciva e che la sua più fortunata collega, non le veniva in soccorso, ma si contentava di reggere tremando davanti a sé la mano del digiunatore un mucchietto d’ossa – scoppiava in lacrime tra le risate di soddisfazione della sala, per venir subito sostituita da un inserviente pronto già da tempo. Poi veniva il pasto, di cui l’impresario faceva ingerire qualche boccone al digiunatore caduto in un dormiveglia simile a un deliquio, mentre parlava allegramente, per distrarre l’attenzione del pubblico dallo stato pietoso in cui il poveretto si trovava; poi veniva ancora un brindisi al pubblico e l’impresario dava a intendere che glielo aveva sussurrato il digiunatore stesso; la banda sottolineava tutto con una rumorosa fanfara finale, la folla si disperdeva e nessuno aveva più diritto di essere scontento dello spettacolo, tranne il digiunatore, lui soltanto sempre. 


Così aveva vissuto per molti anni con brevi e regolari intervalli di riposo, in mezzo a un apparente benessere, rispettato dal mondo, eppur quasi sempre immerso in una cupa malinconia, che diveniva sempre più cupa perché nessuno riusciva a prenderla sul serio. 
E come, d’altronde, consolarlo? Che poteva ancora desiderare? E se per caso capitava una volta una persona di buon cuore, che lo compativa e gli voleva spiegare come quella malinconia probabilmente venisse dal digiuno, poteva anche accadere, specie quando il digiuno era già molto lungo, che il digiunatore rispondesse con un impeto di furore e, tra lo spavento di tutti, si mettesse a scuotere le sbarre della gabbia come una bestia. 
Ma in casi simili l’impresario ricorreva a una punizione, che usava di preferenza. Scusava il digiunatore dinanzi al pubblico radunato, ammetteva che si poteva perdonare il contegno del digiunatore solo pensando a un’irascibilità, provocata dalla fame, e solo difficilmente immaginabile da chi era sazio; veniva poi, come di conseguenza, a parlare, per spiegarla nello stesso senso, dell’asserzione del digiunatore di poter prolungare il digiuno molto più di quel che già non facesse; lodava il nobile intento, la buona volontà, la grande abnegazione, contenuti certo anche in questa asserzione; ma tentava poi subito di svalutarla mostrando semplicemente delle fotografie, subito messe in vendita, in cui si vedeva il digiunatore giunto al quarantesimo giorno, in un letto, quasi esausto dalla debolezza. 

L'impresario

Questa maniera di storcere la verità, per quanto ben nota al digiunatore, riusciva pur sempre a snervarlo ogni volta ed era veramente troppo per lui. Quello che era la conseguenza di un’anticipata fine del digiuno, veniva presentata qui come la causa! Era impossibile lottare contro una simile incomprensione, contro questa universale incomprensione. Ogni volta era rimasto ad ascoltare ansiosamente e fiducioso, attaccato alle sbarre, l’impresario, ma quando comparivano le fotografie, abbandonava ogni volta la gabbia per ricadere con un sospiro sulla paglia, mente il pubblico tranquillizzato poteva riavvicinarsi e guardarlo. 

I testimoni di queste scene, quando ci ripensavano qualche anno dopo, non riuscivano quasi più a comprender sè stessi, perché nel frattempo era intervenuto quel mutamento cui s’è già accennato; ed era sopraggiunto quasi d’improvviso; ci sarà stata certo qualche ragione profonda; ma chi si prendeva la briga di andar a cercarla? Comunque un bel giorno il digiunatore, così viziato dal pubblico, si vide abbandonato dalla folla desiderosa di divertirsi, che affluiva ormai ad altri spettacoli. 
Un’ultima volta l’impresario se lo trascinò dietro in fretta per mezza Europa, per vedere se qua e là non rispuntasse l’antico entusiasmo; ma tutto fu vano; come per una segreta intesa si era destata una vera avversione per il digiuno come spettacolo. 
Naturalmente questo fenomeno non s’era potuto verificare in realtà da un momento all’altro e ora tornavano in mente, in ritardo, alcuni segni precursori di cui, a suo tempo, nell’ebbrezza del successo, non s’era tenuto abbastanza conto, né sufficientemente ostacolata l’apparizione; ma era troppo tardi ormai per combatterli in qualche modo. Era bensì certo che sarebbe tornato un giorno l’ora fortunata del digiuno, ma non era sufficiente conforto per quelli che vivevano allora. 
Cosa doveva fare il digiunatore? Uno, che s’era visto acclamare da migliaia di persone, non poteva esibirsi nei baracconi delle piccole fiere di campagna; per mettersi a fare un altro mestiere il digiunatore non solo era troppo vecchio, ma soprattutto troppo fanaticamente attaccato alla sua arte. Così egli congedò l’impresario, compagno di una carriera senza pari, e subito si fece scritturare da un gran circo; per riguardo alla sua suscettibilità non volle neppure vedere le clausole del contratto. 


Un gran circo con quella marea di persone, di animali e di arnesi, che si equilibrano e si completano l’un con l’altro, può sempre utilizzare chicchessia, in qualunque momento, anche un digiunatore, naturalmente purché abbia pretese relativamente modeste; inoltre, in questo caso particolare, non era soltanto lui a essere scritturato, ma anche il suo nome da tempo ormai celebre; anzi per la singolarità di quest’arte, che con l’aumentare degli anni non soffriva diminuzioni, non si poteva neanche dire che in questo caso un artista ormai invecchiato, non più nel pieno splendore dei suoi mezzi, si fosse rifugiato nel tranquillo impiego di un circo, ché anzi il digiunatore assicurava, e gli si poteva credere, che avrebbe continuato a digiunare come prima; affermava persino che, se lo lasciavano fare – e gli fu promesso senz’altro – avrebbe proprio ora stupito il mondo e con ragione; un’asserzione, questa, che, considerando l’umore del tempo – e il digiunatore nel suo entusiasmo se ne dimenticava facilmente suscitava nella gente del mestiere solo un sorriso. 


In fondo anche il digiunatore s’era reso conto del reale stato delle cose e considerò quindi naturale che non lo si mettesse con la sua gabbia nel mezzo della pista, come un numero sensazionale, ma fuori, in un posto del resto comodamente accessibile, in vicinanza delle stalle. Grandi cartelli variopinti incorniciavano la gabbia, spiegando al pubblico cosa c’era da vedere in quel luogo. Quando, durante le pause dello spettacolo, la gente s’affollava verso le stalle per vedere le bestie, era quasi inevitabile che passasse davanti al digiunatore e si soffermasse un attimo davanti a lui; forse c’era chi si sarebbe trattenuto ancora più a lungo se non ci fossero stati, nello stretto corridoio, quelli che venivano dietro e non comprendevano la ragione di quell’indugio sulla via che portava alle ambite stalle, rendendo così impossibile una visita più prolungata e pacata. Questa era anche la ragione per cui il digiunatore tremava al pensiero di queste ore di visita, di cui pure era ansioso come dello scopo della sua vita. Nei primi tempi non vedeva l’ora che queste pause dello spettacolo arrivassero; la vista di quella massa ondeggiante di gente, che s’avvicinava, l’aveva incantato, sinché non s’era presto convinto – anche la più tenace, quasi consapevole illusione non aveva resistito all’esperienza – che intenzionalmente erano tutti, senza eccezione, dei visitatori delle stalle. Lo spettacolo della gente che s’avvicinava da lontano, rimase la sensazione migliore, perché appena era giunta vicino a lui, egli veniva come sopraffatto dal gridìo e dalle dispute di due gruppi che si formavano di continuo: uno di coloro, che volevano guardarselo comodamente e presto divenne per il digiunatore il gruppo più sgradito ma non per una vera comprensione, bensì per capriccio e puntiglio; e un altro di coloro, che prima di tutto volevan giungere alle stalle. 

Passato il grosso del pubblico, venivano poi i ritardatari e proprio questi, cui nessuno impediva di fermarsi quanto volevano, gli passavano dinanzi, allungando il passo, senza quasi degnarlo di un’occhiata, per arrivare in tempo a veder gli animali. E non era davvero molto frequente il caso fortunato di un padre di famiglia che, arrivando lì coi figlioli, accennava col dito al digiunatore, spiegando loro minuziosamente di che si trattasse, ricordando i tempi andati, in cui aveva assistito a esibizioni simili ma molto più grandiose; i bambini, scarsamente preparati su questo argomento dalla scuola e dalla vita che poteva significare per loro patir la fame? continuavano a starsene lì, senza capire, ma nello splendore dei loro occhi incuriositi pareva di intravedere il riflesso di tempi nuovi, lontani ancora e più caritatevoli. Forse, si diceva a volte il digiunatore, tutto sarebbe andato meglio se non lo avessero collocato tanto vicino alle stalle. Così la gente aveva una scelta troppo facile, per tacere poi che le esalazioni delle stalle, l’irrequietezza delle bestie nella notte, il passaggio dei pezzi di carne cruda per le belve, i ruggiti che ne accompagnavano i pasti lo disturbavano molto e lo deprimevano continuamente. Non osava però rivolgersi alla direzione del circo per protestare; in fondo doveva alla presenza delle bestie quella folla di spettatori, tra cui poteva pur capitarne di quando in quando uno destinato a lui e chissà dove l’avrebbero cacciato, se richiamava l’attenzione della direzione sopra di sé e quindi anche sul fatto che, in conclusione, egli costituiva solo un ostacolo sulla via che conduceva alle stalle. 

E' ancora qui! - Stai ancora digiunando? Non smetti mai? - Perdonatemi...Ho sempre voluto che le persone ammirassero il mio digiunare...  

Un piccolo ostacolo, però, che si faceva sempre più piccolo: ci si abituò alla stranezza, in tempi come i nostri, di reclamare l’attenzione del pubblico sopra un digiunatore, e con questa abitudine il suo destino fu segnato. Poteva digiunare quanto voleva ... ed egli lo faceva; ma nulla lo poteva più salvare, nessuno più si curava di lui. Si provi qualcuno a spiegare l’arte del digiuno! A chi non la conosce, non si può darne un’idea. I bei cartelloni con le iscrizioni divennero sudici e illeggibili; e vennero strappati via e a nessuno venne in mente di sostituirli; la piccola tabella poi, col numero dei giorni di digiuno compiuti, che nei primi tempi veniva rinnovata ogni giorno, rimase per lungo tempo sempre la stessa, poiché dopo le prime settimane al personale del circo anche quella piccola fatica era parsa troppo; e così il digiunatore continuava a digiunare, come aveva sognato un tempo, e gli riusciva senza sforzo come aveva predetto, ma nessuno contava più i giorni, nessuno, nemmeno il digiunatore, sapeva quanto alta era ormai la sua prova e il suo cuore si sentì oppresso. E se una volta, in quel tempo, qualche sfaccendato si fermava dinanzi alla gabbia, considerava con ironia la cifra altissima e parlava di imbroglio, era, in questo senso, la più stupida menzogna che l’indifferenza e un’innata malignità avevan potuto inventare; poiché non era il digiunatore ad ingannare egli lavorava onestamente ma il mondo lo frodava del premio che si meritava. 

E passarono ancora molti giorni ed anche questo finì. Un giorno la gabbia dette nell’occhio a un custode, che chiese agli inservienti perché si tenesse lì quella gabbia ancora buona ad usarsi, senza utilizzarla, con tutta quella paglia fradicia; nessuno lo sapeva, sinché uno, col soccorso dei cartelli, non si ricordò del digiunatore. La paglia venne smossa con delle stanghe e vi si trovò il digiunatore. «Digiuni dunque ancora?» chiese il custode, «quando ti deciderai a smettere?». «Perdonatemi voi tutti» sussurrò il digiunatore; ma soltanto il custode che teneva l’orecchio accosto alle sbarre, lo intese. «Ma certo» disse il custode, toccandosi la fronte con un dito per accennare al personale lo stato in cui si trovava il poveretto, «ti perdoniamo.» «Ho voluto sempre che ammiraste il mio digiuno» continuò il digiunatore. «E noi, infatti, ne siamo ammirati» disse condiscendente il custode. «E invece non dovete ammirarlo» replicò il digiunatore. «E allora non lo ammireremo» rispose il custode, «ma poi perché non dobbiamo farlo?». «Perché sono costretto a digiunare» continuò il digiunatore. «Ma senti un po’» disse il custode «perché non ne puoi fare a meno?». «Perché io» disse il digiunatore, sollevando un poco la sua piccola testa e parlando con le labbra appuntite come per un bacio proprio all’orecchio del custode, «perché non riuscivo a trovar il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato non avrei fatto tante storie e mi sarei messo a mangiare a quattro palmenti come te e gli altri». Furono le sue ultime parole, ma nei suoi occhi spenti si leggeva ancora la ferma, anche se non più superba convinzione di continuare a digiunare. 
Lo ammiriamo! - Non dovreste. Perchè non ho scelta...Devo digiunare
«E ora fate ordine!» disse il custode; e il digiunatore fu sotterrato insieme alla paglia. Nella gabbia fu messa poi una giovane pantera. E vedere nella gabbia sì a lungo deserta dimenarsi quella fiera fu un sollievo per tutti, anche per gli spettatori più ottusi.
Non le mancava nulla. Il cibo che le piaceva, glielo portavano senza tante storie i guardiani; non sembrava neppure che la belva rimpiangesse la libertà; quel nobile corpo, perfetto e teso in ogni parte sin quasi a scoppiarne, pareva portare con sé anche la libertà; sembrava celarsi in qualche punto della dentatura; e la gioia di vivere emanava con tanta forza dalle fauci, che agli spettatori non era facile resistervi. Ma si dominavano, circondavano la gabbia e non volevano saperne di andar via. 

Racconti, a cura di Ervino Pocar, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1970

domenica 5 ottobre 2014

Narcisismo e analisi del Sè. Trasformazioni terapeutiche nell'analisi di personalità narcisistiche (Kohut, H., 1971).


(articolo redatto da: Alessia D'Alterio; Antonietta Madia)



Alcuni concetti chiave:

Amore oggettuale: c’è differenza tra le dinamiche oggettuali e quelle narcisistiche. La personalità si forma mediante l’interiorizzazione della libido narcisistica investita sull’oggetto-sé. La libido narcisistica svolge un ruolo anche nei rapporti oggettuali ed è un carburante per molte attività socioculturali come la creatività. Un esempio della differenza tra amore narcisistico e oggettuale riguarda il caso emblematico della personalità dipendente, la quale non ricerca l’oggetto della sua dipendenza in quanto tale ma per le funzioni che essa svolge e che non è in grado di adempiere in quanto non si è stabilita una sufficiente struttura superegoica. Gli oggetti ricercati in questo caso non sono dunque né desiderati, né riconosciuti come oggetti in senso pulsionale (ovverosia investiti di libido in sé), bensì essi sono necessari in quanto pezzi del Sé dell’individuo non interiorizzati. I disturbi narcisistici possono essere molto precoci e rivelare una debolezza strutturale massiva, possono riguardare il periodo pre-edipico interferendo con lo sviluppo della struttura di neutralizzazione (Io), o edipici configurandosi sottoforma di una struttura superegoica carente e alla ricerca continua di oggetti esterni di validazione.

Traslazione idealizzante: si parla di traslazione idealizzante in relazione alla perfezione narcisistica totale dell’oggetto-sé arcaico onnipotente e idealizzato e alla sua riattivazione nel contesto analitico. Lo sviluppo psichico non si esaurisce nell’investimento mediante pulsioni: la mente tende a sovrapporre esperienze analoghe di oggetto-sé riattivate nel transfert e le idealizzazioni lasciano un’impronta duratura nella personalità.

Io-Sè: una delle maggiori innovazioni teoriche introdotte da Kohut riguarda una differenziazione tra le strutture già note dal lavoro metapsicologico di Freud nella seconda topica e la definizione di un nuovo concetto: il Sé. I due vertici di osservazione psicoanalitici dell’evoluzione psichica non sono alternativi, bensì possono essere considerati in maniera parallela anche se gerarchica. Mentre l’evoluzione dello sviluppo funzionale dell’Io è conseguente a quello del Sé, non si può dire il contrario, in quanto il Sé costituisce una costellazione psicologica organizzata di base che determina in maniera drammatica qualsiasi tipo di esito successivo, anche pulsionale. La focalizzazione analitica dall’aspetto pulsionale a quello narcisistico vira anche l’attenzione dell’osservatore o studioso in senso sociologico: i tempi sono cambiati e ciò a cui assistiamo nella clinica non è più l’Uomo colpevole freudiano che punta alla soddisfazione pulsionale, bensì l’Uomo tragico volto disperatamente alla ricerca e alla realizzazione del proprio Sé.

Nevrosi di traslazione: riguarda la lotta tra le pulsioni infantili e le forze interne che vi si oppongono. In questa circostanza l’analista come figura di traslazione, non è sperimentato nell’ottica di un rapporto interpersonale, bensì come portatore di strutture endopsichiche inconsce (ricordi inconsci) dell’analizzando (Es.: un paziente racconta di non aver pagato il biglietto dell’autobus per arrivare in seduta. Egli nota che il volto dell’analista è serio mentre lo saluta. In questo caso l’analista come figura di traslazione è un’espressione del Super-io[1] inconscio dell’analizzando).

Sé grandioso: nella concezione dello sviluppo psichico kohutiana, il narcisismo assume valore centrale. Il Sé grandioso è definito contemporaneamente all’IPI come struttura arcaica di quello che sarà poi il Sé maturo. Il rapporto con l’ambiente reale (la madre) determinerà pertanto gli esiti di quello che è stato precedentemente definito da Freud (1914) narcisismo primario. La possibilità del bambino di concentrare su se stesso tutta la perfezione e il potere, consentirà lo sviluppo di un livello libidico narcisistico adeguato allo sviluppo di un Sé vitale e coeso e, in definitiva, di una personalità integra e sana.

Empatia: Capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro. Con questo termine si suole rendere in italiano quello tedesco di Einfuhlung. In estetica, il termine indica un tipo di percezione vissuta antropomorficamente di fronte a oggetti: una colonna sottile che regge un grosso capitello può suscitare un senso di disagio, di squilibrio, di sforzo. Questi fenomeni sono stati studiati da T. Lipps (1903) come emozioni estetiche. L’empatia è la capacità di comprendere a pieno lo stato d'animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore. Empatia significa sentire dentro ed è una capacità che fa parte dell’esperienza umana ed animale. Si tratta di un forte legame interpersonale e di un potente mezzo di cambiamento. Il concetto può prestarsi al facile riduttivismo mettersi nei panni dell’altro, mentre invece significa andare non solo verso l’altro, ma anche portare questi nel proprio mondo. Essa rappresenta, inoltre la capacità di un individuo di comprendere in modo immediato i pensieri e gli stati d'animo di un’altra persona. L’empatia è dunque un processo: essere con l’altro. L’empatia costituisce un modo di comunicare nel quale il ricevente mette in secondo piano il suo modo di percepire la realtà per cercare di far risaltare in sé stesso le esperienze e le percezioni dell’interlocutore. È una forma molto profonda di comprensione dell’altro perché si tratta d’immedesimazione negli altrui sentimenti. Ci si sposta da un atteggiamento di mera osservazione esterna (di come l’altro appare all’immaginazione) al come invece si sente interiormente (con quell'esperienza di vita, con quelle origini, cercando di guardare attraverso i suoi occhi).

Traslazione narcisistica: in maniera differente rispetto alla traslazione nevrotica in questo caso l’analista non funge da schermo per la proiezione della struttura interna dell’analizzando come avviene di norma nelle nevrosi, bensì egli diventa una “continuazione diretta di una realtà primitiva che era troppo distante, troppo rifiutante o troppo instabile per essere trasformata in una solida struttura psicologica” (Kohut, 1959, p. 17). Ovverosia rimette in moto lo sviluppo narcisistico del Sé del paziente, dal livello in cui esso è rimasto bloccato. Una differenza che si osserva nei pazienti con problematiche principalmente narcisistiche rispetto ai pazienti nevrotici – o anche nei pazienti nevrotici stessi che ad ogni modo secondo Kohut devono essere trattati secondo le innovazioni scientifiche della Psicologia del Sé –, è possibile differenziare la qualità conflittuale nevrotica rispetto a quella narcisistica della tematica presentata in analisi mediante il tipo di angoscia manifestata. Quando questa concerne un fatto preciso, delimitato e concreto, essa è manifestazione di nevrosi, mentre quando l’angoscia è diffusa, ciò è indicatore di una maggiore compromissione patologica che riguarda la coesione di base del Sé, e spesso la sensazione che si ha all’ascolto di questi pazienti è di senso di soffocamento e noia.

Kohut fornisce una panoramica rispetto agli effetti specifici e aspecifici dell’elaborazione della traslazione narcisistica.
Il cambiamento aspecifico più importante riguarda la maggiore capacità di amore oggettuale.
I fattori specifici invece riguardano tutti strettamente l’ambito del narcisismo (empatia, creatività, saggezza e umorismo).

Accrescimento ed espansione dell’amore oggettuale

1) Costituisce una mobilitazione libidica secondaria resa possibile in conseguenza della riattivazione dei legami affettivi che erano precedentemente inaccessibili a causa del muro regressivo del narcisismo.
Il Sé si apre al mondo esterno ed esce dall’isolamento in virtù della maggiore libido idealizzante ora disponibile a depositarsi sugli oggetti.

2) L’accresciuta capacità di amore oggettuale del paziente narcisista è collegata anche in maniera diretta all’elaborazione dell’area primaria della psicopatologia, ovverosia del narcisismo. Gli investimenti oggettuali sono più profondi a livello emotivo rispetto a quanto lo fossero in precedenza. L’investimento oggettuale, se non era già presente in precedenza verrà mobilitato dall’analisi.
L’investimento libidico oggettuale è facilitato dalla maggiore libido idealizzante resa disponibile dall’elaborazione del narcisismo.
Tale genere di progresso deriva dall’elaborazione sistematica della traslazione idealizzante.
Il risultato del maggiore investimento oggettuale con cariche idealizzanti, produce una maggiore intensità nell’esperienza erotica del paziente sia che essa riguardi la relazione amorosa con un altro essere umano, che la devozione ai suoi impegni e doveri.
Ora sarà possibile gestire in maniera più equilibrata le cariche libidiche: la componente narcisistica dell’amore totale è relativa, essa contribuirà all’esperienza d’amore del soggetto, ma gli investimenti libidici centrali mobilitati saranno di tipo oggettuale.
La maggiore disponibilità degli investimenti oggettuali non indica comunque che il narcisismo messo in moto dalla situazione analitica (libido sul Sé) si sia trasformato completamente di fatto in amore oggettuale, tutt’al più questa maturazione è dovuta alla libido oggettuale che era già presente, ma che era stata rimossa.
Questo tipo di configurazione riguarda il risultato terapeutico dei settori definiti da Kohut di “psicopatologia secondaria” ovverosia la nevrosi di traslazione, in un paziente che soffre in via primaria di un disordine narcisistico della personalità.
Kohut ribadisce il doppio registro già delineato in precedenza rispetto alla metapsicologia e quindi alle possibilità di cura: da un lato c’è la condizione narcisistica e le vicende del Sé, dall’altro l’Io e il destino delle sue strutture.
L’attenzione alla questione narcisistica tuttavia è centrale e fondamentale e deve essere, secondo Kohut (1971, 1977), prioritaria rispetto alla considerazione dei conflitti pulsionali, in quanto i benefici dell’analisi delle problematiche narcisistiche determinano anche, in conseguenza, il buon esito della strutturazione delle funzioni dell’Io.
La possibilità di amore oggettuale, passa attraverso l’investimento libidico del Sé e la sua coesione. Un sé coeso può investire gli oggetti libidici delle proprie pulsioni, mentre un Sé non integro o frammentato, blocca le proprie capacità di investimento ad un livello tale che i moti oggettuali pulsionali saranno preclusi o immaturi.

3) Un risultato aspecifico dell’analisi sistematica del narcisismo è anche l’accresciuta capacità di amore oggettuale dovuta alla maggiore forza del Sé, ovverosia alla maggiore coesione e delimitazione dei confini del Sé al di là dei suoi investimenti. Così come l’Io accresce la sua capacità di gestire una varietà di compiti professionali alla maggiore coesione del Sé, l’Io diventa centro esecutore della maggiore capacità di amore oggettuale. Dice Kohut (1971, p. 286): “Quanto più sicura è una persona riguardo alla possibilità di essere accettata, quanto più certo è il suo senso di chi egli sia, e quanto più interiorizzato è il suo sistema di valori, tanto più egli riuscirà ad offrire il suo amore con fiducia e in maniera efficace (a estendere cioè i suoi investimenti libidico-oggettuali) senza un’indebita paura di essere rifiutato e umiliato”. 

Sviluppi progressivi e integrativi dell’ambito narcisistico

Kohut si riferisce ai risultati del trattamento psicoanalitico dei disturbi narcisistici affermando che è in quest’ambito che avvengono i risultati più significativi e determinanti. Essi riguardano:
1)             L’imago parentale idealizzata che viene integrata nelle strutture dell’Io e del Super-io: a) man mano che gli aspetti pre-edipici precoci arcaici sono abbandonati vengono interiorizzati in forma neutralizzata e diventano parte della struttura dell’Io che resta adibita a tali funzioni (neutralizzazione, controllo e incanalamento). Il paziente infatti inizialmente è in grado di svolgere queste funzioni solo se si sente fuso e unito all’analista idealizzato; b) gli aspetti preedipici tardi ed edipici dell’imago parentale idealizzata vengono quindi abbandonati, interiorizzati e depositati nel Super-io. Il Super-io diventa una fonte di comando e guida interna, di approvazione stimolante, di maggiore integrazione dell’Io e dell’omeostasi narcisistica, che il paziente in precedenza godeva solo se si sentiva legato all’analista idealizzato e corrisposto.
2)             Il Sé grandioso che produce un’integrazione sia della grandiosità infantile che della libido esibizionistica arcaica: a) la prima viene integrata nelle ambizioni e negli scopi della personalità conferendo vigore ai moti maturi della personalità e sensazione di avere diritto al successo. Questo sentire da conquistatore (Freud 1917, p. 14; 1953, p. 29) è un derivato addomesticato dell’assolutismo solipsistico della psiche infantile; b) la seconda viene anch’essa neutralizzata dalle mete infantili di soddisfacimento per fluire nelle mete adattate e socialmente importanti della realtà adulta. L’esibizionismo che era causa di vergogna diventa fonte di autostima e di piacere sintonico all’Io.
3)             L’elaborazione della traslazione narcisistica è dunque una conquista che riguarda la personalità totale, ma dipende dalla mobilitazione delle posizioni narcisistiche arcaiche.

Empatia

E’ descritta da Kohut come una modalità conoscitiva adatta alla percezione di configurazioni psicologiche complesse.
L’Io utilizza l’empatia quando deve raccogliere dati psicologici, mentre usa modalità non empatiche per raccogliere dati di differente natura, ovverosia non inerenti la vita interiore dell’uomo (vedi Freud 1915c per differenza tra campo psicologico e non psicologico). Ci sono diversi tipi di disturbi che riguardano l’uso dell’empatia alcuni più gravi, altri minori.

I disturbi gravi dell’empatia sono distinti da Kohut in due gruppi:
1)             Uso improprio dell’empatia nell’osservazione di aree esterne al campo dei dati psicologici complessi. Utilizzare l’empatia per osservare dati non psicologici porta ad una percezione erronea della realtà, prerazionale, animistica, manifestazione di infantilismo percettivo e conoscitivo. Anche nella psicologia scientifica l’empatia non conduce da sola alla spiegazione dei dati psicologici. Bisogna analizzare le interconnessioni causali in termini lontani dall’osservazione (Hartmann, 1927). Se l’empatia si espandesse dalla raccolta di dati alla fase esplicativa della psicologia scientifica – definita verstehend ovvero comprensiva (Dilthey, 1924; Jaspers, 1913) e non erklärend cioè esplicativa – ciò equivarrebbe a una regressione sentimentaleggiante alla soggettività ovverosia un infantilismo conoscitivo nell’ambito delle attività scientifiche umane.
2)             Uso improprio dell’empatia nell’osservazione di aree riguardanti il campo dei dati psicologici complessi. Non utilizzando l’empatia in questi casi la realtà psicologica viene letta in senso meccanicistico ed inanimato. In questa categoria cadono i difetti più gravi dell’empatia ovvero quelli di natura primaria, dovuti a fissazioni o regressioni narcisistiche, nell’area degli stadi arcaici dello sviluppo del Sé. Quest’ultimo genere di mancanza di empatia è ricondotto da Kohut a disturbi precoci del rapporto madre-bambino, dovuti a freddezza emotiva della madre o insensibilità congenita del bambino o ancora, mancanza di coerenza nel rapporto. Questo tipo di problematica porta anche al fallimento nell’istaurarsi dell’imago parentale idealizzata, al blocco delle prime fasi di relazione empatica tra madre e bambino e all’iperinvestimento degli stadi primitivi del Sé corporeo (autoerotico) e del Sé grandioso, anch’esso bloccato per carenza delle necessarie risposte di ammirazione da parte della madre.

Ci sono poi una serie di disturbi minori o secondari dell’empatia. Kohut fa l’esempio dell’incapacità da parte di allievi in fase di training psicoanalitico di essere empatici nei confronti dei loro pazienti. Questa mancanza di empatia si configura come un’inibizione difensiva ed è una formazione reattiva contro la percezione animistica del mondo che viene rimossa oppure più frequentemente isolata e scissa. Secondo Kohut essa, ed è tipica delle personalità ossessive.

Risposte emotive e soggettive ai sentimenti altrui e valutazione oggettiva ovvero scientifica dei dati psicologici. L’empatia è a volte considerata simile all’intuizione, ciò porta a stabilire un illegittimo contrasto tra risposte emotive e soggettive ai sentimenti altrui e valutazione oggettiva. L’intuizione tuttavia non è strettamente correlata all’empatia: essa riguarda una serie di operazioni che vengono svolte molto velocemente da un medico, così come da come un computer che vaglia in breve tempo diverse combinazioni; tuttavia essa si differenzia dai giudizi non intuitivi soltanto per la sua velocità. La psicoanalisi ha consentito di utilizzare l’empatia intuitiva degli artisti e dei poeti nel campo della ricerca scientifica. Tuttavia lo psicoanalista deve essere capace di comprensione empatica così come di abbandonare tale tipo di comprensione, questo tipo di capacità di oscillazione tra le due posizioni consente di raccogliere i dati psicologici utili e di poterli poi analizzare per spiegarli. Questo tipo di oscillazione rispecchia la configurazione pratica/teoria: c’è bisogno di insight e dell’ampiezza dell’esperienza emotiva umana così come del lavoro teorico.
Un compito specifico dell’analisi didattica è pertanto quello di sciogliere le posizioni narcisistiche dell’analizzando nei settori legati alle capacità empatiche, fino a raggiungere un dominio dell’Io per il quale egli ha acquisito la capacità autonoma di adoperare o abbandonare la posizione empatica a seconda delle esigenze professionali.
La capacità empatica aumenta in conseguenza alla mobilitazione del narcisismo arcaico congelato, mentre diminuisce la capacità intuitiva che è una sostituzione del desiderio di onniscienza e del pensiero magico con la logica. La possibilità di abbandonare il dominio dell’intuizione implica la possibilità di sopportare i ritardi imposti dall’osservazione attenta dei dati. Eccezione a questo processo riguarda le personalità che avevano opposto forti formazioni reattive contro il pensiero magico e la propria onniscienza (due caratteristiche tipiche del narcisismo arcaico): esse diverranno maggiormente razionali ma più veloci, e si baseranno maggiormente sul preconscio invece di elaborare lungamente e faticosamente i dati.

La mobilitazione del narcisismo arcaico determina comunque una espansione delle capacità empatiche che è sempre autentica: per quanto riguarda l’oggetto idealizzato, esso aumenta l’empatia nei confronti degli altri, nel caso del Sé grandioso, soprattutto l’empatia nei confronti di sé stessi.
Questo obiettivo dell’analisi può essere oggetto di resistenze che bloccano il progresso analitico oppure lo capovolgono contemporaneamente una volta che esso è stato raggiunto.
Come illustrato da Kohut nel cap. 11, ci sono varie resistenze che si oppongono allo sviluppo dell’empatia nel corso della sua acquisizione. Tali resistenze possono presentarsi allo stesso modo nella situazione analitica.
Nel caso in cui il disturbo empatico è legato ad una mancanza di empatia nei genitori (essa è difettosa o inattendibile) il bambino cerca espedienti per tenere gli altri a distanza in modo da proteggersi dalla delusione di non essere compreso o ricevere risposte adeguate (vedi cap. 1 su personalità schizoide). In questo caso particolare la psiche del paziente si sentirà esposta a due tipi di pericoli:
1)             oltre al piacere il paziente avvertirà una sensazione spiacevole di eccitamento e stimolazione, seguito da un’angoscia suscitata dal timore di fusione regressiva che può manifestarsi sotto forma di illusione temporanea di identità corporea e porta al tentativo di contenere o scaricare le tensioni sessualizzandole in maniera grossolana (vedi cap. 8 su stati traumatici).
2)             Si determinano resistenze legate a paure di passività, specialmente per gli uomini come rischio di sottomissione.
Queste paure nascono dalla comprensione che l’analista è un essere umano capace di reagire con emozioni ed empatia all’analizzando.
La protezione dell’isolamento narcisistico e il pericolo che comporta rinunciare a questa sicurezza vengono descritti da Kohut nel sogno del signor Q. Questo paziente aveva perso la madre nella prima infanzia e a seguire anche altre figure materne.

“Sognò che era solo in casa e che guardava fuori dalla finestra; accanto a sé aveva il suo equipaggiamento da pesca. Attraverso la finestra vedeva numerosi bei pesci, grandi e piccoli, che nuotavano tutt’intorno, e provava il desiderio di andare a pescare. Si rendeva conto però che la sua casa era in fondo al lago e che non appena avesse aperto la finestra per pescare, l’intero lago avrebbe invaso la casa e l’avrebbe sommerso” (Kohut, 1971, p. 295).

Altre resistenze possono manifestarsi come rifiuto della comprensione dell’analista che si suppone piena di condiscendenza: l’empatia accompagnata da un atteggiamento di cura diretta attraverso la comprensione amorevole può essere autoritaria e noiosa ovvero poggiare sulle irrisolte fantasie di onnipotenza dell’analista.
Seppure l’analista sia attento all’uso dello strumento empatico utilizzandolo come forma di comunicazione appropriata, il semplice fatto che il paziente acconsenta ad essere compreso e corrisposto empaticamente lo lascia esposto alla paura arcaica delle delusioni precoci. Egli può pertanto diventare sospettoso, sentirsi manipolato dall’analista etc. Questi atteggiamenti paranoidi in genere durano poco e vengono risolti nell’interpretazione genetica e dinamica. Qualunque sia l’esito delle resistenze ad ogni modo un accrescimento delle capacità empatiche verso gli altri e l’accettazione che anche gli altri possano comprendere maggiormente sentimenti, desideri e bisogni si può osservare con grande regolarità nei pazienti narcisisti.



Creatività
Sostanzialmente Kohut intende per creatività lo sbocco che si apre agli investimenti narcisistici che vengono trasformati nel corso di un trattamento psicoanalitico.- investimenti narcisistici che prima del trattamento psicoanalitico erano congelati nell’area del Sé grandioso e dell’imago parentale idealizzata.
A riguardo, il primo quesito che Kohut si pone è quale sia il parametro che ci porta ad individuare quali siano le attività creative, se solo quelle artistiche o anche quelle scientifiche.
Una prima netta distinzione è quella di considerare la Scienza come la scoperta di Formazioni già preesistenti e l’Arte come introduzione nel mondo di nuove configurazioni.
Ma questa differenziazione non è poi così netta perché:
1)             Le scoperte scientifiche non descrivono solamente fenomeni esistenti in quanto la successiva operazione dello scienziato è quella di incanalare in una certa direzione specifica lo sviluppo scientifico;
2)             Altresì per il genio artistico che potrà determinare non solo un nuovo stile ma anche la direzione in cui si svilupperà.
Ma dobbiamo tenere presente anche:
1)             Che la scienza si sarebbe potuta svolgere in una direzione diversa, da quella in cui di fatto si è sviluppata - la nostra comune concezione scientifica è quella di credere che la scienza può svilupparsi solo nel modo che di fatto constatiamo ed in merito, gli scritti del fisico Alexander Koyrè ci dimostrano i procedimenti artistici eseguiti nel campo della fisica;
2)             Allo stesso modo non dobbiamo trascurare il fatto che alcune opere artistiche sono il riflesso di qualcosa che è preesistente.
Ma se paragoniamo le opere Artistiche e quelle Scientifiche all’interno di uno schema oggettivo riserveremo l’attributo di creatività solo a quelle artistiche; e solo in senso metaforico a quelle scientifiche.
Ma se proviamo a passare da un discorso generale ad uno più particolare che ci porta ad un confronto tra le due personalità prese  in esame valuteremo che:
1)             La personalità dell’artista (rispetto allo scienziato) in linea generale, possiede investimenti narcisistici che tendono ad essere meno neutralizzati e la sua libido esibizionistica si sposta tra sé e il suo prodotto investito narcisisticamente con una fluidità maggiore che nello scienziato. Sempre in linea generale, possiamo dire che un controllo rigido dell’esibizionismo di un artista potrebbe interferire con la sua performance. D’altra parte invece l’emergere di istanze grandiose ed esibizionistiche di un Sé grandioso ed arcaico sarebbe un forte ostacolo ad una corretta produzione scientifica.
A questo riguardo fa riferimento l’esempio del rapporto epistolare tra Freud e Fliess, in cui traspare l’esibizionismo giovanile di Freud e al contempo il controllo su ogni sua spinta verso il compiacimento, attraverso il rifiuto a partecipare a feste date in suo onore, o alla sua presa di distanza dal  carattere magico ed ipocrita dei messaggi di congratulazioni che gli giungevano.
L’esempio di Freud serve da traccia per osservare la curva di sviluppo di un grande scienziato: essa sembrerebbe rivolta poco alla stimolazione della propria persona, limitandosi all’investimento libidico neutralizzato ed inibito alla meta.
La differenza tra l’artista e lo scienziato diventa ancora più evidente quando osserviamo che un’opera artistica ultimata è intoccabile perché legata strettamente alla personalità dell’autore; mentre se uno scienziato ha formulato  la sua teoria che successivamente viene integrata o revisionata in parte da un altro scienziato non vi sarebbero i margini d’infrazione proprio perché l’opera scientifica porta in se un carattere di indipendenza dal suo ideatore.
Ma al di la di queste considerazioni che hanno un carattere della generalità, è vero anche che ci sono scoperte scientifiche che vengono fuori con il segno di una vera e propria opera d’arte e altresì nel campo dell’arte ci sono capolavori compiuti da anonimi che contraddicono l’affermazione in cui l’operatore è inestricabilmente legato al suo creatore.
A paragone con lo scienziato l’artista investe la sua opera con la libido narcisistica meno neutralizzata e resta identificato con il suo prodotto.
Le attività artistiche e scientifiche che vengono fuori durante il processo analitico di  disordini narcisistici sono comunque fenomeni analoghi e ricoprono un ruolo analogo nel processo psicoanalitico.
L’ondata di attività creative non di rado sopravviene come misura di emergenza perché l’Io deve fronteggiare la libido narcisistica precedentemente rimossa e quindi ha breve durata (vedi Kohut - il caso della signorina F.).
Quando il processo di elaborazione psicoanalitica prosegue in modo corretto si creano nuove configurazioni stabili come l’autostima e la formazione di un ideale.
Man mano che gli investimenti narcisistici vengono rimossi terapeuticamente, essi vanno ad incrementare l’interesse sublimatorio al punto che un hobby insignificante può diventare una vera e propria attività soddisfacente e l’approvazione pubblica diventerà un sostegno all’autostima del paziente.
Portiamo l’esempio del signor E. che nella prima fase dell’esperienza psicoanalitica non riusciva a svolgere le attività artistiche, ma successivamente inizia ad avere attività sublimatorie nell’intervallo del fine settimana in cui rimaneva separato dalle sedute psicoanalitiche. Nato prematuro, viene messo in incubatrice; successivamente portato a casa non viene toccato dai genitori. Sua madre, dopo una malattia, muore quando il paziente aveva sedici anni.
Nella tarda infanzia il paziente si esibiva nelle sue prodezze sull’altalena, ma la madre non rispose empaticamente e con il dovuto sostegno; fu da allora che il bambino iniziò pericolose attività voyeristiche nel bagno di una fiera pubblica come risposta ai suoi desideri esibizionistici.
Con questa perversione, egli esprimeva bisogni arcaici nell’ambito di istanze esibizionistiche frustrate e le attività artistiche gli fornirono una certa visibilità, utile al suo bisogno di contatto alla luce della sua storia nella primissima infanzia.
Il lavoro sublimatorio che trovò un forte slancio negli ultimi anni del suo trattamento analitico non fu soltanto un modo di risolvere i suoi bisogni di contatto e fusione ma divenne una grande fonte di riconoscimento sociale ed economico.
Lo stretto collegamento tra bisogni di contatto frustrati e il desiderio di fusione - che si trasformò successivamente in una modalità di grande sensibilità verso il mondo intero - è un fenomeno che possiamo osservare in molti poeti: John Keats aveva la tendenza ad identificarsi con oggetti inanimati (palle da biliardo). A ciò era associata una profonda e sensibile capacità di comprensione delle cose che si manteneva attiva solo se gli arrivava il calore degli amici.
Il poeta con il suo identificarsi con la palla da biliardo testimoniava la natura narcisistica del suo rapporto creativo con l’ambiente.
Un certo potenziale creativo rientra nella vita di molte persone in cui, problematiche intellettuali ed artistiche irrisolte sono causa di uno squilibrio narcisistico che trovano a loro volta sollievo anche attraverso semplici attività come le parole crociate o lo spostamento di un mobile in una stanza.
Alcune personalità creative durante momenti d’intensa produzione artistica hanno un forte bisogno  di  una relazione empatica.
Tale bisogno è particolarmente intenso tanto più le scoperte conducono in ambiti nuovi ed inesplorati.
Questo sembrerebbe attribuibile al fatto che l’atto creativo porta con se l’isolamento.
Questo se da una parte è esaltante dall’altra costituisce anche un’esperienza terrifica in quanto verrebbe a rappresentare il trauma infantile di essere abbandonato.
In una simile situazione può capitare che anche il genio elegga una persona del suo ambiente ad oggetto onnipotente con cui fondersi.
Questo lascia intravedere un Sé creativo in espansione che ha bisogno di trarre forza da un oggetto idealizzato.
Fliess fu per Freud l’oggetto di traslazione narcisistica durante la sua produzione letteraria più importante ed egli rinunciò al senso illusorio della grandezza di Fliess, quando terminò il suo compito creativo.
Alla Creatività degli analisti Kohut dedica un’attenzione speciale.
Egli afferma che al termine di un’analisi didattica, la trasformazione delle posizioni narcisistiche può apportare non solo una maggiore capacità empatica ma anche un’accresciuta attività ricca di spunti di autentica creatività.
Questa creatività sembra scaturire dal bisogno incessante di indagare su certe aree psicologiche non elaborate nell’analisi personale; nasce quindi il bisogno di superare l’empasse attraverso una nuova analisi.
Ma se il lavoro analitico è incompleto a causa della scienza psicoanalitica che non è progredita, questo stesso fattore diventa lo stimolo che conduce ad altre ricerche. Tuttavia ciò avviene se l’incompletezza dell’analisi didattica è riconosciuta dal ricercatore.
“Proprio come in altre attività scientifiche, la creatività degli analisti è risvegliata da molti stimoli e alimentata da altre fonti, tra cui i conflitti patogeni del ricercatore.” (…) “Io credo che la vera creatività psicoanalitica possa essere motivata dal bisogno imperioso di indagare su certe aeree psicologiche che non sono state completamente chiarite nell’analisi personale” (Kohut, 1971, p. 306).
Per alcuni analisti potenzialmente creativi, gli aspetti irrisolti di una traslazione narcisistica può, durante o al termine, essere spostata su Freud come imago paterna; a riguardo la paura della perdita di fusione narcisistica con l’immagine del padre può innescare sentimenti controfobici di ribellione che in ultima analisi determineranno un forte senso critico della sua opera.
Conseguenza sterile può essere un’incessante polemica teorica che non è sostituita da un contributo positivo finalizzato all’ampliamento della nostra conoscenza psicologica dell’uomo.
Quando invece l’analizzando sta evolvendo verso lo scioglimento del proprio legame narcisistico traslativo con l’analista si possono manifestare attività creative libere da qualsiasi funzione difensiva da parte dell’Io.
Esse costituiscono di frequente vere e proprie riattivazioni di tentativi creativi che risalgono alla latenza  e alla adolescenza.
Kohut cita l’esempio del signor P., un giovane uomo che in prossimità della fine della sua analisi inizia a scrivere racconti brevi e molto interessanti: essi erano imperniati su tematiche di un adolescente pieno di senso di solitudine, senso di estraniamento dal mondo e con attività sessuali alquanto grossolane; è alla ricerca di un amico da cui essere protetto rispetto a tutto ciò.
Tralasciando il significato specifico di fronteggiare nella sua analisi il pericolo della perdita superegoica, quello che è più interessante è il rapporto tra questi racconti e l’elaborazione di problemi simili che si manifestarono in un “sogno bagnato” fatto più di vent’anni prima e che accompagnò la prima polluzione notturna:
“nel sogno il paziente contemplava un paesaggio di grande bellezza e pace…prati ondulanti e ruscelli serpeggianti in cui l’acqua scorreva gaia riflettendo il blu di un cielo senza nuvole. Piccoli gruppi di alberi circondavano le abitazioni di uno stile rustico ed anche se non c’era nessuno vi erano numerose tracce di vita: mucche che pascolavano e pecore bianche che spiccavano nel verde dei prati. Improvvisamente la pace veniva turbata da un rombo lontano. Il paziente alzava lo sguardo e scopriva che il paesaggio da lui contemplato era una vallata ai piedi di un’alta diga. Il rombo minaccioso sembrava provenire da lì e improvvisamente il paziente notava delle fessure profonde nella diga. Tutti i colori del paesaggio mutavano in maniera percettibile ma significativa. Il blu del cielo e dell’acqua diventava nerastro. Il verde dell’erba cambiava in un verde acceso e innaturale e gli alberi sembravano più scuri. Le fenditure nella diga si allargavano e poi tutto ad un tratto un vortice di acqua brutta, brutta e distruttiva ne usciva fuori, inondando la campagna con tutta la sua bellezza , spazzando  via gli alberi, le case e gli animali. L’ultima impressione indimenticabile che il paziente ebbe prima di svegliarsi inorridito fu la vista del bianco delle pecore che si mutava nel bianco dei cavalloni vorticosi che avviluppavano tutto”.
Tralasciando il significato complesso presente in tutto il sogno possiamo dire che esso esprimeva l’esperienza del disturbo narcisistico racchiuso nella sua beatitudine (il paesaggio è il simbolo del corpo del paziente); disturbo causato dall’irrompere di elementi sadici sessuali che sfociavano nella polluzione.
Come si diceva prima, le trasformazioni delle tensioni narcisistiche liberarono l’Io artistico che poté iniziare ad investire oggetti-Se di natura più elevata con la produzione di racconti brevi .
Considerando che possono esserci delle eccezioni, possiamo considerare che molte creazioni artistiche che emergono nella fase finale dell’analisi, sono il risultato delle trasformazioni di vecchie istanze narcisistiche patogene.

Umorismo e Saggezza.
Kohut ritiene che il senso umoristico autentico sia un altro risultato delle trasformazioni delle istanze narcisistiche arcaiche e patogene che avviene nel corso del trattamento psicoanalitico.
Ma ancor di più l’umorismo accompagna e completa il rafforzamento dei valori ed ideali.
Bisogna valutare se l’attaccamento ai valori ed ideali è spontaneo e autentico cioè lontano da una sorta di fanatismo e quindi accompagnato da un senso delle proporzioni e soprattutto che le istanze narcisistiche sono neutralizzate ed inibite alla meta. In altre parole sarebbe da accertare clinicamente, il ridimensionamento delle fantasie grandiose e l’abbandono di modalità perfezioniste che fanno emergere un misto equilibrato di ideali e senso dell’umorismo.
L’Io del paziente diventa capace di vedere adesso in proporzioni realistiche le ispirazioni del Sé grandioso infantile e soprattutto di sorridere e divertirsi su quelle configurazioni con ritrovato senso di libertà.
Il commento della sig.na F ne è una prova: “Credo che il crimine che lei ha commesso e per cui non può esservi perdono, è che lei non è me”.  
La conquista della saggezza è una delle vette dello sviluppo umano non tanto e non solo per quanto attiene la trasformazione dei disturbi narcisistici ma in generale in qualsiasi crescita e trasformazione umana.
La saggezza acquisita durante il trattamento psicoanalitico consiste nel passaggio da una semplice informazione dei dati ad una maggiore e più profonda consapevolezza del funzionamento della propria mente. 
L’inizio di questo percorso che porta alla saggezza è contrassegnato, per il paziente, da una buona conoscenza di se stesso ma anche dell’analista; ma soprattutto dall’accettazione da parte del paziente di quel carattere passeggero che connota l’esistenza individuale.
Questo è il prerequisito che favorisce nel paziente il rafforzamento dell’autostima stante la consapevolezza dei propri limiti, conflitti inibizioni e tendenze alla grandiosità che possono permanere ma avvolte da una buona dose di consapevolezza.

Bibliografia
Dilthey, W., (1924), Ideen ubere ine beschreibende und zergliederne Psychologie, in Gesammelte Schriften, vol. 5 (Teubern, Lipsia).
Freud, S., (1905), Tre saggi sulla teoria sessuale. In Opere. Vol. IV, Bollati Boringhieri, Torino
Freud, S., (1914b), Introduzione al narcisismo. In Opere. Vol. VII, Bollati Boringhieri, Torino
Freud, S., (1915-17), Introduzione alla psicoanalisi. In Opere, Vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino, 1976.
Hartmann, 1927 Understanding and Explanation in Hartmann (1964) Essays on Ego psychology, Int. Univ. Press, New York.
Kohut, H., (1959-1981), Introspezione ed empatia. Raccolta di scritti. Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
Kohut, H., (1971), Narcisismo e analisi del Sé. Bollati Boringhieri, Torino, 1976.
Kohut, H., (1977), La guarigione del Sé. Bollati Boringhieri, Torino, 1980.
Jaspers, K., (1913), Psicopatologia gnereale. Pensiero Scientifico, Roma, 1963.




[1] Imago inconscia del padre. Nella nevrosi, a differenza dei disturbi più gravi (narcisistici) ciò avviene in quanto il paziente ha già formato la struttura Superegoica sulla base delle relazioni reali vissute con i genitori.

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