Raccolta di scritti, articoli, abstract, paper, traduzioni, stralci da testi classici o contemporanei, commentari e critica psicoanalitica dal 2013
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giovedì 22 dicembre 2022
Studio sul disgusto come regolatore dello stato del Sé, valori, principi e istinto di allontanamento
Freud (1899) osservò che in alcuni casi di nevrosi che non erano strutturalmente ossessivi, emergeva un nucleo isterico (cioè di esternalizzazione, o manifestazione sintomatica attraverso il corpo).
Alcuni soggetti per esempio si mostravano disgustati dai bisogni fisici, e dalla sessualità in particolare: "che schifo dottore"; "mi fa vomitare". Freud riconobbe questo tipo di comportamento nel caso di Dora. In Dora il disgusto prendeva il posto del desiderio e Freud si interroga sulle motivazioni profonde e inconsce di questo atteggiamento. Il disgusto, concluse, appare allora come segno dell'avversione ad accogliere un desiderio, di cui il soggetto isterico diventa testimone. Il corpo diviene il mezzo e il veicolo attraverso il quale viene elaborato un trauma di origine sessuale; così afferma agli albori della prima topica.
Ne "Il disagio della civiltà", Freud (1929) elevò il disgusto a forma di dignità nella condizione umana, una forma di resistenza che impedirebbe l'accesso alla soddsfazione: "A volte sembra di percepire che non è solo la pressione della civiltà, ma qualcosa nella natura stessa della sua funzione a negarci la piena soddisfazione e a spingerci verso altre strade". E spiega ulteriormente le ragioni di questa resistenza in una nota: "la funzione sessuale è accompagnata da una resistenza che non può essere ulteriormente spiegata, e che impedisce la completa soddisfazione costringendo ad allontanarci dalla meta, per dirigerci verso sublimazioni e spostamenti libidici".
L'emozione del disgusto è stata descritta da Darwin Ekman (1972) tra le emozioni fondamentali, insieme a rabbia, tristezza, felicità, paura e sorpresa.
Il disgusto emerge nei momenti in cui siamo immersi in un contesto intersoggettivo nel quale c'è una grossa frattura, ovverosia una discrepanza pressocchè incolmabile tra valori, opinioni, modalità comportamentali e di pensiero, tali che valicano i limiti di ciò che riteniamo accettabile, consono, sintonico e degno.
Nel termometro omeostatico dell'equilibrio narcisistico (inteso in senso ancora non clinico, come stima di sè in noce) il disgusto svolge una funzione importante, segnalandoci una necessità imperativa di allontanamento, il fatto che siamo immersi in un sistema diverso (Altro) da noi, sbagliato, potenzialmente danneggiante e pericoloso, nel caso in cui un danno non è già, di fatti, ricevuto. Nel linguaggio non verbale la reazione immediata all'emozione del disgusto è quella ad esempio, di alzare le mani in segno di difesa, come a protezione del Sè.
Procedendo in senso inverso al contrario del disgusto troviamo infatti proprio il desiderio, la stima, l'apprezzamento, la sintonizzazione, il bisogno di vicinanza e connessione, il legame e il dialogo. Tutti elementi che promuovono la possibilità della crescita dell'interazione in questione.
Leggendo la dinamica del disgusto in termini di regolazione affettiva possiamo far risalire il disgusto a tutte quelle interazioni legate all'ambito dell'ansia e dell'intrusività, le reazione automatiche di allontanamento e difesa, che cercano di comunicare all'altro nella relazione l'inappropriatezza della comunicazione proposta. In senso verbale, come in senso non verbale tale interazione può altrettanto essere disturbante, causando quindi tipi di reazioni analoghe: la necessità di una cesura, una chiusura, un blocco, un allontanamento.
Che indicatori sono questi in senso clinico? Tutte le volte che abbiamo a che fare con queste emozioni ci troviamo in un territorio nel quale la mente ci segnala la necessità di difesa, il bisogno di riparazione e il rischio pervasivo di un trauma importante perlomeno (nella migliore ipotesi) in senso relazionale, paura, pericolo incombente.
Bibliografia
Ekman, P. (1972). Le differenze universali e culturali nelle espressioni delle emozioni
Freud, S.,(1899) L'Interpretazione dei sogni
Freud, S., (1929) Il disagio della civiltà
lunedì 4 maggio 2020
Unicità e acrobazia. Sindrome da impostore, pseudologia fantastica, mitomania. Il millantatore o bugiardo patologico e le caratteristiche dell'identità diffusa
Karl Friedrich Hieronymus von Münchhausen, conosciuto come il Barone di Münchhausen (Bodenwerder, 11 maggio 1720 – Bodenwerder, 22 febbraio 1797), è stato un militare tedesco. È il personaggio a cui si è ispirato Rudolf Erich Raspe per il protagonista del romanzo "Le avventure del barone di Münchhausen". Il vero barone era infatti divenuto famoso per i suoi inverosimili racconti: tra questi, un viaggio sulla Luna, un viaggio a cavallo di una palla di cannone e il suo uscire incolume dalle sabbie mobili tirandosi fuori per i propri capelli.
Ed io sempre ho preferito originale
anche tristo ad ottima copia.
(Vittorio Alfieri)
È una malattia che Jung identificò quando studiava Hitler, e chiamò pseudologia fantastica. Consiste nell'inventarsi una bugia e finire col credere che sia una verità.
(Federico Orlando)
È una malattia che Jung identificò quando studiava Hitler, e chiamò pseudologia fantastica. Consiste nell'inventarsi una bugia e finire col credere che sia una verità.
(Federico Orlando)
I caratteri nevrotici ne soffrono in senso fruttuoso, basato cioè su una colpa dimensionata, ovverosia che corrisponde a un certo senso di inadeguatezza utile e non invalidante; consapevole dei propri limiti e potenzialità, che può aiutarli spronandoli a crescere e migliorare, proprio basandosi su un senso di realtà adeguato. I narcisisti maligni invece come illustrato nelle vignette di Kernberg (1984), possono creare facilmente un'ideazione patologica e ripetuta che fondamentalmente pone le basi per sfiorare la psicosi (un certo scollamento dalla realtà ancora nell'ambito tuttavia della fantasia). Può capitare che, come si dice in inglese, alcuni di questi personaggi tornino a casa con il cadavere ("going away with murder" espressione idiomatica che sta a significare - "farla franca"), in poche parole che di fatto essi riescano a vendersi per ciò che non sono neppure. Presentano agli altri, cioè, un ideale grandioso che di fatto non corrisponde a una concretezza raggiunta. Sono personaggi tragici, vuoti, assetati dello stesso veleno che alimentano in una corsa verso un podio inesistente, un nulla cosmico, sostenuto fortemente tra traumi infantili di mancato riconoscimento e sintonizzazione e una consistente e inesauribile vergogna. I più, li elogeranno anche, non rintracciando nei loro toni altisonanti il tipico gonfiore inconsistente. In queste circostanze connotate sempre da un sentore verso il "più", l' "alto", il "migliore" (e chi più ne ha più ne metta in tal senso) si salva solo chi scappa. Scappare quindi, da chiunque si presenti con toni altisonanti in genere è l'unica via d'uscita al meccanismo delle somme e sottrazioni - l'unico linguaggio che questi soggetti conoscono e sono in grado di proporre e riproporre in tante salse diverse della stessa solfa. La grandezza reale, o anche un'autostima equilibrata non manca mai di umiltà; l'originalità è la capacità di essere chi si è, senza bisogno di crearsi un'identità fantastica o fotocopiata. Dunque fuggite dai re del tutto io (un tutto io non so essere).
Così ne parla Alice Miller:
"Ho conosciuto una donna che a carnevale si dava alle più sfrenate follie, perchè ciò significava per lei l'unica possibilità di essere libera e creativa. Ma più tardi, quando essa fu in grado di mostrare l'altra faccia di sè stessa tramite la creatività, invece che mettendosi in maschera, il suo interesse per il Carnevale si limità alla realizzazione di decorazioni e costumi. Lei personalmente non volle più indossare costumi mascherati, perchè ciò le ricordava tutta la triste dissimulazione della sua vita precedente. Simili e analoghe esperienze mi hanno portato a pensare se un giorno non sarà possibile far crescere i bambini in maniera tale che essi in seguito possano apprezzare di più tutti i lati della loro natura, senza essere invece costretti a reprimere i lati proibiti con tanta intensità, da doverli poi sfogare in forma violenta e oscena. ... Il falso Sé "buono" è il risultato della cosiddetta socializzazione, delle norme sociali che i genitori ci hanno trsmesso in maniera consapevole e intenzionale, e il Sé "cattivo" pure lui falso, trova le sue radici nelle primissime percezioni del comportamento dei genitori, visibile solo dal loro figlio usato come valvola di sfogo. Esso viene considerato come la "natura umana. E' senza dubbio offensivo e scomodo per la gente venire a sapere che le valvole di sfogo, finora ben nascoste che si credeva aver trovato nell'educare i propri figli dimostrino di avere un effetto venefico sulla generazione futura. (Miller, 1989, p. 199)
Heinz Kohut:
I diversi tipi di tendenza alla pseudologia fantastica possono essere classificati nel modo seguente:
a) può essere dovuta a una pressione del Sé grandioso, nel qual caso le bugie attribuiscono qualche successo importante al Sé del bugiardo
b) può essere dovuta alla pressione del bisogno di un oggetto idealizzato, nel qual caso le #bugie attribuiscono importanti risultati, grandi ricchezze, economiche o intellettuali, o elevato status sociale a un'altra persona che occupa uno posizione di #leadership (è cioè una figura parentale) nei confronti del paziente.
Nella loro forma relativamente più manifesta le falsificazioni riguardano il padre reale del paziente o altri parenti della generazione dei genitori. (Kohut, 1971, pp. 113)
Winnicott:
"Il vero sé (noto anche come sé reale, sé autentico, sé originale e sé vulnerabile) e il falso sé (noto anche come sé sociale, sé idealizzato, sé superficiale e pseudo sé) sono concetti psicologici, originariamente introdotti in psicoanalisi nel 1960 da Donald Winnicott . Winnicott ha usato il vero sé per descrivere un senso di sé basato su un'esperienza autentica spontanea e la sensazione di essere vivi, di avere un sé reale. Il falso sé, al contrario, Winnicott vedeva come una facciata difensiva, che, in casi estremi, poteva lasciare i suoi detentori privi di spontaneità e sentirsi morti e vuoti, dietro una mera apparenza di essere reali. I concetti sono spessi citati in relazione al narcisismo"
Kernberg:
"Vi è (...) un gruppo di pazienti che si colloca tra il disturbo narcisistico di personalità e il disturbo antisociale di personalità; esso è caratterizzato da ciò che io denomino sindrome di narcisismo maligno (1984). Tale sindrome è definita dalla combinazione di: 1) un disturbo narcisistico di personalità; 2) un comportamento antisociale; 3) aggressività egosintonica o sadismo rivolto verso gli altri o espresso mediante un particolare tipo di automutilazione trionfante o tentativi di suicidio; 4) un forte orientamento paranoide".
Per pseudologia fantastica (o mitomania o bugia patologica) si intende un'elaborazione intenzionale e dimostrativa di esperienze o eventi molto poco probabili e facilmente confutabili. In un lavoro del 2012 Katie Elizabeth Treanor la definisce "l'abituale, prolungata e ripetuta produzione di mistificazioni, spesso di natura complessa e fantasiosa (...), bugie facilmente mascherabili che non vengono utilizzate per ottenere un tornaconto materiale o qualsivoglia vantaggio sociale, quanto per accrescere la propria autostima o proteggersi dal giudizio altrui".
Il paziente fa sue, come vissute, le esperienze che inventa di sana pianta, elabora ricordi come se fossero momenti realmente vissuti. La pseudologia fantastica è una categoria nosografica che è stata discussa in psichiatria, descritta per la prima volta da Anton Delbrück nel 1891, caratterizzata dal ricorso abituale alla bugia. Si ritrova in soggetti narcisistici, istrionici o psicopatici (i cosiddetti "bugiardi patologici") e può riguardare i più disparati eventi o argomenti (luoghi, avventure galanti, situazioni improbabili, etc.), amplificati parossisticamente fino a raggiungere gradi altissimi di inverosimiglianza. Viene considerata un prodotto diretto dell'immaginazione: non dipende pertanto da deficit di memoria e non deve quindi essere confusa con le confabulazioni.
Caratteristiche principali della pseudologia fantastica sono le seguenti:
Le storie raccontate sono di solito avvincenti e fantasiose, ma non vanno troppo oltre la realtà. La possibilità di verità è la chiave di sopravvivenza del bugiardo patologico. Non sono dovute a manifestazioni di depressione o a una psicosi più ampia: durante il confronto il bugiardo patologico può anche ammettere che le storie non sono vere, anche se controvoglia.
La tendenza ad inventare storie è cronica; non è provocata dalla situazione immediata o da pressioni sociali, ma più da un innato tratto della personalità.
Un motivo totalmente personale, e non esterno, serve a discernere la patologia clinicamente: es., situazioni pericolose o di stress possono indurre una persona a mentire ripetutamente, senza evidenza di un reale sintomo patologico.
Le storie raccontate tendono a dipingere come positiva la persona del narratore. Il bugiardo "decora la sua stessa persona" raccontando storie che lo presentano come eroe o come vittima. Per esempio, la persona si presenta nelle storie come estremamente coraggiosa, dice di conoscere persone importanti e famose, o dice di guadagnare più soldi di quanti ne guadagni in realtà. (Wikipedia)
Kernberg, Otto F. (1993). Severe personality disorders: Psychotherapeutic strategies. New Haven, CT: Yale University Press.
Kohut, Heinz (1971) The Analysis of the Self: A Systematic Approach to the Psychoanalytic Treatment of Narcissistic Personality Disorders . International Universities Press, New York.
Winnicott, D. (1960). Ego Distortion in Terms of True and False Self - The Maturational Processes and the Facilitating Environment.
http://www.psicologiapsicoterapiapsicoanalisi.com/2014/10/narcisismo-e-analisi-del-se.html
venerdì 31 agosto 2018
L'amore non è abbastanza - dimmi come ami, ti dirò: "chi sei?"
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Mother!
è un film del 2017 scritto e diretto da Darren Aronofsky,
con protagonisti Jennifer Lawrence e Javier Bardem. |
Anche il più riuscito dei rapporti ha le sue falle.
Come insegnano i principi della regolazione affettiva delle interazioni umane (Tronick, 1989; Beebe, Lachmann, 2002) è impossibile essere perfettamente sintonizzati con qualcuno la maggior parte del tempo; spesso e a maggior ragione nei momenti di maggiore crisi individuale o svincolo evolutivo. Nell'osservazione diretta dell'interazione madre-bambino è possibile osservare che i momenti di "rottura" o anche "pausa" sono essenzialmente più frequenti rispetto a quelli di "incontro" e tali disgiunzioni attese vengono considerate parte del normale processo interattivo, cui segue una forma riparativa - più o meno funzionale a seconda della specifica diade. Tali principi sono stati applicati con successo allo studio delle relazioni adulte. E' infatti possibile prevedere sin dall'osservazione delle interazioni infantili una linea evolutiva che segnerà l'orientamento regolativo generale dell'individuo verso una sicurezza o insicurezza dell'attaccamento (Bowlby, 1969, 1972, 1980; Ainsworth et al., 1978).
I conflitti esistenti nell'ambito delle relazioni affettive familiari e intime possono avere un impatto generalmente sottovalutato ma di enorme portata per la salute mentale, lasciando la persona ripetutamente ansiosa, scossa, paurosa, triste o impotente, fino a sentirsi bloccata; oppure con un costante vissuto di essere sbagliata, in difetto o inadeguata. I maggiori danni sostenuti - sia dal soggetto che le mette in atto, sia da chi le riceve - solitamente riguardano le strategie di difesa di basso livello rispetto all'esame di realtà, quali ad esempio l'aggressività passiva, ovverosia un comportamento celato e socialmente accettabile o giustificabile che nasconde effettivamente un danno inferto, ma anche e soprattutto la rabbia narcisistica, con i difetti empatici che ne consegue; la manipolazione emotiva istericoforme, e le dinamiche di squilibrio di potere (schiavo-padrone e dipendenze). A livello nevrotico più alto sono invece facilmente riscontrabili colpa e vergogna.
Le dinamiche succitate sono in bassa percentuale e occasionalmente vissute anche nella maggiorparte delle interazioni, ma aumentando in frequenza e pervasività descrivono i più comuni circoli disfunzionali delle relazioni apertamente e storicamente conflittuali. Si osserverà, in queste ultime più frequentemente, un'organizzazione del tono emotivo focalizzato sul negativo, piuttosto che sul positivo, e un basso livello di capacità di accettazione, comprensione e reciprocità.
Possiamo sviluppare relazioni dannose con chiunque nel corso della vita – la relazione dannosa con un partner ad esempio (oppure un dirigente, un amico, etc.). Ciò che è utile osservare in termini clinici è che spesso questo genere di rapporti consiste in uno specchio o ripetizione di antiche dinamiche familiari, relative ai rapporti originari con genitori, fratelli, figure di riferimento primarie, etc.
I rapporti dannosi con i caregiver in particolare, sono particolarmente comuni, e soprattutto difficili da affrontare e gestire perché legati a un dogma sociale e culturale estremamente radicato, specialmente nella cultura italiana.
Uno degli elementi meno considerati in merito, ad esempio, è la continuità dell’influenza invalidante che ne deriva. Questo perchè non si può “lasciare” un genitore e andare a cercarsene uno nuovo, come si fa più spesso con gli amici o con un partner. Il senso di colpa e la disapprovazione che la società impone sulle spalle di chi vive problemi di questo tipo possono spesso essere una motivazione sufficiente ad una sofferenza silenziosa, taciuta e nascosta.
La società impone intorno a nucleo familiare una serie di “convenzioni” basate su assunzioni essenzialmente false: la neo-mamma che deve essere per forza eternamente felice e instancabile, e soprattutto volta al sacrificio della sua identità distinta dall'essere madre; i “genitori che sono sempre i genitori” quindi intoccabili e nel giusto per definizione etc. Ma ce ne sarebbero tante altre parte dell'esperienza comune che resta tuttavia come dissociata.
La realtà degli eventi però ci mostra in modo irrefutabile che vivere in un ambiente con dinamiche disfunzionali, o di negazione/diniego, genera a lungo termine un logorio che determina una serie di problemi che richiedono un successivo inevitabile lavoro di emancipazione ed attenzione costante. Ciò che non si osserva, si ripete, con le conseguenze del caso.
Sacrificare continuamente il proprio benessere per il quieto vivere con un parente distruttivo, intrusivo o invalidante ad esempio, significa “fare la cosa giusta”? Ci sono molte opzioni tra il soffrire costantemente le problematiche che presenta un caregiver e il tagliarlo completamente fuori.
Tagliare fuori un caregiver estremamente dannoso, tuttavia, nei casi in cui questo è strettamente necessario, ovvero in tutti quei casi in cui il soggetto diventa vittima di soprusi, violenze, sviluppa sintomi fisici o psicopatologici, problemi comportamentali etc., non è una tragedia, ma un effettivo diritto e una necessità. In questi casi diventa più evidente come il dogma sociale condiviso si attiene, in realtà, alla maggioranza di persone che fortunatamente non ha una misura di cosa implichi un contesto simile. Oppure a chi ha dolorosamente internalizzato un sistema di diniego tale che si è conformato al proprio ambiente, pagandone tuttavia un caro prezzo consapevolmente o meno.
Quali sono i segni più insidiosi, nascosti e comuni di una relazione "originaria" o "ripetuta" dannosa?
Innanzitutto, una mancata capacità di rispettare gli spazi e i bisogni dell'altro, figlio, partner, amico etc. Tali meccanismi originano spesso dal comportamento di un genitore che vive l'identità separata del figlio come un rifiuto verso di lui (vedi invertimento dei ruoli genitore-figlio, invischiamento e responsabilità per la felicità dell'altro vissuto come incompleto, o parte mancante di sè).
In secondo luogo, l'evitamento dei momenti affettivi autentici, anche quelli negativi . Un evitamento del riconoscimento della parte emotiva dell'esperienza, nella sua totalità. Sviluppare un adeguato livello di accettazione e compassione, verso se stessi e verso gli altri, può essere molto complicato quando chi avrebbe dovuto prendersi cura di noi ha ignorato i nostri bisogni più profondi e basilari, ponendoci di fronte ai propri. La sensazione può essere quella di essere invisibili (inesistenti, non importanti), o come se i propri sentimenti o bisogni emotivi costituiscano un fastidio, pertanto debbano essere nascosti (in questi contesti viene promosso un alto tasso di vergogna - mancata accettazione, o senso di indegnità che si trasmetterà non solo nelle relazioni "ripetute" ma anche spesso a livello trans-generazionale nella successiva prole).
Un pensiero molto comune può essere: “In fin dei conti ho avuto un tetto sopra la testa e del cibo. Non dovrei lamentarmi”. La sofferenza che si sperimenta in questo genere di trascuratezza emotiva tuttavia è reale, nonostante il fatto che per altri possa essere andata peggio.
Gli abusi fisici reiterati causano un danno più evidente, ma l’abuso e l’abbandono emotivo (anche solo minacciato) può creare profonde cicatrici.
L’entità del trauma sperimentato non dovrebbe essere misurata su una scala che prevede una legittimazione soltanto sulla base della gravità evidente e marcata (esteriore o tangibile) del danno. Un danno emotivo può essere invisibile e tuttavia continuare ad essere invalidante per il resto della vita.
In essenza vivere la propria vita occupando un posto nel mondo significa affrancarsi dalla storia, osservandola come distinta da un destino disegnato. Ovverosia apprendere una nuova libertà emotiva e relazionale dalle ripetizioni del passato, acquisendo consapevolezza e padronanza sulla propria storia e le proprie modalità, e mettendo in atto le nuove capacità apprese in contesti più accoglienti.
mercoledì 5 luglio 2017
Fluttuazioni narcisistiche e compassione nello sviluppo e decorso dei DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare)
Searching all directions
with your awareness,
you find no one dearer
than yourself.
In the same way, others
are thickly dear to themselves.
So you shouldn't hurt others
if you love yourself.
(TheravadaUdana 47 - Rajan Sutta)
Un recente articolo pubblicato sulla
rivista Eating Behaviours ha
esaminato il ruolo della compassione verso di sé, nelle
problematiche relative all’immagine corporea e allo stile alimentare.
Cos’è la compassione per sé stessi? Essa riguarda
un atteggiamento di cura e gentilezza
verso di sé,
piuttosto che di giudizio; la capacità di riflettere
sul proprio dolore
con umanità, piuttosto che rifugiarsi
nell’isolamento; la consapevolezza dei propri limiti, piuttosto
che rimuginare
sui fallimenti (Neff,
2003a).
Quali sono i rapporti tra autostima e compassione per sé stessi? L’autostima può essere definita come una valutazione complessiva positiva di sé (Rosenberg, 1965); la compassione riguarda invece una forma più stabile e incondizionata di cura di sé, che si differenzia dalle fluttuazioni narcisistiche (ad esempio assumere un atteggiamento rigidamente difensivo verso l’ottimismo o il pessimismo). In tal senso la differenza tra autostima e compassione per sé stessi consiste nell’espressione di un giudizio perentorio (polarizzato, fisso) riguardante il proprio valore, rispetto alla possibilità di accettarsi semplicemente per quel che si è nella propria unicità, cioè proprio perché “sé stessi”.
La compassione verso di sé, ha comunque un’influenza significativa sull’equilibrio narcisistico: un sano livello di autostima infatti, prevede il riconoscimento delle proprie qualità e dei propri limiti in maniera bilanciata. Tale costrutto come aspetto basilare della compassione psicologica in senso più ampio (rivolta agli altri), è stata associato anche alla possibilità di riconoscere il proprio ruolo in situazioni di crisi, imparare dai propri errori, e alla capacità di riconoscere e accettare parti di sé (positive o meno) per ciò che sono.
Quali sono i rapporti tra autostima e compassione per sé stessi? L’autostima può essere definita come una valutazione complessiva positiva di sé (Rosenberg, 1965); la compassione riguarda invece una forma più stabile e incondizionata di cura di sé, che si differenzia dalle fluttuazioni narcisistiche (ad esempio assumere un atteggiamento rigidamente difensivo verso l’ottimismo o il pessimismo). In tal senso la differenza tra autostima e compassione per sé stessi consiste nell’espressione di un giudizio perentorio (polarizzato, fisso) riguardante il proprio valore, rispetto alla possibilità di accettarsi semplicemente per quel che si è nella propria unicità, cioè proprio perché “sé stessi”.
La compassione verso di sé, ha comunque un’influenza significativa sull’equilibrio narcisistico: un sano livello di autostima infatti, prevede il riconoscimento delle proprie qualità e dei propri limiti in maniera bilanciata. Tale costrutto come aspetto basilare della compassione psicologica in senso più ampio (rivolta agli altri), è stata associato anche alla possibilità di riconoscere il proprio ruolo in situazioni di crisi, imparare dai propri errori, e alla capacità di riconoscere e accettare parti di sé (positive o meno) per ciò che sono.
In che modo la compassione verso di sé incide nello sviluppo dei DCA? Kelly,
Vimalakhantan e Carter (2014) hanno trovato che il miglior predittore per lo
sviluppo di disturbi alimentari consisteva in un basso livello di compassione verso di sé. Pazienti con problematiche alimentari che
riuscivano a sviluppare la capacità di essere compassionevoli verso di sé
durante il trattamento,
mostravano una
risposta migliore alle cure, nel corso di 12
settimane (Kelly,
Carter,
e Borairi,
2014).
Questi dati suggeriscono che la possibilità di accettare sé stessi gioca un ruolo importante nella gestione dell’immagine corporea e nella gestione dell’alimentazione in relazione alle problematiche narcisistiche legate al piacersi fisicamente, e al “sentirsi abbastanza”.
I ricercatori Kelly, Vimalakhantan e Carter (2014) hanno anche evidenziato un altro aspetto relativo alla compassione verso sé stessi: il timore di provarla oppure di ricevere compassione dagli altri risultava essere il miglior predittore rispetto al mantenimento della problematica alimentare. Come vengono letti questi risultati clinicamente? Ricevere compassione dagli altri o provare compassione verso di sé, può rappresentare un’esperienza relativamente spaventosa per alcuni individui in quanto essa implica un’ammissione di vulnerabilità (cioè della propria umanità rispetto a un’illusoria onnipotenza), che può essere negativamente letta come debolezza o fallibilità. Tale livello di perfettibilità in questi casi si scontrerà con le difese narcisistiche più resistenti (“devo essere perfetto/a o non sono niente”).
Secondo Gilbert et al., (2011) le persone che temono di più la compassione in realtà sono convinte di non meritarla; oppure sono eccessivamente (irrealisticamente) preoccupate di abbassare i propri standard e apparire deboli agli altri (quindi in maniera amplificata a sé stessi). E’ stato visto che queste persone mostrano in media un livello più alto di psicopatologia rispetto alla popolazione totale.
Questi dati suggeriscono che la possibilità di accettare sé stessi gioca un ruolo importante nella gestione dell’immagine corporea e nella gestione dell’alimentazione in relazione alle problematiche narcisistiche legate al piacersi fisicamente, e al “sentirsi abbastanza”.
I ricercatori Kelly, Vimalakhantan e Carter (2014) hanno anche evidenziato un altro aspetto relativo alla compassione verso sé stessi: il timore di provarla oppure di ricevere compassione dagli altri risultava essere il miglior predittore rispetto al mantenimento della problematica alimentare. Come vengono letti questi risultati clinicamente? Ricevere compassione dagli altri o provare compassione verso di sé, può rappresentare un’esperienza relativamente spaventosa per alcuni individui in quanto essa implica un’ammissione di vulnerabilità (cioè della propria umanità rispetto a un’illusoria onnipotenza), che può essere negativamente letta come debolezza o fallibilità. Tale livello di perfettibilità in questi casi si scontrerà con le difese narcisistiche più resistenti (“devo essere perfetto/a o non sono niente”).
Secondo Gilbert et al., (2011) le persone che temono di più la compassione in realtà sono convinte di non meritarla; oppure sono eccessivamente (irrealisticamente) preoccupate di abbassare i propri standard e apparire deboli agli altri (quindi in maniera amplificata a sé stessi). E’ stato visto che queste persone mostrano in media un livello più alto di psicopatologia rispetto alla popolazione totale.
In conclusione, la capacità di ricevere e provare compassione è
un importante fattore protettivo contro lo sviluppo di disturbi alimentari (così come altri tipi di dipendenze
compulsive) e può facilitare la remissione
dei sintomi quando il disturbo è già presente. Essa può quindi essere considerata un
importante obiettivo terapeutico nel corso del trattamento dei DCA, e di altri
tipi di disturbi in generale.
Bibliografia
Kelly,
A.C., Carter, J.C., Borairi, S. (2014), Are
improvements in shame and self-compassion early in eating disorders treatment
associated with better patient outcomes? International Journal of Eating
Disorders, 47(1),54-64.
Kelly,
Vimalakhantan, Carter (2014), Understanding
the role of self-esteem, self-compassion, and fear of self-compassion in eating
disorder pathology: An examination of female students and eating disorder
patients. Eating Behaviours, 15 (2014) 388-391.
Neff, K. D.,
(2003a), Self compassion: An alternative
conceptualization of a healthy attitude toward oneself. Self and Identity,
2(2), 85-101.
Rosenberg, M.
(1965), Society and the adolescent
self-image. Princeton: Princeton University Press.
martedì 29 marzo 2016
Un artista del digiuno (Kafka, 1922)
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La gabbia |
In questi ultimi decenni l’interesse pei digiunatori è molto diminuito. Mentre prima
meritava metter su spettacoli di questo genere per proprio conto, oggi sarebbe
assolutamente impossibile. Erano altri tempi quelli.
Tutta la città si occupava allora del
digiunatore; a ogni giorno di digiuno aumentava l’interesse del pubblico; tutti volevano
vedere il digiunatore, almeno una volta al giorno; e negli ultimi giorni c’erano perfino
degli abbonati che sedevano intere giornate davanti alla sua piccola gabbia; anche di
notte avevano luogo delle visite alla luce delle fiaccole, per aumentare l’effetto; quando
il tempo era bello la gabbia veniva trasportata all’aperto, e allora erano specialmente i
bambini a cui veniva mostrato il digiunatore; mentre per gli adulti costituiva spesso solo
uno spasso, a cui si partecipava perché era di moda, i bimbi lo guardavano ammirati a
bocca aperta, tenendosi per precauzione per la mano, mentre egli, pallido, nella sua
maglia nera, con le costole esageratamente sporgenti, sdegnando perfino una poltrona,
se ne stava seduto sopra paglia sparsa qua e là, facendo a volte un cenno cortese con la
testa, a volte rispondendo alle domande con un sorriso sforzato o allungando un braccio attraverso le sbarre per far palpare la sua magrezza; e finiva poi per sprofondarsi in se
stesso senza occuparsi più di nessuno, neppure del battito dell’orologio – così
importante per lui – unico mobile della sua gabbia, per guardare fissamente cogli occhi
semichiusi dinanzi a sé, succhiando di quando in quando un sorso d’acqua da un
minuscolo bicchierino, per inumidirsi le labbra.
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Gli spettatori del digiunatore secondo il fumettista Crumb) |
Oltre agli spettatori consueti e mutevoli c’erano anche dei guardiani fissi, scelti
dal pubblico, che per una strana coincidenza eran di solito macellai e, sempre a tre per
volta, avevan il compito di sorvegliare il digiunatore giorno e notte, perché,
clandestinamente, non riuscisse a nutrirsi in qualche modo. Ma era solo una formalità,
adottata per tranquillità della folla, poiché gli iniziati sapevano bene che il digiunatore,
durante il periodo, non avrebbe toccato nessuna qualità di cibo, a nessun costo, neppure
se vi fosse stato costretto; lo impediva il rispetto verso la sua arte.
Ma naturalmente, non tutti i guardiani potevano intendere ciò; a volte si formavano dei gruppi di sorveglianti notturni che compivano il loro dovere molto superficialmente, si ritiravano di proposito in un cantuccio lontano, per darsi tutti a giuocar a carte, con l’intenzione evidente di dare al digiunatore il modo di fare un piccolo spuntino che, a loro parere, avrebbe potuto consumare ricorrendo a qualche segreta riserva.
Per il digiunatore nulla era più penoso di questi guardiani; lo facevano diventare melanconico, gli rendevano terribilmente difficile il digiuno; a volte riusciva a vincere la sua debolezza e cantava durante la veglia finché aveva fiato, per mostrar a quella gente quanto ingiustamente sospettavano di lui, ma serviva a poco, perché quelli invece lo ammiravano per la sua abilità di mangiare perfino mentre cantava. Preferiva di molto quei guardiani che si sedevano proprio vicino alla gabbia e, non contenti della fioca illuminazione notturna della sala, lo illuminavano con lampadine elettriche tascabili, che l’impresario metteva a loro disposizione.
Quella luce cruda non lo disturbava per nulla; tanto, dormire non poteva, mentre gli riusciva di appisolarsi un poco sempre, con qualsiasi illuminazione e a qualsiasi ora, anche se la sala era piena di gente e di fracasso; egli era dispostissimo a passare la notte con quei guardiani senza dormire mai; era pronto a scherzare con loro, a raccontare loro qualche storia della sua vita errante, ad ascoltare a sua volta i loro racconti, e tutto soltanto per tenerli svegli, per convincerli continuamente che non c’era nulla da mangiare nella gabbia e che egli digiunava come nessuno di loro avrebbe potuto fare. La sua felicità toccava il colmo, però, quando faceva giorno e, a sue spese, veniva portata loro un’abbondantissima colazione, su cui si gettavano con l’appetito proprio delle persone sane dopo una faticosa veglia notturna.
C’era, è vero, della gente che vedeva in questa colazione una scandalosa circonvenzione dei guardiani da parte sua, ma era un andar troppo oltre, e quando si chiedeva a quelle persone, se fossero disposte ad assumersi la veglia notturna senza colazione, per andare in fondo alla cosa, si dileguavano, pur restando fedeli ai loro sospetti. Questo d’altronde faceva parte di quei sospetti che circondavano comunque l’arte del digiuno. Nessuno infatti, era in condizione di passar tutti quei giorni e quelle notti ininterrottamente come guardiano accanto al digiunatore, e nessuno dunque poteva sapere, per propria esperienza, se il digiuno veniva osservato davvero senza interruzioni, in maniera assoluta; solo il digiunatore in persona era in grado di saperlo e di essere così anche lo spettatore pienamente soddisfatto del suo digiuno.
Egli invece non era soddisfatto mai, per un’altra ragione: forse non era dimagrito per il digiuno – tantoché alcune persone, pur dolenti, erano costrette a rinunciare a quello spettacolo perché non sopportavano la sua vista – ma piuttosto perché non era soddisfatto di sé. Egli solo sapeva – e nessuno iniziato lo sospettava – quanto fosse facile il digiunare. Era la cosa più facile del mondo. Non lo nascondeva neanche, ma non gli si prestava fede e, nel migliore dei casi, lo si riteneva modesto, più spesso avido di pubblicità o addirittura un imbroglione, a cui il digiunare certo era facile, perché sapeva renderselo tale, e aveva anche la faccia tosta di lasciarlo intendere. Tutto questo ormai l’aveva dovuto sopportare, e nel corso degli anni ci s’era perfino abituato, ma nell’intimo questo malcontento lo rodeva sempre, tant’è vero che mai, dopo nessun periodo di digiuno – questa testimonianza non gli si poteva negare – aveva lasciato la gabbia spontaneamente. Come termine massimo del digiuno l’impresario aveva fissato quaranta giorni, non gli permetteva di superare mai quel limite, neppure nelle metropoli ... e non senza ragione. L’esperienza insegnava che sino a quaranta giorni si poteva aumentare gradatamente l’attenzione di una città con una pubblicità sempre più intensa; più a lungo il pubblico non rispondeva più; si notava una sensibile diminuzione dell’affluenza; c’era naturalmente qualche divario, sotto quest’aspetto, tra un paese, tra una città e l’altra, ma la regola era che quaranta giorni costituissero il limite massimo.
Il quarantesimo giorno la porta della gabbia inghirlandata veniva aperta, una folla di spettatori entusiasmati gremiva l’anfiteatro, una banda militare suonava, due medici entravano nella gabbia per fare le misurazioni di rito al digiunatore, con un megafono venivano diffusi tra la gente i risultati dell’esame medico, e finalmente arrivavano due giovani signore, felici di esser state designate dalla sorte, per aiutare il digiunatore a uscire dalla gabbia, scendere due scalini e arrivare sino al tavolino ove era imbandito un pranzo da malati, preparato con cura. A questo punto il digiunatore si ribellava sempre. Porgeva di buon grado, sì, le braccia scheletriche alle signore chine su di lui, che gli tendevano le mani pronte per aiutarlo, ma non si voleva alzare.
Perché smettere il digiuno proprio ora, dopo quaranta giorni? Avrebbe resistito ancora a lungo per un tempo illimitato; perché farlo smettere proprio ora ch’era nel punto culminante del digiuno, anzi non c’era ancora arrivato? Perché defraudarlo della gloria di continuare ancora a digiunare, di diventare non solo il più grande digiunatore di tutti i tempi – questo, forse, lo era già – ma di superare perfino se stesso sino a un punto incredibile, perché sentiva che le sue possibilità di digiunare erano addirittura illimitate? Perché quella folla che dimostrava di ammirarlo tanto, aveva tanta poca pazienza con lui? Se resisteva lui a digiunare ancora, perché non voleva resister lei? E levava lo sguardo verso gli occhi di quelle signore, apparentemente così gentili, in realtà così crudeli, scuotendo la testa troppo pesante per il suo debole collo. E poi era stanco, se ne stava bene lì nella paglia e doveva invece rizzarsi in tutta la sua lunghezza, per andare verso quel cibo, il cui solo pensiero gli procurava una nausea, che solo per riguardo alle signore cercava faticosamente di soffocare. Ma poi avveniva quel che capitava sempre. Interveniva l’impresario e senza dir una parola – la musica non permetteva di scambiarne neppure due – levava le braccia sul digiunatore, come se invitasse il cielo a guardare una buona volta sulla paglia la sua opera, quel povero martire – e questo il digiunatore lo era, ma in tutt’altro senso, - afferrava il poveretto per la esile vita, facendo credere, con un eccesso di precauzione, di aver a che fare con un oggetto molto fragile, per consegnarlo poi – non senza averlo di nascosto scosso un poco, facendogli così oscillare in qua e in là senza controllo le gambe e il busto – alle signore, che erano intanto mortalmente impallidite.
Da quel momento il digiunatore tollerava tutto; la testa pendeva sul petto, come se fosse rotolata lì per caso, fermandosi per una qualche ragione inspiegabile; il corpo era tutto incavato; le gambe con le ginocchia serrate per istinto di conservazione, raspavano il suolo come se non fosse quello vero, ma lo stessero, a quel modo, soltanto cercando; e tutto il peso, per quanto modesto del suo corpo, gravava sopra una delle signore, che, cercando aiuto intorno e tutta ansimante – non s’era certo immaginata così quell’incarico onorifico – prima allungava il collo quanto era possibile, per preservare il viso dal contatto col digiunatore, ma poi, vedendo che non ci riusciva e che la sua più fortunata collega, non le veniva in soccorso, ma si contentava di reggere tremando davanti a sé la mano del digiunatore – un mucchietto d’ossa – scoppiava in lacrime tra le risate di soddisfazione della sala, per venir subito sostituita da un inserviente pronto già da tempo. Poi veniva il pasto, di cui l’impresario faceva ingerire qualche boccone al digiunatore caduto in un dormiveglia simile a un deliquio, mentre parlava allegramente, per distrarre l’attenzione del pubblico dallo stato pietoso in cui il poveretto si trovava; poi veniva ancora un brindisi al pubblico e l’impresario dava a intendere che glielo aveva sussurrato il digiunatore stesso; la banda sottolineava tutto con una rumorosa fanfara finale, la folla si disperdeva e nessuno aveva più diritto di essere scontento dello spettacolo, tranne il digiunatore, lui soltanto sempre.
Ma naturalmente, non tutti i guardiani potevano intendere ciò; a volte si formavano dei gruppi di sorveglianti notturni che compivano il loro dovere molto superficialmente, si ritiravano di proposito in un cantuccio lontano, per darsi tutti a giuocar a carte, con l’intenzione evidente di dare al digiunatore il modo di fare un piccolo spuntino che, a loro parere, avrebbe potuto consumare ricorrendo a qualche segreta riserva.
Per il digiunatore nulla era più penoso di questi guardiani; lo facevano diventare melanconico, gli rendevano terribilmente difficile il digiuno; a volte riusciva a vincere la sua debolezza e cantava durante la veglia finché aveva fiato, per mostrar a quella gente quanto ingiustamente sospettavano di lui, ma serviva a poco, perché quelli invece lo ammiravano per la sua abilità di mangiare perfino mentre cantava. Preferiva di molto quei guardiani che si sedevano proprio vicino alla gabbia e, non contenti della fioca illuminazione notturna della sala, lo illuminavano con lampadine elettriche tascabili, che l’impresario metteva a loro disposizione.
Quella luce cruda non lo disturbava per nulla; tanto, dormire non poteva, mentre gli riusciva di appisolarsi un poco sempre, con qualsiasi illuminazione e a qualsiasi ora, anche se la sala era piena di gente e di fracasso; egli era dispostissimo a passare la notte con quei guardiani senza dormire mai; era pronto a scherzare con loro, a raccontare loro qualche storia della sua vita errante, ad ascoltare a sua volta i loro racconti, e tutto soltanto per tenerli svegli, per convincerli continuamente che non c’era nulla da mangiare nella gabbia e che egli digiunava come nessuno di loro avrebbe potuto fare. La sua felicità toccava il colmo, però, quando faceva giorno e, a sue spese, veniva portata loro un’abbondantissima colazione, su cui si gettavano con l’appetito proprio delle persone sane dopo una faticosa veglia notturna.
C’era, è vero, della gente che vedeva in questa colazione una scandalosa circonvenzione dei guardiani da parte sua, ma era un andar troppo oltre, e quando si chiedeva a quelle persone, se fossero disposte ad assumersi la veglia notturna senza colazione, per andare in fondo alla cosa, si dileguavano, pur restando fedeli ai loro sospetti. Questo d’altronde faceva parte di quei sospetti che circondavano comunque l’arte del digiuno. Nessuno infatti, era in condizione di passar tutti quei giorni e quelle notti ininterrottamente come guardiano accanto al digiunatore, e nessuno dunque poteva sapere, per propria esperienza, se il digiuno veniva osservato davvero senza interruzioni, in maniera assoluta; solo il digiunatore in persona era in grado di saperlo e di essere così anche lo spettatore pienamente soddisfatto del suo digiuno.
Egli invece non era soddisfatto mai, per un’altra ragione: forse non era dimagrito per il digiuno – tantoché alcune persone, pur dolenti, erano costrette a rinunciare a quello spettacolo perché non sopportavano la sua vista – ma piuttosto perché non era soddisfatto di sé. Egli solo sapeva – e nessuno iniziato lo sospettava – quanto fosse facile il digiunare. Era la cosa più facile del mondo. Non lo nascondeva neanche, ma non gli si prestava fede e, nel migliore dei casi, lo si riteneva modesto, più spesso avido di pubblicità o addirittura un imbroglione, a cui il digiunare certo era facile, perché sapeva renderselo tale, e aveva anche la faccia tosta di lasciarlo intendere. Tutto questo ormai l’aveva dovuto sopportare, e nel corso degli anni ci s’era perfino abituato, ma nell’intimo questo malcontento lo rodeva sempre, tant’è vero che mai, dopo nessun periodo di digiuno – questa testimonianza non gli si poteva negare – aveva lasciato la gabbia spontaneamente. Come termine massimo del digiuno l’impresario aveva fissato quaranta giorni, non gli permetteva di superare mai quel limite, neppure nelle metropoli ... e non senza ragione. L’esperienza insegnava che sino a quaranta giorni si poteva aumentare gradatamente l’attenzione di una città con una pubblicità sempre più intensa; più a lungo il pubblico non rispondeva più; si notava una sensibile diminuzione dell’affluenza; c’era naturalmente qualche divario, sotto quest’aspetto, tra un paese, tra una città e l’altra, ma la regola era che quaranta giorni costituissero il limite massimo.
Il quarantesimo giorno la porta della gabbia inghirlandata veniva aperta, una folla di spettatori entusiasmati gremiva l’anfiteatro, una banda militare suonava, due medici entravano nella gabbia per fare le misurazioni di rito al digiunatore, con un megafono venivano diffusi tra la gente i risultati dell’esame medico, e finalmente arrivavano due giovani signore, felici di esser state designate dalla sorte, per aiutare il digiunatore a uscire dalla gabbia, scendere due scalini e arrivare sino al tavolino ove era imbandito un pranzo da malati, preparato con cura. A questo punto il digiunatore si ribellava sempre. Porgeva di buon grado, sì, le braccia scheletriche alle signore chine su di lui, che gli tendevano le mani pronte per aiutarlo, ma non si voleva alzare.
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Il circo rappresentato da Juan Esplandiu |
Perché smettere il digiuno proprio ora, dopo quaranta giorni? Avrebbe resistito ancora a lungo per un tempo illimitato; perché farlo smettere proprio ora ch’era nel punto culminante del digiuno, anzi non c’era ancora arrivato? Perché defraudarlo della gloria di continuare ancora a digiunare, di diventare non solo il più grande digiunatore di tutti i tempi – questo, forse, lo era già – ma di superare perfino se stesso sino a un punto incredibile, perché sentiva che le sue possibilità di digiunare erano addirittura illimitate? Perché quella folla che dimostrava di ammirarlo tanto, aveva tanta poca pazienza con lui? Se resisteva lui a digiunare ancora, perché non voleva resister lei? E levava lo sguardo verso gli occhi di quelle signore, apparentemente così gentili, in realtà così crudeli, scuotendo la testa troppo pesante per il suo debole collo. E poi era stanco, se ne stava bene lì nella paglia e doveva invece rizzarsi in tutta la sua lunghezza, per andare verso quel cibo, il cui solo pensiero gli procurava una nausea, che solo per riguardo alle signore cercava faticosamente di soffocare. Ma poi avveniva quel che capitava sempre. Interveniva l’impresario e senza dir una parola – la musica non permetteva di scambiarne neppure due – levava le braccia sul digiunatore, come se invitasse il cielo a guardare una buona volta sulla paglia la sua opera, quel povero martire – e questo il digiunatore lo era, ma in tutt’altro senso, - afferrava il poveretto per la esile vita, facendo credere, con un eccesso di precauzione, di aver a che fare con un oggetto molto fragile, per consegnarlo poi – non senza averlo di nascosto scosso un poco, facendogli così oscillare in qua e in là senza controllo le gambe e il busto – alle signore, che erano intanto mortalmente impallidite.
Da quel momento il digiunatore tollerava tutto; la testa pendeva sul petto, come se fosse rotolata lì per caso, fermandosi per una qualche ragione inspiegabile; il corpo era tutto incavato; le gambe con le ginocchia serrate per istinto di conservazione, raspavano il suolo come se non fosse quello vero, ma lo stessero, a quel modo, soltanto cercando; e tutto il peso, per quanto modesto del suo corpo, gravava sopra una delle signore, che, cercando aiuto intorno e tutta ansimante – non s’era certo immaginata così quell’incarico onorifico – prima allungava il collo quanto era possibile, per preservare il viso dal contatto col digiunatore, ma poi, vedendo che non ci riusciva e che la sua più fortunata collega, non le veniva in soccorso, ma si contentava di reggere tremando davanti a sé la mano del digiunatore – un mucchietto d’ossa – scoppiava in lacrime tra le risate di soddisfazione della sala, per venir subito sostituita da un inserviente pronto già da tempo. Poi veniva il pasto, di cui l’impresario faceva ingerire qualche boccone al digiunatore caduto in un dormiveglia simile a un deliquio, mentre parlava allegramente, per distrarre l’attenzione del pubblico dallo stato pietoso in cui il poveretto si trovava; poi veniva ancora un brindisi al pubblico e l’impresario dava a intendere che glielo aveva sussurrato il digiunatore stesso; la banda sottolineava tutto con una rumorosa fanfara finale, la folla si disperdeva e nessuno aveva più diritto di essere scontento dello spettacolo, tranne il digiunatore, lui soltanto sempre.
Così aveva vissuto per molti anni con brevi e regolari intervalli di riposo, in
mezzo a un apparente benessere, rispettato dal mondo, eppur quasi sempre immerso in
una cupa malinconia, che diveniva sempre più cupa perché nessuno riusciva a prenderla
sul serio.
E come, d’altronde, consolarlo? Che poteva ancora desiderare? E se per caso capitava una volta una persona di buon cuore, che lo compativa e gli voleva spiegare come quella malinconia probabilmente venisse dal digiuno, poteva anche accadere, specie quando il digiuno era già molto lungo, che il digiunatore rispondesse con un impeto di furore e, tra lo spavento di tutti, si mettesse a scuotere le sbarre della gabbia come una bestia.
Ma in casi simili l’impresario ricorreva a una punizione, che usava di preferenza. Scusava il digiunatore dinanzi al pubblico radunato, ammetteva che si poteva perdonare il contegno del digiunatore solo pensando a un’irascibilità, provocata dalla fame, e solo difficilmente immaginabile da chi era sazio; veniva poi, come di conseguenza, a parlare, per spiegarla nello stesso senso, dell’asserzione del digiunatore di poter prolungare il digiuno molto più di quel che già non facesse; lodava il nobile intento, la buona volontà, la grande abnegazione, contenuti certo anche in questa asserzione; ma tentava poi subito di svalutarla mostrando semplicemente delle fotografie, subito messe in vendita, in cui si vedeva il digiunatore giunto al quarantesimo giorno, in un letto, quasi esausto dalla debolezza.
Questa maniera di storcere la verità, per quanto ben nota al digiunatore, riusciva pur sempre a snervarlo ogni volta ed era veramente troppo per lui. Quello che era la conseguenza di un’anticipata fine del digiuno, veniva presentata qui come la causa! Era impossibile lottare contro una simile incomprensione, contro questa universale incomprensione. Ogni volta era rimasto ad ascoltare ansiosamente e fiducioso, attaccato alle sbarre, l’impresario, ma quando comparivano le fotografie, abbandonava ogni volta la gabbia per ricadere con un sospiro sulla paglia, mente il pubblico tranquillizzato poteva riavvicinarsi e guardarlo.
E come, d’altronde, consolarlo? Che poteva ancora desiderare? E se per caso capitava una volta una persona di buon cuore, che lo compativa e gli voleva spiegare come quella malinconia probabilmente venisse dal digiuno, poteva anche accadere, specie quando il digiuno era già molto lungo, che il digiunatore rispondesse con un impeto di furore e, tra lo spavento di tutti, si mettesse a scuotere le sbarre della gabbia come una bestia.
Ma in casi simili l’impresario ricorreva a una punizione, che usava di preferenza. Scusava il digiunatore dinanzi al pubblico radunato, ammetteva che si poteva perdonare il contegno del digiunatore solo pensando a un’irascibilità, provocata dalla fame, e solo difficilmente immaginabile da chi era sazio; veniva poi, come di conseguenza, a parlare, per spiegarla nello stesso senso, dell’asserzione del digiunatore di poter prolungare il digiuno molto più di quel che già non facesse; lodava il nobile intento, la buona volontà, la grande abnegazione, contenuti certo anche in questa asserzione; ma tentava poi subito di svalutarla mostrando semplicemente delle fotografie, subito messe in vendita, in cui si vedeva il digiunatore giunto al quarantesimo giorno, in un letto, quasi esausto dalla debolezza.
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L'impresario |
Questa maniera di storcere la verità, per quanto ben nota al digiunatore, riusciva pur sempre a snervarlo ogni volta ed era veramente troppo per lui. Quello che era la conseguenza di un’anticipata fine del digiuno, veniva presentata qui come la causa! Era impossibile lottare contro una simile incomprensione, contro questa universale incomprensione. Ogni volta era rimasto ad ascoltare ansiosamente e fiducioso, attaccato alle sbarre, l’impresario, ma quando comparivano le fotografie, abbandonava ogni volta la gabbia per ricadere con un sospiro sulla paglia, mente il pubblico tranquillizzato poteva riavvicinarsi e guardarlo.
I testimoni di queste scene, quando ci ripensavano qualche anno dopo, non
riuscivano quasi più a comprender sè stessi, perché nel frattempo era intervenuto quel
mutamento cui s’è già accennato; ed era sopraggiunto quasi d’improvviso; ci sarà stata
certo qualche ragione profonda; ma chi si prendeva la briga di andar a cercarla?
Comunque un bel giorno il digiunatore, così viziato dal pubblico, si vide abbandonato
dalla folla desiderosa di divertirsi, che affluiva ormai ad altri spettacoli.
Un’ultima volta l’impresario se lo trascinò dietro in fretta per mezza Europa, per vedere se qua e là non rispuntasse l’antico entusiasmo; ma tutto fu vano; come per una segreta intesa si era destata una vera avversione per il digiuno come spettacolo.
Naturalmente questo fenomeno non s’era potuto verificare in realtà da un momento all’altro e ora tornavano in mente, in ritardo, alcuni segni precursori di cui, a suo tempo, nell’ebbrezza del successo, non s’era tenuto abbastanza conto, né sufficientemente ostacolata l’apparizione; ma era troppo tardi ormai per combatterli in qualche modo. Era bensì certo che sarebbe tornato un giorno l’ora fortunata del digiuno, ma non era sufficiente conforto per quelli che vivevano allora.
Cosa doveva fare il digiunatore? Uno, che s’era visto acclamare da migliaia di persone, non poteva esibirsi nei baracconi delle piccole fiere di campagna; per mettersi a fare un altro mestiere il digiunatore non solo era troppo vecchio, ma soprattutto troppo fanaticamente attaccato alla sua arte. Così egli congedò l’impresario, compagno di una carriera senza pari, e subito si fece scritturare da un gran circo; per riguardo alla sua suscettibilità non volle neppure vedere le clausole del contratto.
Un gran circo con quella marea di persone, di animali e di arnesi, che si equilibrano e si completano l’un con l’altro, può sempre utilizzare chicchessia, in qualunque momento, anche un digiunatore, naturalmente purché abbia pretese relativamente modeste; inoltre, in questo caso particolare, non era soltanto lui a essere scritturato, ma anche il suo nome da tempo ormai celebre; anzi per la singolarità di quest’arte, che con l’aumentare degli anni non soffriva diminuzioni, non si poteva neanche dire che in questo caso un artista ormai invecchiato, non più nel pieno splendore dei suoi mezzi, si fosse rifugiato nel tranquillo impiego di un circo, ché anzi il digiunatore assicurava, e gli si poteva credere, che avrebbe continuato a digiunare come prima; affermava persino che, se lo lasciavano fare – e gli fu promesso senz’altro – avrebbe proprio ora stupito il mondo e con ragione; un’asserzione, questa, che, considerando l’umore del tempo – e il digiunatore nel suo entusiasmo se ne dimenticava facilmente – suscitava nella gente del mestiere solo un sorriso.
In fondo anche il digiunatore s’era reso conto del reale stato delle cose e considerò quindi naturale che non lo si mettesse con la sua gabbia nel mezzo della pista, come un numero sensazionale, ma fuori, in un posto del resto comodamente accessibile, in vicinanza delle stalle. Grandi cartelli variopinti incorniciavano la gabbia, spiegando al pubblico cosa c’era da vedere in quel luogo. Quando, durante le pause dello spettacolo, la gente s’affollava verso le stalle per vedere le bestie, era quasi inevitabile che passasse davanti al digiunatore e si soffermasse un attimo davanti a lui; forse c’era chi si sarebbe trattenuto ancora più a lungo se non ci fossero stati, nello stretto corridoio, quelli che venivano dietro e non comprendevano la ragione di quell’indugio sulla via che portava alle ambite stalle, rendendo così impossibile una visita più prolungata e pacata. Questa era anche la ragione per cui il digiunatore tremava al pensiero di queste ore di visita, di cui pure era ansioso come dello scopo della sua vita. Nei primi tempi non vedeva l’ora che queste pause dello spettacolo arrivassero; la vista di quella massa ondeggiante di gente, che s’avvicinava, l’aveva incantato, sinché non s’era presto convinto – anche la più tenace, quasi consapevole illusione non aveva resistito all’esperienza – che intenzionalmente erano tutti, senza eccezione, dei visitatori delle stalle. Lo spettacolo della gente che s’avvicinava da lontano, rimase la sensazione migliore, perché appena era giunta vicino a lui, egli veniva come sopraffatto dal gridìo e dalle dispute di due gruppi che si formavano di continuo: uno di coloro, che volevano guardarselo comodamente – e presto divenne per il digiunatore il gruppo più sgradito – ma non per una vera comprensione, bensì per capriccio e puntiglio; e un altro di coloro, che prima di tutto volevan giungere alle stalle.
Passato il grosso del pubblico, venivano poi i ritardatari e proprio questi, cui nessuno impediva di fermarsi quanto volevano, gli passavano dinanzi, allungando il passo, senza quasi degnarlo di un’occhiata, per arrivare in tempo a veder gli animali. E non era davvero molto frequente il caso fortunato di un padre di famiglia che, arrivando lì coi figlioli, accennava col dito al digiunatore, spiegando loro minuziosamente di che si trattasse, ricordando i tempi andati, in cui aveva assistito a esibizioni simili ma molto più grandiose; i bambini, scarsamente preparati su questo argomento dalla scuola e dalla vita – che poteva significare per loro patir la fame? – continuavano a starsene lì, senza capire, ma nello splendore dei loro occhi incuriositi pareva di intravedere il riflesso di tempi nuovi, lontani ancora e più caritatevoli. Forse, si diceva a volte il digiunatore, tutto sarebbe andato meglio se non lo avessero collocato tanto vicino alle stalle. Così la gente aveva una scelta troppo facile, per tacere poi che le esalazioni delle stalle, l’irrequietezza delle bestie nella notte, il passaggio dei pezzi di carne cruda per le belve, i ruggiti che ne accompagnavano i pasti lo disturbavano molto e lo deprimevano continuamente. Non osava però rivolgersi alla direzione del circo per protestare; in fondo doveva alla presenza delle bestie quella folla di spettatori, tra cui poteva pur capitarne di quando in quando uno destinato a lui e chissà dove l’avrebbero cacciato, se richiamava l’attenzione della direzione sopra di sé e quindi anche sul fatto che, in conclusione, egli costituiva solo un ostacolo sulla via che conduceva alle stalle.
Un’ultima volta l’impresario se lo trascinò dietro in fretta per mezza Europa, per vedere se qua e là non rispuntasse l’antico entusiasmo; ma tutto fu vano; come per una segreta intesa si era destata una vera avversione per il digiuno come spettacolo.
Naturalmente questo fenomeno non s’era potuto verificare in realtà da un momento all’altro e ora tornavano in mente, in ritardo, alcuni segni precursori di cui, a suo tempo, nell’ebbrezza del successo, non s’era tenuto abbastanza conto, né sufficientemente ostacolata l’apparizione; ma era troppo tardi ormai per combatterli in qualche modo. Era bensì certo che sarebbe tornato un giorno l’ora fortunata del digiuno, ma non era sufficiente conforto per quelli che vivevano allora.
Cosa doveva fare il digiunatore? Uno, che s’era visto acclamare da migliaia di persone, non poteva esibirsi nei baracconi delle piccole fiere di campagna; per mettersi a fare un altro mestiere il digiunatore non solo era troppo vecchio, ma soprattutto troppo fanaticamente attaccato alla sua arte. Così egli congedò l’impresario, compagno di una carriera senza pari, e subito si fece scritturare da un gran circo; per riguardo alla sua suscettibilità non volle neppure vedere le clausole del contratto.
Un gran circo con quella marea di persone, di animali e di arnesi, che si equilibrano e si completano l’un con l’altro, può sempre utilizzare chicchessia, in qualunque momento, anche un digiunatore, naturalmente purché abbia pretese relativamente modeste; inoltre, in questo caso particolare, non era soltanto lui a essere scritturato, ma anche il suo nome da tempo ormai celebre; anzi per la singolarità di quest’arte, che con l’aumentare degli anni non soffriva diminuzioni, non si poteva neanche dire che in questo caso un artista ormai invecchiato, non più nel pieno splendore dei suoi mezzi, si fosse rifugiato nel tranquillo impiego di un circo, ché anzi il digiunatore assicurava, e gli si poteva credere, che avrebbe continuato a digiunare come prima; affermava persino che, se lo lasciavano fare – e gli fu promesso senz’altro – avrebbe proprio ora stupito il mondo e con ragione; un’asserzione, questa, che, considerando l’umore del tempo – e il digiunatore nel suo entusiasmo se ne dimenticava facilmente – suscitava nella gente del mestiere solo un sorriso.
In fondo anche il digiunatore s’era reso conto del reale stato delle cose e considerò quindi naturale che non lo si mettesse con la sua gabbia nel mezzo della pista, come un numero sensazionale, ma fuori, in un posto del resto comodamente accessibile, in vicinanza delle stalle. Grandi cartelli variopinti incorniciavano la gabbia, spiegando al pubblico cosa c’era da vedere in quel luogo. Quando, durante le pause dello spettacolo, la gente s’affollava verso le stalle per vedere le bestie, era quasi inevitabile che passasse davanti al digiunatore e si soffermasse un attimo davanti a lui; forse c’era chi si sarebbe trattenuto ancora più a lungo se non ci fossero stati, nello stretto corridoio, quelli che venivano dietro e non comprendevano la ragione di quell’indugio sulla via che portava alle ambite stalle, rendendo così impossibile una visita più prolungata e pacata. Questa era anche la ragione per cui il digiunatore tremava al pensiero di queste ore di visita, di cui pure era ansioso come dello scopo della sua vita. Nei primi tempi non vedeva l’ora che queste pause dello spettacolo arrivassero; la vista di quella massa ondeggiante di gente, che s’avvicinava, l’aveva incantato, sinché non s’era presto convinto – anche la più tenace, quasi consapevole illusione non aveva resistito all’esperienza – che intenzionalmente erano tutti, senza eccezione, dei visitatori delle stalle. Lo spettacolo della gente che s’avvicinava da lontano, rimase la sensazione migliore, perché appena era giunta vicino a lui, egli veniva come sopraffatto dal gridìo e dalle dispute di due gruppi che si formavano di continuo: uno di coloro, che volevano guardarselo comodamente – e presto divenne per il digiunatore il gruppo più sgradito – ma non per una vera comprensione, bensì per capriccio e puntiglio; e un altro di coloro, che prima di tutto volevan giungere alle stalle.
Passato il grosso del pubblico, venivano poi i ritardatari e proprio questi, cui nessuno impediva di fermarsi quanto volevano, gli passavano dinanzi, allungando il passo, senza quasi degnarlo di un’occhiata, per arrivare in tempo a veder gli animali. E non era davvero molto frequente il caso fortunato di un padre di famiglia che, arrivando lì coi figlioli, accennava col dito al digiunatore, spiegando loro minuziosamente di che si trattasse, ricordando i tempi andati, in cui aveva assistito a esibizioni simili ma molto più grandiose; i bambini, scarsamente preparati su questo argomento dalla scuola e dalla vita – che poteva significare per loro patir la fame? – continuavano a starsene lì, senza capire, ma nello splendore dei loro occhi incuriositi pareva di intravedere il riflesso di tempi nuovi, lontani ancora e più caritatevoli. Forse, si diceva a volte il digiunatore, tutto sarebbe andato meglio se non lo avessero collocato tanto vicino alle stalle. Così la gente aveva una scelta troppo facile, per tacere poi che le esalazioni delle stalle, l’irrequietezza delle bestie nella notte, il passaggio dei pezzi di carne cruda per le belve, i ruggiti che ne accompagnavano i pasti lo disturbavano molto e lo deprimevano continuamente. Non osava però rivolgersi alla direzione del circo per protestare; in fondo doveva alla presenza delle bestie quella folla di spettatori, tra cui poteva pur capitarne di quando in quando uno destinato a lui e chissà dove l’avrebbero cacciato, se richiamava l’attenzione della direzione sopra di sé e quindi anche sul fatto che, in conclusione, egli costituiva solo un ostacolo sulla via che conduceva alle stalle.
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Un piccolo ostacolo, però, che si faceva sempre più piccolo: ci si abituò alla
stranezza, in tempi come i nostri, di reclamare l’attenzione del pubblico sopra un
digiunatore, e con questa abitudine il suo destino fu segnato. Poteva digiunare quanto
voleva ... ed egli lo faceva; ma nulla lo poteva più salvare, nessuno più si curava di lui.
Si provi qualcuno a spiegare l’arte del digiuno! A chi non la conosce, non si può darne
un’idea. I bei cartelloni con le iscrizioni divennero sudici e illeggibili; e vennero
strappati via e a nessuno venne in mente di sostituirli; la piccola tabella poi, col numero
dei giorni di digiuno compiuti, che nei primi tempi veniva rinnovata ogni giorno, rimase
per lungo tempo sempre la stessa, poiché dopo le prime settimane al personale del circo
anche quella piccola fatica era parsa troppo; e così il digiunatore continuava a digiunare,
come aveva sognato un tempo, e gli riusciva senza sforzo come aveva predetto, ma
nessuno contava più i giorni, nessuno, nemmeno il digiunatore, sapeva quanto alta era
ormai la sua prova e il suo cuore si sentì oppresso. E se una volta, in quel tempo, qualche sfaccendato si fermava dinanzi alla gabbia, considerava con ironia la cifra
altissima e parlava di imbroglio, era, in questo senso, la più stupida menzogna che
l’indifferenza e un’innata malignità avevan potuto inventare; poiché non era il
digiunatore ad ingannare – egli lavorava onestamente – ma il mondo lo frodava del
premio che si meritava.
E passarono ancora molti giorni ed anche questo finì. Un giorno la gabbia dette
nell’occhio a un custode, che chiese agli inservienti perché si tenesse lì quella gabbia
ancora buona ad usarsi, senza utilizzarla, con tutta quella paglia fradicia; nessuno lo
sapeva, sinché uno, col soccorso dei cartelli, non si ricordò del digiunatore. La paglia
venne smossa con delle stanghe e vi si trovò il digiunatore. «Digiuni dunque ancora?»
chiese il custode, «quando ti deciderai a smettere?». «Perdonatemi voi tutti» sussurrò il
digiunatore; ma soltanto il custode che teneva l’orecchio accosto alle sbarre, lo intese.
«Ma certo» disse il custode, toccandosi la fronte con un dito per accennare al personale
lo stato in cui si trovava il poveretto, «ti perdoniamo.» «Ho voluto sempre che
ammiraste il mio digiuno» continuò il digiunatore. «E noi, infatti, ne siamo ammirati»
disse condiscendente il custode. «E invece non dovete ammirarlo» replicò il
digiunatore. «E allora non lo ammireremo» rispose il custode, «ma poi perché non
dobbiamo farlo?». «Perché sono costretto a digiunare» continuò il digiunatore. «Ma
senti un po’» disse il custode «perché non ne puoi fare a meno?». «Perché io» disse il
digiunatore, sollevando un poco la sua piccola testa e parlando con le labbra appuntite
come per un bacio proprio all’orecchio del custode, «perché non riuscivo a trovar il cibo
che mi piacesse. Se l’avessi trovato non avrei fatto tante storie e mi sarei messo a
mangiare a quattro palmenti come te e gli altri». Furono le sue ultime parole, ma nei
suoi occhi spenti si leggeva ancora la ferma, anche se non più superba convinzione di
continuare a digiunare.
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Lo ammiriamo! - Non dovreste. Perchè non ho scelta...Devo digiunare |
«E ora fate ordine!» disse il custode; e il digiunatore fu sotterrato insieme alla
paglia. Nella gabbia fu messa poi una giovane pantera. E vedere nella gabbia sì a lungo
deserta dimenarsi quella fiera fu un sollievo per tutti, anche per gli spettatori più ottusi.
Non le mancava nulla. Il cibo che le piaceva, glielo portavano senza tante storie i
guardiani; non sembrava neppure che la belva rimpiangesse la libertà; quel nobile
corpo, perfetto e teso in ogni parte sin quasi a scoppiarne, pareva portare con sé anche la
libertà; sembrava celarsi in qualche punto della dentatura; e la gioia di vivere emanava
con tanta forza dalle fauci, che agli spettatori non era facile resistervi. Ma si
dominavano, circondavano la gabbia e non volevano saperne di andar via. Racconti, a cura di Ervino Pocar, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1970
domenica 5 ottobre 2014
Narcisismo e analisi del Sè. Trasformazioni terapeutiche nell'analisi di personalità narcisistiche (Kohut, H., 1971).
(articolo redatto da: Alessia D'Alterio; Antonietta Madia)
Alcuni concetti chiave:
Amore oggettuale: c’è differenza tra le dinamiche oggettuali e quelle narcisistiche.
La personalità si forma mediante l’interiorizzazione della libido narcisistica
investita sull’oggetto-sé. La libido narcisistica svolge un ruolo anche nei
rapporti oggettuali ed è un carburante per molte attività socioculturali come
la creatività. Un esempio della differenza tra amore narcisistico e oggettuale
riguarda il caso emblematico della personalità dipendente, la quale non ricerca
l’oggetto della sua dipendenza in quanto tale ma per le funzioni che essa
svolge e che non è in grado di adempiere in quanto non si è stabilita una
sufficiente struttura superegoica. Gli oggetti ricercati in questo caso non
sono dunque né desiderati, né riconosciuti come oggetti in senso pulsionale
(ovverosia investiti di libido in sé), bensì essi sono necessari in quanto
pezzi del Sé dell’individuo non interiorizzati. I disturbi narcisistici possono
essere molto precoci e rivelare una debolezza strutturale massiva, possono
riguardare il periodo pre-edipico interferendo con lo sviluppo della struttura
di neutralizzazione (Io), o edipici configurandosi sottoforma di una struttura
superegoica carente e alla ricerca continua di oggetti esterni di validazione.
Traslazione idealizzante: si parla di traslazione idealizzante in relazione alla
perfezione narcisistica totale dell’oggetto-sé arcaico onnipotente e
idealizzato e alla sua riattivazione nel contesto analitico. Lo sviluppo
psichico non si esaurisce nell’investimento mediante pulsioni: la mente tende a
sovrapporre esperienze analoghe di oggetto-sé riattivate nel transfert e le
idealizzazioni lasciano un’impronta duratura nella personalità.
Io-Sè: una delle maggiori
innovazioni teoriche introdotte da Kohut riguarda una differenziazione tra le
strutture già note dal lavoro metapsicologico di Freud nella seconda topica e
la definizione di un nuovo concetto: il Sé. I due vertici di osservazione
psicoanalitici dell’evoluzione psichica non sono alternativi, bensì possono
essere considerati in maniera parallela anche se gerarchica. Mentre
l’evoluzione dello sviluppo funzionale dell’Io è conseguente a quello del Sé,
non si può dire il contrario, in quanto il Sé costituisce una costellazione
psicologica organizzata di base che determina in maniera drammatica qualsiasi
tipo di esito successivo, anche pulsionale. La focalizzazione analitica
dall’aspetto pulsionale a quello narcisistico vira anche l’attenzione
dell’osservatore o studioso in senso sociologico: i tempi sono cambiati e ciò a
cui assistiamo nella clinica non è più l’Uomo colpevole freudiano che punta
alla soddisfazione pulsionale, bensì l’Uomo tragico volto disperatamente alla
ricerca e alla realizzazione del proprio Sé.
Nevrosi di traslazione: riguarda la lotta tra
le pulsioni infantili e le forze interne che vi si oppongono. In questa
circostanza l’analista come figura di traslazione, non è sperimentato
nell’ottica di un rapporto interpersonale, bensì come portatore di strutture
endopsichiche inconsce (ricordi inconsci) dell’analizzando (Es.: un paziente
racconta di non aver pagato il biglietto dell’autobus per arrivare in seduta.
Egli nota che il volto dell’analista è serio mentre lo saluta. In questo caso
l’analista come figura di traslazione è un’espressione del Super-io[1]
inconscio dell’analizzando).
Sé grandioso: nella
concezione dello sviluppo psichico kohutiana, il narcisismo assume valore
centrale. Il Sé grandioso è definito contemporaneamente all’IPI come struttura
arcaica di quello che sarà poi il Sé maturo. Il rapporto con l’ambiente reale
(la madre) determinerà pertanto gli esiti di quello che è stato precedentemente
definito da Freud (1914) narcisismo primario. La possibilità del bambino di
concentrare su se stesso tutta la perfezione e il potere, consentirà lo
sviluppo di un livello libidico narcisistico adeguato allo sviluppo di un Sé
vitale e coeso e, in definitiva, di una personalità integra e sana.
Empatia: Capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro. Con questo termine si suole rendere in italiano quello tedesco di Einfuhlung. In estetica, il termine indica un tipo di percezione vissuta antropomorficamente di fronte a oggetti: una colonna sottile che regge un grosso capitello può suscitare un senso di disagio, di squilibrio, di sforzo. Questi fenomeni sono stati studiati da T. Lipps (1903) come emozioni estetiche. L’empatia è la capacità di comprendere a pieno lo stato d'animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore. Empatia significa sentire dentro ed è una capacità che fa parte dell’esperienza umana ed animale. Si tratta di un forte legame interpersonale e di un potente mezzo di cambiamento. Il concetto può prestarsi al facile riduttivismo mettersi nei panni dell’altro, mentre invece significa andare non solo verso l’altro, ma anche portare questi nel proprio mondo. Essa rappresenta, inoltre la capacità di un individuo di comprendere in modo immediato i pensieri e gli stati d'animo di un’altra persona. L’empatia è dunque un processo: essere con l’altro. L’empatia costituisce un modo di comunicare nel quale il ricevente mette in secondo piano il suo modo di percepire la realtà per cercare di far risaltare in sé stesso le esperienze e le percezioni dell’interlocutore. È una forma molto profonda di comprensione dell’altro perché si tratta d’immedesimazione negli altrui sentimenti. Ci si sposta da un atteggiamento di mera osservazione esterna (di come l’altro appare all’immaginazione) al come invece si sente interiormente (con quell'esperienza di vita, con quelle origini, cercando di guardare attraverso i suoi occhi).
Traslazione narcisistica: in maniera differente
rispetto alla traslazione nevrotica in questo caso l’analista non funge da
schermo per la proiezione della struttura interna dell’analizzando come avviene
di norma nelle nevrosi, bensì egli diventa una “continuazione diretta di una realtà primitiva che era troppo distante,
troppo rifiutante o troppo instabile per essere trasformata in una solida
struttura psicologica” (Kohut, 1959, p. 17). Ovverosia rimette in moto lo
sviluppo narcisistico del Sé del paziente, dal livello in cui esso è rimasto bloccato.
Una differenza che si osserva nei pazienti con problematiche principalmente
narcisistiche rispetto ai pazienti nevrotici – o anche nei pazienti nevrotici
stessi che ad ogni modo secondo Kohut devono essere trattati secondo le
innovazioni scientifiche della Psicologia del Sé –, è possibile differenziare
la qualità conflittuale nevrotica rispetto a quella narcisistica della tematica
presentata in analisi mediante il tipo di angoscia manifestata. Quando questa
concerne un fatto preciso, delimitato e concreto, essa è manifestazione di
nevrosi, mentre quando l’angoscia è diffusa, ciò è indicatore di una maggiore
compromissione patologica che riguarda la coesione di base del Sé, e spesso la
sensazione che si ha all’ascolto di questi pazienti è di senso di soffocamento
e noia.
Kohut fornisce una
panoramica rispetto agli effetti specifici e aspecifici dell’elaborazione della
traslazione narcisistica.
Il cambiamento
aspecifico più importante riguarda la maggiore capacità di amore oggettuale.
I fattori specifici invece
riguardano tutti strettamente l’ambito del narcisismo (empatia, creatività,
saggezza e umorismo).
Accrescimento ed espansione dell’amore
oggettuale
1) Costituisce una mobilitazione
libidica secondaria resa possibile in conseguenza della riattivazione dei
legami affettivi che erano precedentemente inaccessibili a causa del muro
regressivo del narcisismo.
Il Sé si apre al mondo esterno ed esce dall’isolamento in virtù della
maggiore libido idealizzante ora disponibile a depositarsi sugli oggetti.
2) L’accresciuta
capacità di amore oggettuale del paziente narcisista è collegata anche in
maniera diretta all’elaborazione
dell’area primaria della psicopatologia, ovverosia del narcisismo. Gli
investimenti oggettuali sono più profondi a livello emotivo rispetto a quanto
lo fossero in precedenza. L’investimento oggettuale, se non era già presente in
precedenza verrà mobilitato dall’analisi.
L’investimento libidico
oggettuale è facilitato dalla maggiore libido idealizzante resa disponibile
dall’elaborazione del narcisismo.
Tale genere di progresso
deriva dall’elaborazione sistematica della traslazione idealizzante.
Il risultato del
maggiore investimento oggettuale con cariche idealizzanti, produce una maggiore
intensità nell’esperienza erotica del paziente sia che essa riguardi la
relazione amorosa con un altro essere umano, che la devozione ai suoi impegni e
doveri.
Ora sarà possibile
gestire in maniera più equilibrata le cariche libidiche: la componente
narcisistica dell’amore totale è relativa, essa contribuirà all’esperienza
d’amore del soggetto, ma gli investimenti libidici centrali mobilitati saranno
di tipo oggettuale.
La maggiore
disponibilità degli investimenti oggettuali non indica comunque che il
narcisismo messo in moto dalla situazione analitica (libido sul Sé) si sia
trasformato completamente di fatto in amore oggettuale, tutt’al più questa
maturazione è dovuta alla libido oggettuale che era già presente, ma che era
stata rimossa.
Questo tipo di configurazione
riguarda il risultato terapeutico dei settori definiti da Kohut di “psicopatologia
secondaria” ovverosia la nevrosi di traslazione, in un paziente che soffre in
via primaria di un disordine narcisistico della personalità.
Kohut ribadisce il
doppio registro già delineato in precedenza rispetto alla metapsicologia e
quindi alle possibilità di cura: da un lato c’è la condizione narcisistica e le
vicende del Sé, dall’altro l’Io e il destino delle sue strutture.
L’attenzione alla
questione narcisistica tuttavia è centrale e fondamentale e deve essere,
secondo Kohut (1971, 1977), prioritaria rispetto alla considerazione dei
conflitti pulsionali, in quanto i benefici dell’analisi delle problematiche
narcisistiche determinano anche, in conseguenza, il buon esito della
strutturazione delle funzioni dell’Io.
La possibilità di amore
oggettuale, passa attraverso l’investimento libidico del Sé e la sua coesione.
Un sé coeso può investire gli oggetti libidici delle proprie pulsioni, mentre
un Sé non integro o frammentato, blocca le proprie capacità di investimento ad
un livello tale che i moti oggettuali pulsionali saranno preclusi o immaturi.
3) Un risultato
aspecifico dell’analisi sistematica del narcisismo è anche l’accresciuta
capacità di amore oggettuale dovuta alla maggiore
forza del Sé, ovverosia alla maggiore coesione e delimitazione dei confini
del Sé al di là dei suoi investimenti. Così come l’Io accresce la sua capacità
di gestire una varietà di compiti professionali alla maggiore coesione del Sé,
l’Io diventa centro esecutore della maggiore capacità di amore oggettuale. Dice
Kohut (1971, p. 286): “Quanto più sicura è una persona riguardo alla
possibilità di essere accettata, quanto più certo è il suo senso di chi egli
sia, e quanto più interiorizzato è il suo sistema di valori, tanto più egli
riuscirà ad offrire il suo amore con fiducia e in maniera efficace (a estendere
cioè i suoi investimenti libidico-oggettuali) senza un’indebita paura di essere
rifiutato e umiliato”.
Sviluppi progressivi e integrativi dell’ambito
narcisistico
Kohut si riferisce ai
risultati del trattamento psicoanalitico dei disturbi narcisistici affermando
che è in quest’ambito che avvengono i risultati più significativi e
determinanti. Essi riguardano:
1)
L’imago parentale idealizzata che viene integrata nelle strutture dell’Io e del Super-io: a) man
mano che gli aspetti pre-edipici precoci arcaici sono abbandonati vengono
interiorizzati in forma neutralizzata e diventano parte della struttura dell’Io
che resta adibita a tali funzioni (neutralizzazione, controllo e incanalamento).
Il paziente infatti inizialmente è in grado di svolgere queste funzioni solo se
si sente fuso e unito all’analista idealizzato; b) gli aspetti preedipici tardi
ed edipici dell’imago parentale idealizzata vengono quindi abbandonati,
interiorizzati e depositati nel Super-io. Il Super-io diventa una fonte di
comando e guida interna, di approvazione stimolante, di maggiore integrazione
dell’Io e dell’omeostasi narcisistica, che il paziente in precedenza godeva
solo se si sentiva legato all’analista idealizzato e corrisposto.
2)
Il
Sé grandioso che produce
un’integrazione sia della grandiosità infantile che della libido esibizionistica arcaica: a) la prima viene integrata nelle ambizioni e negli scopi della personalità
conferendo vigore ai moti maturi della personalità e sensazione di avere
diritto al successo. Questo sentire da conquistatore (Freud 1917, p. 14; 1953,
p. 29) è un derivato addomesticato dell’assolutismo solipsistico della psiche
infantile; b) la seconda viene anch’essa neutralizzata dalle mete infantili di
soddisfacimento per fluire nelle mete adattate e socialmente importanti della
realtà adulta. L’esibizionismo che era causa di vergogna diventa fonte di autostima e di piacere sintonico
all’Io.
3)
L’elaborazione
della traslazione narcisistica è dunque
una conquista che riguarda la personalità totale, ma dipende dalla
mobilitazione delle posizioni narcisistiche arcaiche.
Empatia
E’ descritta da Kohut
come una modalità conoscitiva adatta alla percezione di configurazioni
psicologiche complesse.
L’Io utilizza l’empatia
quando deve raccogliere dati psicologici, mentre usa modalità non empatiche per
raccogliere dati di differente natura, ovverosia non inerenti la vita interiore
dell’uomo (vedi Freud 1915c per differenza tra campo psicologico e non
psicologico). Ci sono diversi tipi di disturbi che riguardano l’uso
dell’empatia alcuni più gravi, altri minori.
I disturbi gravi
dell’empatia sono distinti da Kohut in due gruppi:
1)
Uso improprio dell’empatia
nell’osservazione di aree esterne al campo dei dati psicologici complessi. Utilizzare l’empatia
per osservare dati non psicologici porta ad una percezione erronea della
realtà, prerazionale, animistica, manifestazione di infantilismo percettivo e
conoscitivo. Anche nella psicologia scientifica l’empatia non conduce da sola
alla spiegazione dei dati psicologici. Bisogna analizzare le interconnessioni
causali in termini lontani dall’osservazione (Hartmann, 1927). Se l’empatia si
espandesse dalla raccolta di dati alla fase esplicativa della psicologia
scientifica – definita verstehend
ovvero comprensiva (Dilthey, 1924; Jaspers, 1913) e non erklärend cioè esplicativa – ciò equivarrebbe a una regressione
sentimentaleggiante alla soggettività ovverosia un infantilismo conoscitivo
nell’ambito delle attività scientifiche umane.
2)
Uso improprio
dell’empatia nell’osservazione di aree riguardanti il campo dei dati
psicologici complessi. Non utilizzando l’empatia in questi casi la realtà
psicologica viene letta in senso meccanicistico ed inanimato. In questa
categoria cadono i difetti più gravi dell’empatia ovvero quelli di natura
primaria, dovuti a fissazioni o regressioni narcisistiche, nell’area degli
stadi arcaici dello sviluppo del Sé. Quest’ultimo genere di mancanza di empatia
è ricondotto da Kohut a disturbi precoci del rapporto madre-bambino, dovuti a
freddezza emotiva della madre o insensibilità congenita del bambino o ancora,
mancanza di coerenza nel rapporto. Questo tipo di problematica porta anche al
fallimento nell’istaurarsi dell’imago parentale idealizzata, al blocco delle
prime fasi di relazione empatica tra madre e bambino e all’iperinvestimento
degli stadi primitivi del Sé corporeo (autoerotico) e del Sé grandioso,
anch’esso bloccato per carenza delle necessarie risposte di ammirazione da
parte della madre.
Ci sono poi una serie di disturbi minori o secondari dell’empatia. Kohut fa l’esempio dell’incapacità
da parte di allievi in fase di training psicoanalitico di essere empatici nei
confronti dei loro pazienti. Questa mancanza di empatia si configura come un’inibizione
difensiva ed è una formazione reattiva contro la percezione animistica del
mondo che viene rimossa oppure più frequentemente isolata e scissa. Secondo
Kohut essa, ed è tipica delle personalità ossessive.
Risposte emotive e soggettive ai sentimenti
altrui e valutazione oggettiva ovvero scientifica dei dati psicologici. L’empatia
è a volte considerata simile all’intuizione,
ciò porta a stabilire un illegittimo contrasto tra risposte emotive e
soggettive ai sentimenti altrui e valutazione oggettiva. L’intuizione tuttavia
non è strettamente correlata all’empatia: essa riguarda una serie di operazioni
che vengono svolte molto velocemente da un medico, così come da come un
computer che vaglia in breve tempo diverse combinazioni; tuttavia essa si
differenzia dai giudizi non intuitivi soltanto per la sua velocità. La
psicoanalisi ha consentito di utilizzare l’empatia intuitiva degli artisti e
dei poeti nel campo della ricerca scientifica. Tuttavia lo psicoanalista deve
essere capace di comprensione empatica così come di abbandonare tale tipo di
comprensione, questo tipo di capacità di oscillazione tra le due posizioni
consente di raccogliere i dati psicologici utili e di poterli poi analizzare
per spiegarli. Questo tipo di oscillazione rispecchia la configurazione pratica/teoria: c’è bisogno di insight e
dell’ampiezza dell’esperienza emotiva umana così come del lavoro teorico.
Un compito specifico dell’analisi didattica è
pertanto quello di sciogliere le posizioni narcisistiche dell’analizzando nei
settori legati alle capacità empatiche, fino a raggiungere un dominio dell’Io
per il quale egli ha acquisito la capacità autonoma di adoperare o abbandonare
la posizione empatica a seconda delle esigenze professionali.
La capacità empatica aumenta in conseguenza alla
mobilitazione del narcisismo arcaico congelato, mentre diminuisce la capacità
intuitiva che è una sostituzione del desiderio di onniscienza e del pensiero
magico con la logica. La possibilità di abbandonare il dominio dell’intuizione
implica la possibilità di sopportare i ritardi imposti dall’osservazione
attenta dei dati. Eccezione a questo processo riguarda le personalità che
avevano opposto forti formazioni reattive contro il pensiero magico e la
propria onniscienza (due caratteristiche tipiche del narcisismo arcaico): esse
diverranno maggiormente razionali ma più veloci, e si baseranno maggiormente
sul preconscio invece di elaborare lungamente e faticosamente i dati.
La mobilitazione del narcisismo arcaico
determina comunque una espansione delle capacità empatiche che è sempre
autentica: per quanto riguarda l’oggetto idealizzato, esso aumenta l’empatia
nei confronti degli altri, nel caso del Sé grandioso, soprattutto l’empatia nei
confronti di sé stessi.
Questo obiettivo dell’analisi può essere oggetto
di resistenze che bloccano il progresso analitico oppure lo capovolgono
contemporaneamente una volta che esso è stato raggiunto.
Come illustrato da Kohut nel cap. 11, ci sono
varie resistenze che si oppongono allo sviluppo dell’empatia nel corso della
sua acquisizione. Tali resistenze possono presentarsi allo stesso modo nella
situazione analitica.
Nel caso in cui il disturbo empatico è legato ad una mancanza di empatia nei genitori
(essa è difettosa o inattendibile) il bambino cerca espedienti per tenere gli
altri a distanza in modo da proteggersi dalla delusione di non essere compreso
o ricevere risposte adeguate (vedi cap. 1 su personalità schizoide). In questo
caso particolare la psiche del paziente si sentirà esposta a due tipi di
pericoli:
1)
oltre
al piacere il paziente avvertirà una sensazione spiacevole di eccitamento e
stimolazione, seguito da un’angoscia suscitata dal timore di fusione regressiva che può manifestarsi sotto forma di
illusione temporanea di identità corporea e porta al tentativo di contenere o
scaricare le tensioni sessualizzandole in maniera grossolana (vedi cap. 8 su
stati traumatici).
2)
Si
determinano resistenze legate a paure di
passività, specialmente per gli uomini come rischio di sottomissione.
Queste paure nascono
dalla comprensione che l’analista è un essere umano capace di reagire con
emozioni ed empatia all’analizzando.
La protezione dell’isolamento
narcisistico e il pericolo che comporta rinunciare a questa sicurezza vengono
descritti da Kohut nel sogno del signor Q. Questo paziente aveva perso la madre
nella prima infanzia e a seguire anche altre figure materne.
“Sognò che era solo in casa e che guardava fuori dalla
finestra; accanto a sé aveva il suo equipaggiamento da pesca. Attraverso la
finestra vedeva numerosi bei pesci, grandi e piccoli, che nuotavano
tutt’intorno, e provava il desiderio di andare a pescare. Si rendeva conto però
che la sua casa era in fondo al lago e che non appena avesse aperto la finestra
per pescare, l’intero lago avrebbe invaso la casa e l’avrebbe sommerso” (Kohut,
1971, p. 295).
Altre resistenze possono
manifestarsi come rifiuto della
comprensione dell’analista che si suppone piena di condiscendenza: l’empatia accompagnata da un atteggiamento di cura
diretta attraverso la comprensione amorevole può essere autoritaria e noiosa
ovvero poggiare sulle irrisolte fantasie di onnipotenza dell’analista.
Seppure l’analista sia
attento all’uso dello strumento empatico utilizzandolo come forma di
comunicazione appropriata, il semplice fatto che il paziente acconsenta ad
essere compreso e corrisposto empaticamente lo lascia esposto alla paura
arcaica delle delusioni precoci. Egli può pertanto diventare sospettoso,
sentirsi manipolato dall’analista etc. Questi atteggiamenti paranoidi in genere durano poco e vengono risolti
nell’interpretazione genetica e dinamica. Qualunque sia l’esito delle
resistenze ad ogni modo un accrescimento delle capacità empatiche verso gli
altri e l’accettazione che anche gli
altri possano comprendere maggiormente sentimenti, desideri e bisogni si
può osservare con grande regolarità nei pazienti narcisisti.
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Creatività
Sostanzialmente Kohut
intende per creatività lo sbocco che si apre agli investimenti narcisistici che
vengono trasformati nel corso di un trattamento psicoanalitico.- investimenti narcisistici che prima del
trattamento psicoanalitico erano
congelati nell’area del Sé grandioso e dell’imago parentale idealizzata.
A riguardo, il primo
quesito che Kohut si pone è quale sia il parametro che ci porta ad individuare
quali siano le attività creative, se solo quelle artistiche o anche quelle
scientifiche.
Una prima netta
distinzione è quella di considerare la Scienza
come la scoperta di Formazioni già
preesistenti e l’Arte come
introduzione nel mondo di nuove configurazioni.
Ma questa
differenziazione non è poi così netta perché:
1)
Le
scoperte scientifiche non descrivono solamente fenomeni esistenti in quanto la
successiva operazione dello scienziato è quella di incanalare in una certa
direzione specifica lo sviluppo scientifico;
2)
Altresì
per il genio artistico che potrà determinare non solo un nuovo stile ma anche
la direzione in cui si svilupperà.
Ma dobbiamo tenere
presente anche:
1)
Che
la scienza si sarebbe potuta svolgere in una direzione diversa, da quella in
cui di fatto si è sviluppata - la nostra comune concezione scientifica è quella
di credere che la scienza può svilupparsi solo nel modo che di fatto
constatiamo ed in merito, gli scritti del fisico Alexander Koyrè ci dimostrano
i procedimenti artistici eseguiti nel campo della fisica;
2)
Allo
stesso modo non dobbiamo trascurare il fatto che alcune opere artistiche sono
il riflesso di qualcosa che è preesistente.
Ma se paragoniamo le
opere Artistiche e quelle Scientifiche all’interno di uno schema
oggettivo riserveremo l’attributo di
creatività solo a quelle artistiche; e solo in senso metaforico a quelle
scientifiche.
Ma se proviamo a passare
da un discorso generale ad uno più particolare che ci porta ad un confronto tra le due personalità prese in esame valuteremo che:
1)
La
personalità dell’artista (rispetto
allo scienziato) in linea generale, possiede investimenti narcisistici che tendono ad essere meno neutralizzati e la sua libido esibizionistica si sposta tra
sé e il suo prodotto investito
narcisisticamente con una fluidità maggiore che nello scienziato. Sempre in
linea generale, possiamo dire che un controllo rigido dell’esibizionismo di un
artista potrebbe interferire con la sua performance. D’altra parte invece l’emergere di istanze grandiose
ed esibizionistiche di un Sé grandioso
ed arcaico sarebbe un forte ostacolo ad
una corretta produzione scientifica.
A questo riguardo fa
riferimento l’esempio del rapporto epistolare tra Freud e Fliess, in cui
traspare l’esibizionismo giovanile di Freud e al contempo il controllo su ogni
sua spinta verso il compiacimento, attraverso il rifiuto a partecipare a feste
date in suo onore, o alla sua presa di distanza dal carattere magico ed ipocrita dei messaggi di
congratulazioni che gli giungevano.
L’esempio di Freud serve da
traccia per osservare la curva di sviluppo
di un grande scienziato: essa
sembrerebbe rivolta poco alla
stimolazione della propria persona,
limitandosi all’investimento libidico
neutralizzato ed inibito alla meta.
La differenza tra l’artista e lo scienziato diventa ancora
più evidente
quando osserviamo che un’opera artistica ultimata è intoccabile perché legata
strettamente alla personalità dell’autore; mentre se uno scienziato ha
formulato la sua teoria che
successivamente viene integrata o revisionata in parte da un altro scienziato
non vi sarebbero i margini d’infrazione proprio perché l’opera scientifica
porta in se un carattere di indipendenza dal suo ideatore.
Ma al di la di queste
considerazioni che hanno un carattere della generalità, è vero anche che ci
sono scoperte scientifiche che vengono fuori con il segno di una vera e propria
opera d’arte e altresì nel campo dell’arte ci sono capolavori compiuti da
anonimi che contraddicono l’affermazione in cui l’operatore è inestricabilmente
legato al suo creatore.
A paragone con lo
scienziato l’artista investe la sua opera con la libido narcisistica meno
neutralizzata e resta identificato con il suo prodotto.
Le attività artistiche e
scientifiche che vengono fuori durante il processo analitico di disordini narcisistici sono comunque fenomeni
analoghi e ricoprono un ruolo analogo nel processo psicoanalitico.
L’ondata di attività creative non di rado sopravviene come
misura di emergenza perché
l’Io deve fronteggiare la libido narcisistica precedentemente rimossa e quindi
ha breve durata (vedi Kohut - il caso della signorina F.).
Quando il processo di
elaborazione psicoanalitica prosegue in modo corretto si creano nuove
configurazioni stabili come l’autostima e la formazione di un ideale.
Man mano che gli
investimenti narcisistici vengono rimossi terapeuticamente, essi vanno ad
incrementare l’interesse sublimatorio al punto che un hobby insignificante può
diventare una vera e propria attività soddisfacente e l’approvazione pubblica
diventerà un sostegno all’autostima del paziente.
Portiamo l’esempio del
signor E. che nella prima fase dell’esperienza psicoanalitica non riusciva a
svolgere le attività artistiche, ma successivamente inizia ad avere attività
sublimatorie nell’intervallo del fine settimana in cui rimaneva separato dalle
sedute psicoanalitiche. Nato prematuro, viene messo in incubatrice;
successivamente portato a casa non viene toccato dai genitori. Sua madre, dopo
una malattia, muore quando il paziente aveva sedici anni.
Nella tarda infanzia il
paziente si esibiva nelle sue prodezze sull’altalena, ma la madre non rispose
empaticamente e con il dovuto sostegno; fu da allora che il bambino iniziò
pericolose attività voyeristiche nel bagno di una fiera pubblica come risposta
ai suoi desideri esibizionistici.
Con questa perversione,
egli esprimeva bisogni arcaici nell’ambito di istanze esibizionistiche
frustrate e le attività artistiche gli fornirono una certa visibilità, utile al
suo bisogno di contatto alla luce della sua storia nella primissima infanzia.
Il lavoro sublimatorio
che trovò un forte slancio negli ultimi anni del suo trattamento analitico non
fu soltanto un modo di risolvere i suoi bisogni di contatto e fusione ma
divenne una grande fonte di riconoscimento sociale ed economico.
Lo stretto collegamento
tra bisogni di contatto frustrati e il desiderio di fusione - che si trasformò
successivamente in una modalità di grande sensibilità verso il mondo intero - è
un fenomeno che possiamo osservare in molti poeti: John Keats aveva la tendenza
ad identificarsi con oggetti inanimati (palle da biliardo). A ciò era associata
una profonda e sensibile capacità di comprensione delle cose che si manteneva
attiva solo se gli arrivava il calore degli amici.
Il poeta con il suo
identificarsi con la palla da biliardo testimoniava la natura narcisistica del
suo rapporto creativo con l’ambiente.
Un certo potenziale
creativo rientra nella vita di molte persone in cui, problematiche
intellettuali ed artistiche irrisolte sono causa di uno squilibrio narcisistico
che trovano a loro volta sollievo anche attraverso semplici attività come le
parole crociate o lo spostamento di un mobile in una stanza.
Alcune personalità
creative durante momenti d’intensa produzione artistica hanno un forte
bisogno di una relazione empatica.
Tale bisogno è
particolarmente intenso tanto più le scoperte conducono in ambiti nuovi ed
inesplorati.
Questo sembrerebbe
attribuibile al fatto che l’atto creativo porta con se l’isolamento.
Questo se da una parte è
esaltante dall’altra costituisce anche un’esperienza terrifica in quanto
verrebbe a rappresentare il trauma infantile di essere abbandonato.
In una simile situazione
può capitare che anche il genio elegga una persona del suo ambiente ad oggetto
onnipotente con cui fondersi.
Questo lascia
intravedere un Sé creativo in espansione che ha bisogno di trarre forza da un
oggetto idealizzato.
Fliess fu per Freud
l’oggetto di traslazione narcisistica durante la sua produzione letteraria più
importante ed egli rinunciò al senso illusorio della grandezza di Fliess,
quando terminò il suo compito creativo.
Alla Creatività degli
analisti Kohut dedica un’attenzione speciale.
Egli afferma che al
termine di un’analisi didattica, la trasformazione delle posizioni
narcisistiche può apportare non solo una maggiore capacità empatica ma anche
un’accresciuta attività ricca di spunti di autentica creatività.
Questa creatività sembra
scaturire dal bisogno incessante di indagare su certe aree psicologiche non
elaborate nell’analisi personale; nasce quindi il bisogno di superare l’empasse
attraverso una nuova analisi.
Ma se il lavoro
analitico è incompleto a causa della scienza psicoanalitica che non è
progredita, questo stesso fattore diventa lo stimolo che conduce ad altre
ricerche. Tuttavia ciò avviene se l’incompletezza dell’analisi didattica è
riconosciuta dal ricercatore.
“Proprio come in altre
attività scientifiche, la creatività degli analisti è risvegliata da molti
stimoli e alimentata da altre fonti, tra cui i conflitti patogeni del
ricercatore.” (…) “Io credo che la vera creatività psicoanalitica possa essere
motivata dal bisogno imperioso di indagare su certe aeree psicologiche che non
sono state completamente chiarite nell’analisi personale” (Kohut, 1971, p.
306).
Per alcuni analisti potenzialmente creativi, gli aspetti irrisolti di una traslazione narcisistica può, durante o al termine, essere spostata su Freud come imago paterna; a riguardo la paura della perdita di fusione narcisistica
con l’immagine del padre può innescare sentimenti controfobici di ribellione
che in ultima analisi determineranno un forte senso critico della sua opera.
Conseguenza sterile può essere un’incessante polemica
teorica che non è sostituita da un contributo positivo finalizzato
all’ampliamento della nostra conoscenza psicologica dell’uomo.
Quando invece
l’analizzando sta evolvendo verso lo scioglimento del proprio legame
narcisistico traslativo con l’analista si possono manifestare attività creative
libere da qualsiasi funzione difensiva da parte dell’Io.
Esse costituiscono di
frequente vere e proprie riattivazioni di tentativi creativi che risalgono alla
latenza e alla adolescenza.
Kohut cita l’esempio del
signor P., un giovane uomo che in
prossimità della fine della sua analisi inizia a scrivere racconti brevi e
molto interessanti: essi erano imperniati su tematiche di un adolescente pieno
di senso di solitudine, senso di estraniamento dal mondo e con attività
sessuali alquanto grossolane; è alla ricerca di un amico da cui essere protetto
rispetto a tutto ciò.
Tralasciando il
significato specifico di fronteggiare nella sua analisi il pericolo della
perdita superegoica, quello che è più interessante è il rapporto tra questi
racconti e l’elaborazione di problemi simili che si manifestarono in un “sogno
bagnato” fatto più di vent’anni prima e che accompagnò la prima polluzione
notturna:
“nel sogno il paziente contemplava un paesaggio di grande
bellezza e pace…prati ondulanti e ruscelli serpeggianti in cui l’acqua scorreva
gaia riflettendo il blu di un cielo senza nuvole. Piccoli gruppi di alberi
circondavano le abitazioni di uno stile rustico ed anche se non c’era nessuno
vi erano numerose tracce di vita: mucche che pascolavano e pecore bianche che
spiccavano nel verde dei prati. Improvvisamente la pace veniva turbata da un rombo
lontano. Il paziente alzava lo sguardo e scopriva che il paesaggio da lui
contemplato era una vallata ai piedi di un’alta diga. Il rombo minaccioso
sembrava provenire da lì e improvvisamente il paziente notava delle fessure
profonde nella diga. Tutti i colori del paesaggio mutavano in maniera
percettibile ma significativa. Il blu del cielo e dell’acqua diventava
nerastro. Il verde dell’erba cambiava in un verde acceso e innaturale e gli
alberi sembravano più scuri. Le fenditure nella diga si allargavano e poi tutto
ad un tratto un vortice di acqua brutta, brutta e distruttiva ne usciva fuori,
inondando la campagna con tutta la sua bellezza , spazzando via gli alberi, le case e gli animali.
L’ultima impressione indimenticabile che il paziente ebbe prima di svegliarsi
inorridito fu la vista del bianco delle pecore che si mutava nel bianco dei
cavalloni vorticosi che avviluppavano tutto”.
Tralasciando il
significato complesso presente in tutto il sogno possiamo dire che esso
esprimeva l’esperienza del disturbo narcisistico racchiuso nella sua
beatitudine (il paesaggio è il simbolo del corpo del paziente); disturbo
causato dall’irrompere di elementi sadici sessuali che sfociavano nella
polluzione.
Come si diceva prima, le
trasformazioni delle tensioni narcisistiche liberarono l’Io artistico che poté
iniziare ad investire oggetti-Se di natura più elevata con la produzione di
racconti brevi .
Considerando che possono
esserci delle eccezioni, possiamo considerare
che molte creazioni artistiche che emergono nella fase finale dell’analisi,
sono il risultato delle trasformazioni
di vecchie istanze narcisistiche patogene.
Umorismo e Saggezza.
Kohut ritiene che il
senso umoristico autentico sia un altro risultato delle trasformazioni delle
istanze narcisistiche arcaiche e patogene che avviene nel corso del trattamento
psicoanalitico.
Ma ancor di più
l’umorismo accompagna e completa il rafforzamento dei valori ed ideali.
Bisogna valutare se
l’attaccamento ai valori ed ideali è spontaneo e autentico cioè lontano da una
sorta di fanatismo e quindi accompagnato da un senso delle proporzioni e
soprattutto che le istanze narcisistiche sono neutralizzate ed inibite alla
meta. In altre parole sarebbe da
accertare clinicamente, il ridimensionamento delle fantasie grandiose e l’abbandono
di modalità perfezioniste che fanno emergere un misto equilibrato di ideali e
senso dell’umorismo.
L’Io del paziente
diventa capace di vedere adesso in proporzioni realistiche le ispirazioni del
Sé grandioso infantile e soprattutto di sorridere e divertirsi su quelle
configurazioni con ritrovato senso di libertà.
Il commento della sig.na
F ne è una prova: “Credo che il crimine
che lei ha commesso e per cui non può esservi perdono, è che lei non è me”.
La
conquista della saggezza è una delle vette dello sviluppo umano non tanto e
non solo per quanto attiene la trasformazione dei disturbi narcisistici ma in
generale in qualsiasi crescita e trasformazione umana.
La saggezza acquisita
durante il trattamento psicoanalitico consiste nel passaggio da una semplice
informazione dei dati ad una maggiore e più profonda consapevolezza del
funzionamento della propria mente.
L’inizio di questo
percorso che porta alla saggezza è contrassegnato, per il paziente, da una
buona conoscenza di se stesso ma anche dell’analista; ma soprattutto
dall’accettazione da parte del paziente di quel carattere passeggero che
connota l’esistenza individuale.
Questo è il prerequisito che favorisce nel paziente il
rafforzamento dell’autostima stante
la consapevolezza dei propri limiti, conflitti inibizioni e tendenze alla
grandiosità che possono permanere ma avvolte da una buona dose di
consapevolezza.
Bibliografia
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Psychologie, in Gesammelte Schriften,
vol. 5 (Teubern, Lipsia).
Freud, S., (1905), Tre saggi sulla teoria sessuale. In Opere. Vol. IV, Bollati Boringhieri, Torino
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Hartmann, 1927 Understanding and
Explanation in Hartmann (1964) Essays on Ego psychology, Int. Univ. Press, New York.
Kohut, H., (1959-1981), Introspezione
ed empatia. Raccolta di scritti. Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
Kohut, H., (1971), Narcisismo e
analisi del Sé. Bollati Boringhieri, Torino, 1976.
Kohut, H., (1977), La guarigione
del Sé. Bollati Boringhieri, Torino, 1980.
Jaspers, K., (1913), Psicopatologia gnereale. Pensiero Scientifico, Roma, 1963.
Jaspers, K., (1913), Psicopatologia gnereale. Pensiero Scientifico, Roma, 1963.
[1] Imago inconscia del padre. Nella nevrosi, a differenza dei
disturbi più gravi (narcisistici) ciò avviene in quanto il paziente ha già
formato la struttura Superegoica sulla base delle relazioni reali vissute con i
genitori.
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