Visualizzazione post con etichetta Ferenczi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Ferenczi. Mostra tutti i post

domenica 8 novembre 2015

Sándor Ferenczi: il terzo viaggiatore



Il viaggio del 1909 verso verso la Clark University di Worcester vedeva insieme a Freud e Jung, presi dalla loro vicariante interpretazione dei sogni, anche un terzo viaggiatore: Sándor Ferenczi. 

Ferenczi era un medico ungherese. Intraprese l’attività di psichiatra e lavorò in particolare con gli omosessuali (Bokanowski, 1997). Come psichiatra si era interessato all’ipnosi e ai meccanismi eziologici della nevrosi. Aveva letto le opere di Freud e Breuer sull’isteria, e anche L’Interpretazione dei sogni, ma non ritenne le idee di Freud eccezionali, fin quando non si avvicinò a Jung, grazie al suo interesse per i meccanismi di associazione sincronizzati. Jung invitò Ferenczi ad una rilettura dell’opera di Freud sul sogno, principalmente per l’interesse comune relativo ai fenomeni della rimozione, di cui Freud parlava nell’ultimo capitolo del suo lavoro.
Fu così che Ferenczi rivalutò l’opera e nel 1908 chiese un incontro a Freud (Bokanowski, 1997). Freud dimostrò interesse per il lavoro di Ferenczi e lo invitò al Primo Congresso di Psicoanalisi di Salisburgo. Alla conferenza parteciparono tra gli altri, Jung con il suo lavoro sulla dementia praecox, e Freud con la presentazione del caso clinico dell’uomo dei topi. Da quel momento in poi ebbe inizio una lunga collaborazione. 

Secondo Bokanowski (1997), Ferenczi partecipò durante il viaggio verso Worcester all’analisi dei sogni di Freud e Jung e alla fine del viaggio l’amicizia tra Freud e Ferenczi ne risultò rinsaldata – al contrario di quella tra Freud e Jung.
Tuttavia in un successivo viaggio in Italia sembrerebbe che Ferenczi si sia mostrato eccessivamente bisognoso e dipendente dall’approvazione di Freud, che associò la situazione alla precoce morte del padre di Ferenczi. Un altro episodio spiacevole tra i due riguarda le vicende sentimentali di Ferenczi, che s’invaghì prima di una donna sposata, poi della figlia di questa donna, che prese anche in analisi mettendo sé stesso e Freud in una posizione scomoda. 
 
Ferenczi, anticipò temi fondamentali quali l’introiezione, la scissione, e la frammentazione che verranno successivamente ripresi ed ampliati da Melanie Klein, di cui fu analista. Ferenczi analizzò anche Jones, sebbene questi, nella sua opera sulla vita di Freud, lo abbia accusato di instabilità emotiva (Jones, 1953). L’autore anticipò anche il concetto di oggetto transizionale, approfondito in seguito da Winnicott, e in generale i temi della relazione

Il sogno, per Ferenczi può essere considerato un ponte tra intrapsichico e intersoggettivo (Bolognini, 2000). Rispetto a questo tema, la grande innovazione dell’approccio di Ferenczi è data infatti dall’attenzione a temi meno “metapsicologici” o “topografici”, per focalizzarsi sul vissuto del paziente.
Ferenczi introduce anche dei cambiamenti fondamentali nella tecnica psicoanalitica, che tengono primariamente in considerazione l’analista in quanto persona che partecipa allo scambio con il paziente, e non più unicamente come schermo speculare attraverso cui si analizza soltanto il materiale proveniente dal paziente (Ferenczi, Rank, 1924). Queste innovazioni costeranno a Ferenczi l’esclusione dalla Società Psicoanalitica Viennese. 

Il sogno come elemento psichico dotato di senso psicodinamico, viene preso in considerazione da Ferenczi intorno al 1909. In quell’anno l’autore pubblica L’interpretazione scientifica dei sogni, un saggio in cui prende in esame, a partire dall’idea freudiana di sogno come elemento dotato di significato e appagamento di un desiderio represso, una serie di sogni di alcuni suoi pazienti, di cui analizza il significato. In quegli stessi anni anche Jung scrisse un lavoro analogo (L’analisi dei sogni), probabilmente questi scritti avevano lo scopo di divulgare la teoria freudiana nei paesi d’origine dei due autori

Nel lavoro del 1909 Ferenczi riporta gli elementi di base della teoria freudiana del sogno, quindi indica alcuni simboli: la serratura come simbolo della masturbazione femminile, l’armadio come simbolo dei genitali femminili, cadere dall’alto come declino etico o materiale, il corpo umano come una casa, sparare come atto del coito.
A tale proposito Ferenczi ripete la raccomandazione di Freud sull’uso delle libere associazioni e del simbolismo nell’interpretazione: non è possibile rifarsi ad un “libretto dei sogni” in cui trovare subito la spiegazione per ogni piccolo frammento, ma bisogna indagare il significato dei simboli mediante la collaborazione nelle associazioni con il paziente. 
Ferenczi a differenza di Freud – che utilizzò i propri sogni nell’esposizione della Traumdeutung – parte dall’analisi dei sogni dei propri pazienti, e non indugia nell’autoanalisi – perlomeno non pubblicamente – nonostante la ritenga un esercizio indispensabile per chiunque voglia studiare i processi inconsci. 
 
Dall’analisi dei sogni dei pazienti nevrotici Ferenczi ricava una conoscenza circa “il significato patologico e terapeutico dei sogni e della loro interpretazione” (Ferenczi, 1909, p. 58).
Secondo Ferenczi l’analisi di un soggetto nevrotico può essere accelerata da una felice analisi dei sogni. Mediante il sogno infatti possono essere scoperti “complessi” che nelle libere associazioni della veglia potrebbero restare inconsci a causa del regime più alto della censura durante il giorno.
Il sogno può essere in questo modo osservato come una via breve alla scoperta del sintomo nevrotico, che se portato alla consapevolezza può accorciare il percorso verso la guarigione.
Ferenczi propone anche la possibilità, accennata da Freud, di una significatività diagnostica dei sogni che vede realizzata in una futura “psicologia patologica del sogno che tratti sistematicamente le particolarità della formazione onirica nei casi di isteria, nevrosi ossessiva, paranoia, dementia praecox, nevrastenia, nevrosi d’angoscia, alcolismo, epilessia, paralisi, deficienza mentale ecc.” (Ferenczi, 1909, p. 58). 

L’autore dà anche qualche indicazione circa il rapporto tra paziente e analista con il sogno: l’analista non è soltanto un “catalizzatore”, ma un “motivo scatenante” del sogno (Ferenczi, 1909, p. 103). Il sogno infatti nasce dall’interazione tra paziente e analista e torna dal luogo in cui ha avuto origine. In questo senso Ferenczi sembrerebbe accennare al sogno di transfert.
Il contenuto onirico per Ferenczi ha valore non tanto per il suo contenuto, quanto per la qualità umorale e atmosferica che determina. In questo caso Ferenczi intende dire che il sogno dà informazioni fondamentali sulla modalità di funzionamento psicologico del soggetto all’interno di una situazione relazionale che ha determinato il sogno stesso. Ciò è molto evidente in Ferenczi che dà al sogno una valenza traumatolitica.
Il concetto di “traumatolico” (Ferenczi, annotazione del 23 marzo 1931) esprime una ulteriore differenziazione teorica di Ferenczi da Freud. Il significato del sogno, per Freud, riguarda la soddisfazione di un desiderio rimosso. Ferenczi invece rileva che nel sogno è possibile osservare la presenza di elementi sintomatici relativi a traumi vissuti nel passato. Il sogno viene in questo senso concepito da Ferenczi come traumatolitico, ovvero come elemento che costituisce un tentativo di soluzione dell’evento traumatico. 
Nel lavoro onirico l’obiettivo perseguito dall’analista è quindi quello di ripetere mediante l’analisi del sogno la passività che il soggetto ha sperimentato durante l’evento traumatico. Il fine terapeutico dell’analisi del sogno è quello di rendere accessibili le impressioni sensoriali. Ma l’interpretazione del sogno è solo un aspetto formale del lavoro analitico, poiché ciò che è considerato indispensabile è che il paziente riesca a rivivere affettivamente le emozioni, per poterle elaborare.
Ferenczi ritiene infatti che il focalizzarsi sull’eccessiva consapevolezza sia una resistenza all’analisi. 

Ferenczi postula l’esistenza di due possibilità per il sogno: nella prima si vive un’esperienza puramente emotiva, ovvero priva di contenuti ideativi (ciò è definito sogno primario), nella seconda (sogno secondario, sogno di deformazione) il trauma può giungere ad una soluzione. Il sogno secondario viene infatti deformato in senso ottimistico per poter accedere alla coscienza.
Borgogno (2000) spiega la funzione traumatolitica del sogno in questi termini
“La Traumdeutung di Freud è subito per Ferenczi una sorta di Traume-deutung, dove ciò che è traumatico è la quota di dolore presente in un’esperienza psichica che il paziente può aver registrato senza avere tuttavia gli strumenti adatti per riuscire a metabolizzarla. La funzione ‘traumatolitica’ dei sogni è di riproporre un’esperienza eccessivamente dolorosa nel tentativo di darne creativamente una soluzione migliore: una ripetizione che non è puramente istintuale, ma dell’Io, per questo sforzo di modificare la sofferenza in modo più economico e più vantaggioso. Tale punto di vista sarà prevalente nei suoi ultimi lavori laddove Ferenczi sottolineerà che la censura, nell’imporre una distorsione, “valuta sia l’entità del danno che la misura in cui l’individuo può sopportarlo, e ammette alla percezione solo quel tanto di forma e contenuto del sogno che risulta tollerabile, presentandolo, ove necessario, come adempimento di un desiderio (1931, in 1920-1932, p. 187)” (pp. 85-86). Il sogno è per Ferenczi soprattutto comunicazione della realtà psichica del paziente (Borgogno, 1997). Il sogno infatti risulterà incomprensibile se slegato da tale realtà. 

Le potenzialità del sogno sono quindi quelle di offrire al paziente la possibilità di narrare e integrare la propria storia nell’ambito dell’incontro con l’analista: feeling is believing - sentire è credere (Ferenczi, 1913).
I sogni per Ferenczi non riguardano soltanto un’espressione simbolica di tendenze inconsapevoli, ma il tentativo di working-throught di eventi attuali, i cui resti diurni, chiamati da Ferenczi (1934) “resti di vita” riguardano nello specifico l’analista in quanto egli è in grado di rianimarli. Spesso, infatti, le persone che giungono in analisi hanno bisogno di ritrovare il contatto con gli affetti, e la loro vita relazionale è impoverita a causa di una mancanza di contatto con le emozioni che hanno isolato (Borgogno, 1998).
In questo senso Borgogno (1997), scorge in Ferenczi il germe di una psicoanalisi volta all’intersoggettività. Ferenczi esprime la sua opinione sull’importanza della relazione terapeutica affermando: “si può guarire con tutte le tecniche possibili: con interpretazioni tanto paterne quanto materne, con spiegazioni teoriche, mettendo in rilievo la situazione analitica, e finanche con la vecchia, buona suggestione e l’ipnosi” (Ferenczi, 1926, p. 383); per il suo approccio alla relazione e la sua considerazione del mondo interno, verrà considerato un capostipite degli indipendenti britannici. 

Esempi di analisi di sogni:

Il sogno del “poppante sapiente” (1923)
Spesso i pazienti raccontano sogni in cui dei neonati o bambini piccolissimi o addirittura in fasce, sono in grado di scrivere con perfetto agio, di regalare a chi è a loro vicino parole profonde, di sostenere conversazioni colte, di tenere discorsi e così via. Il contenuto di questi sogni, sembra nascondere qualcosa di caratteristico. Una prima interpretazione superficiale del sogno fa venire fuori un concetto ironico della psicoanalisi, che, come si sa bene, dà più valore ed effetto psichico al vissuto della prima infanzia di quanto non si faccia abitualmente. Questa esagerazione ironica dell’intelligenza del bambino, non farebbe altro che esprimere chiaramente il dubbio sulle comunicazioni psicoanalitiche a questo proposito. Ma poiché fenomeni simili sono molto frequenti nei racconti, nei miti e nella tradizione religiosa, e sono spesso rappresentati concretamente nella pittura (il dibattito della Vergine Maria con i dottori
della Legge), credo che l’ironia qui agisca unicamente da intermediario per evocare ricordi più profondi e più gravi dell’infanzia del soggetto. Il desiderio di divenire sapiente e di superare i “grandi” in saggezza e conoscenza non sarebbe altro che un capovolgimento della situazione in cui si trova il bambino. Una parte dei sogni che rappresentano questo contenuto manifesto e che io ho potuto studiare sono illustrati dalla celebre frase del libertino: “Se soltanto avessi saputo fare un uso migliore dell’allattamento!”. Infine non dimentichiamo che un buon numero di conoscenze sono effettivamente ancora familiari al bambino, conoscenze che in seguito saranno sepolte dalla forza della rimozione. (Ferenczi, 1923 in Bokanowski, 1997, pp. 102-103). 

Scambio di emozioni nel sogno
Un signore di una certa età fu svegliato durante la notte da sua moglie, preoccupata di sentirlo ridere così smodatamente durante il sonno. Il marito le raccontò di aver fatto un sogno: “Ero a letto; un uomo che conoscevo è entrato in camera; ho cercato di accendere la luce, ma non riuscivo ad arrivarci; provavo e riprovavo, ma invano. Anche mia moglie si era alzata dal letto per venirmi in aiuto, ma neppure lei era riuscita a concludere qualcosa; così vergognandosi di trovarsi in camicia da notte alla presenza di questo signore, aveva finito per rinunciarci ed era tornata a letto. Tutto ciò era così comico che sono stato preso da riso irrefrenabile, mentre mia moglie continuava a ripetermi: “Ma perchè ridi così, cosa c’è da ridere?”. Io non riuscivo a smettere fino a quando lei non mi aveva svegliato”. L’indomani il sognatore era estremamente abbattuto e soffriva di un terribile mal di testa. “Sono state quelle risate incredibili che mi hanno sfinito”, diceva. Dal punto di vista analitico questo sogno sembra molto meno divertente. Il “signore di sua conoscenza” che era entrato, è nel pensiero latente del sogno “l’immagine della morte, evocata la sera precedente sotto il nome di ‘grande sconosciuto’”. Il vecchio signore che soffriva di arteriosclerosi aveva avuto la sera precedente occasione di pensare alla sua morte. Le risate irrefrenabili sostituiscono le lacrime e i singhiozzi all’idea che egli debba morire. La lampada che non riesce ad accendere è la lampada della vita. Questo triste pensiero è in rapporto a un recente tentativo di coito non coronato da successo in cui anche l’aiuto di sua moglie in camicia da notte non era stato di alcun aiuto; allora ha preso coscienza del fatto che ormai era sulla china discendente. Il sogno è riuscito a trasformare quel triste pensiero dell’impotenza e della morte in una scena comica e i singhiozzi in riso. Ugualmente si incontrano scambi di emozioni e scambi di gesti di espressione nelle nevrosi, oltreché nel corso dell’analisi sotto forma di “sintomi transitori”.
(Ferenczi, 1916, pp. 95-96). 

Come è possibile osservare dall’analisi di questi sogni, il modo di procedere di Ferenczi all’interpretazione è differente rispetto a quello freudiano. Esso si avvicina di più invece alle modalità suggerite da Jung e Rank. Ferenczi non suddivide minuziosamente il sogno nelle sue piccole componenti, ma lo considera nella sua interezza. Le associazioni e le informazioni che vengono fornite dal paziente, inoltre sono usate oltre che per essere esplorate, per confermare un significato attribuito, dunque l’attendibilità di un’interpretazione.

Il sogno è definito da Ferenczi memoria stratificata in movimento dinamico. Esso riguarda il presente e la ricerca di un Io vivibile, mediante l’esperienza dell’interazione psicoanalitica (Borgogno, 2000).
Esso è una comunicazione essenziale del paziente e può racchiudere in sé elementi fondamentali rispetto a ciò che viene “non detto” (verbalizzato). Mediante il sogno c’è la possibilità che questo materiale emerga in forma “sensoriale”.
Tutto ciò riveste un grosso valore nel momento dell’incontro tra paziente e analista, poiché, per Ferenczi, è esattamente questo il genere di materiale che costituisce un’analisi “riuscita”. 

Qui Ferenczi fa riferimento ad un approccio basato su un'evoluzione del concetto che Freud chiamava abreazione. Propone cioè un approccio leggermente diverso e quanto mai attuale del transfert: la possibilità di sperimentare emotivamente i contenuti traumatici in un contesto di ripetizione protetto. Secondo Ferenczi, infatti i sogni vengono raccontati alla persona a cui si riferisce il contenuto latente. Nello specifico, la persona dell’analista. L’analista è la sorgente esogena del sogno: il paziente registra tutti i movimenti inconsci dell’analista e li ripropone nel sogno. Un esempio evidente di questo processo è il caso di una paziente di Otto Rank, citata da Ferenczi (1926, p. 381): la paziente di Rank fotografa prontamente il narcisismo del suo analista nel volerle proporre, circa l’interpretazione di un sogno, la propria teoria sulla nascita. 
L’analista deve invece, nella relazione con il paziente, avere tatto nel proporre le sue interpretazioni, in modo che queste possano essere “digeribili” (Borgogno, 2000). Inoltre è necessario, secondo Ferenczi, mantenere un ascolto attento e profondo sul contenuto del sogno, volto ad una comprensione dei contenuti effettivamente affidati dal paziente all’analista; più che concentrarsi sul compito di trovare una conferma narcisistica della propria teoria o modello. E’ immediata, in questo senso, la sensazione che si riceve, dalla lettura delle opere di Ferenzi, di vivacità ed attualità nel modo di lavorare con i pazienti, nello specifico in relazione ai sogni.
L’importanza dell’evoluzione teorica del pensiero di Ferenczi ci viene confermata anche dall’unico passo indietro operato da Freud (1920) nella sua definizione di sogno: ovvero quello relativo alla possibilità che il sogno possa riguardare, oltre che l’appagamento di un desiderio rimosso, anche i contenuti traumatici

E’ possibile che l’attenzione sull’aspetto del trauma abbia fatto seguito agli avvenimenti storici che anche la psicoanalisi come disciplina, nella sua evoluzione, ha vissuto direttamente sulla propria pelle: ci riferiamo alle brutture della prima guerra mondiale; le discriminazioni razziali e i molti soldati e civili morti e feriti in guerra.
Questi eventi hanno sicuramente messo in evidenza l’urgenza di contenuti conflittuali che avevano a che fare più con la realtà, così come indica acutamente Ferenczi, rispetto alla considerazione di contenuti più strettamente intrapsichici, relativi all’infanzia e allo sviluppo di un funzionamento psicologico peculiare in adattamento – in maniera più circoscritta – alle circostanze familiari

Ferenczi in questo senso parla di frammentazione e nello specifico di scissione
La scissione non è prerogativa del sognatore, perchè è l’ambiente ad aver contribuito a determinarla e a continuare a favorirla impedendo agli eventi traumatici di essere rivissuti (Borgogno, 2000). Il sogno che per Ferenczi è memoria sepolta o revenants relativa anche alla propria storia familiare, è invece l’accadimento psichico principale in cui si determina la dissociazione: Ferenczi ne parla come di morte psichica e affettiva, in cui il contatto umano con l’esperienza traumatica è allontanato per mezzo di difese autistiche estreme (Borgogno, 2000). Come risposta a queste formazioni psichiche di blocco, Ferenczi propone un maggior calore e una maggiore partecipazione da parte dell’analista, così come una maggiore fiducia nella “reversibilità dei processi psichici” (1932, p. 279). 
Nella nota del 10 agosto 1930 Ferenczi indica come la dissociazione si manifesta nel paziente: dalla sensazione di aver reciso o perduto la testa, alla vertigine, dall'essere travolti da un ciclone, alla proiezione su oggetti non umani. La scissione è descritta invece come una lacerazione subita. 

Secondo Borgogno (2000) l’analisi deve offrire un contenitore al sognatore in modo da poterlo scongelare, farlo rientrare nella sua pelle, superare la passività e l’anestesia. L’analista deve accogliere la regressione del paziente e assumersi la responsabilità del suo dolore psichico, aumentando l’ascolto e il coinvolgimento e indossando i suoi stessi panni prima di lui (Borgogno, 2000). Egli deve credere alle percezioni del sogno del paziente ed esplorarle soprattutto emotivamente. In questo modo, si consentirà al paziente di risperimentare il trauma, e trovare quindi una connotazione più consona a tale vissuto nel bagaglio della propria esperienza di vita. 

Per Ferenczi in tal senso, l’analista si pone “alla pari” del paziente e non in posizione gerarchica (superiore). Il suo ruolo consiste nell’avvicinare il paziente con sensibilità e rispetto, e discernere tra le identificazioni portate dal paziente. 
Sugli elementi della personalità del paziente in relazione “a chi sta parlando” dentro di lui, si può ravvisare anche un’anticipazione dei temi cari ai teorici delle relazioni oggettuali: l’introiezione e proiezione nella costruzione dell’identità (Borgogno, 2000). 

I temi introdotti da Ferenczi anticipano i paradigmi teorici di molti autori a venire. I limiti del suo approccio appaiono sostanzialmente legati alle sue stesse questioni irrisolte: nella mutua analisi forse Ferenczi cercava un appoggio per sé stesso e una risoluzione ai conflitti di dipendenza che rimanevano aperti in lui. 
Tale richiesta non venne esaudita da Freud in seguito alla richiesta di aiuto personale di Ferenczi

venerdì 13 dicembre 2013

Sul sentimento di vergogna


E tuttavia io lo sono,
non lo respingo mai come un’immagine estranea,
 ma mi è presente come un me che io sono senza conoscerlo[1],
perché lo scopro solo nella vergogna
(in certi casi, nell’orgo­glio).
Sono la vergogna o la fierezza
che mi rivelano lo sguardo altrui
e me stesso al limi­te dello sguardo;
che mi fanno vivere, non conoscere,
la situazione di guardato.
Sartre (1943)

Freud
Io mi rimprovero qualche cosa
– ho paura che altre persone lo sappiano
mi vergogno quindi di fronte agli altri.
Freud (1895, p. 53).

In psicoanalisi, il tema della vergogna è stato spesso trascurato in favore della maggiore attenzione rivolta alla colpa. La vergogna riferendosi sia alla morale, che al Sé, era più difficile da identificare a livello psicodinamico (Frølund, 1997).  La concezione originaria sulla vergogna, a partire da Freud offre alcuni spunti di approfondimento e riguarda perlopiù un affetto con potenzialità di difesa[2]; così come la moralità. Nella Minuta K Freud (1895) elenca tre tipi di nevrosi[3] da difesa: isteria, nevrosi ossessiva e paranoia. In tutti questi tipi di nevrosi: “la vergogna e la moralità sono le forze rimoventi (…) l’insorgere della vergogna [è connessa] con l’esperienza sessuale mediante legami (…) profondi” pp. 50-51). I diversi tipi di nevrosi, si definiscono secondo Freud, proprio in base alla modalità di esecuzione della rimozione: “la nevrosi è il negativo della perversione” ovvero della manifestazione sessuale grezza, priva di rimozione (Laplanche, Pontalis, 1967).
Freud (1895) dedica una particolare attenzione al tema della vergogna nella descrizione eziologica della nevrosi ossessiva. In questo caso, l’esperienza primaria infantile (definita anche trauma[4]) è talmente precoce da non poter essere che accompagnata da piacere, tuttavia quando questa esperienza viene richiamata alla memoria sorge l’autoaccusa (in tedesco Vorwuf, rimprovero) che genera vergogna “ovvero paura che la gente sappia” (p. 53) e rimozione. Al posto del ricordo e dell’autoaccusa, si formerà – mediante spostamento lungo catene associative – un sintomo di contrasto: ovvero “una certa sfumata scrupolosità” (Freud, 1895, p. 52). Nel 1896, ne “Le nuove osservazioni sulle neuropsicosi da difesa”, Freud si riferisce alla vergogna non solo come forza che rimuove, ma anche come risultato della difesa riuscita: “Scrupolosità, vergogna, sfiducia in sé stessi sono i sintomi con i quali comincia il terzo periodo, quello dell’apparente sanità o, più propriamente, quello della difesa riuscita” (p. 313).
Ne “L’interpretazione dei sogni, Freud (1899) parla della vergogna descrivendo tra i sogni tipici, il “sogno di imbarazzo per la propria nudità”. Esso riguarda un desiderio esibizionistico proibito, che nel sogno trova soddisfacimento, ma che proprio per essere giunto a trovare una rappresentazione crea anche la sensazione penosa della vergogna. “Il contesto nel quale tali sogni si presentano in soggetti nevrotici, nel corso delle mie analisi, non lascia (…) alcun dubbio sull’esistenza alla base del sogno, di un ricordo della primissima infanzia. Soltanto nella nostra infanzia è esistito un periodo in cui eravamo visti seminudi (…) e non ci vergognavamo della nostra nudità (…). Questa infanzia che non conosce vergogna appare più tardi al nostro sguardo retrospettivo come un paradiso, e il paradiso stesso non è altro che la fantasia collettiva dell’infanzia del singolo. Ecco perché anche in paradiso gli uomini sono nudi e non si vergognano l’uno di fronte all’altro, finché giunge un momento in cui la vergogna e l’angoscia si destano, avviene la cacciata, cominciano la vita sessuale e il lavoro della civiltà” (pp. 227-228). L’esibizionismo ha a che fare con una rappresentazione di sé del soggetto che si pensa osservato dall’altro. L’Io diviene pensabile in quanto guardato dall’altro, ovvero esposto agli sguardi dell’altro. Anche questa concezione classica sembra un’impronta che si può adattare sia al modello relazionale, che alla teoria di Kohut della psicologia del Sé.
In “Lutto e melanconia” (1917), Freud afferma che il melanconico, manca di vergogna: “Il senso di vergogna di fronte agli altri (…) manca nel melanconico, o quanto meno non è appariscente. Si potrebbe mettere in rilievo nel melanconico la caratteristica opposta di un assillante bisogno di comunicare che trova soddisfacimento nel mettere a nudo il proprio Io. Non è dunque essenziale stabilire se il melanconico nel suo autodenigrarsi, abbia ragione, nel senso che la sua critica converge con il giudizio degli altri (…) Ha perduto il rispetto di sé e certamente per un buon motivo (…) L’analogia con il lutto ci induce a concludere che il melanconico ha subito una perdita che riguarda l’oggetto, da ciò che egli dichiara risulta invece una perdita che riguarda il suo Io” (p. 106).
Freud (1933) considera l’origine della vergogna non nella paura bensì nel senso di inadeguatezza: “Shame, which is considered to be a feminine characteristic par excellence but is far more a matter of convention than might be supposed, has as its purpose, we believe, concealment of genital deficiency. We are not forgetting that at a later time shame takes on other functions” (p. 132). Dunque la vergogna per Freud ha una duplice valenza: sia di meccanismo di difesa, che affetto e sintomo, e riguarda un fenomeno che coinvolge “gli altri che osservano”.
Ferenczi
Il ritiro dell’amore e il fatto di essere completamente soli
con la propria esigenza d’amore
di fronte a una maggioranza compatta e schiacciante
provocano nei bambini cosiddetti normali
la vergogna e la rimozione (nevrosi)
Ferenczi (1921, p. 257)

Uno sguardo al passato, rispetto al tema della vergogna, risulta proficuo rivolgendosi alla concezione di Ferenczi di mutua analisi. Essa può essere – almeno in parte secondo Kilborne (1998) – considerata una reazione rispetto alla vergogna dell’autore nei confronti del rifiuto da parte di Freud di accoglierlo come analizzando. Ferenczi cercava un analista che non indulgesse nella “confusione delle lingue”[5]. Ferenczi scrisse infatti che la sua stessa analisi non proseguì abbastanza a fondo a causa di motivazioni narcisistiche del suo analista, ovvero per “la sua ferma determinazione ad essere sano, e per la sua antipatia verso ogni debolezza e anormalità (…) introdusse la fase “educativa” troppo presto”. Ferenczi scrisse questa critica a Freud in data 1 Maggio 1932 del suo diario, commentando che dalla sua scoperta Freud non amava più i suoi pazienti, bensì era tornato all’amore del suo ben organizzato e coltivato Super Io (un’ulteriore prova della sua antipatia per psicotici, pervertiti e ogni cosa in generale “troppo anormale”). Il modello terapeutico di Freud, secondo Ferenczi stava diventando più interessato all’ordine, carattere e rimpiazzo di un cattivo superio con uno migliore, e stava diventando pedagogico. Poiché Freud non era disposto ad ammettere errori, Ferenczi, sensibile alla vergogna e alla ferita narcisistica, scrisse a proposito del bisogno dell’analista di ammettere debolezze ed esperienze traumatiche. Queste ammissioni, secondo Ferenczi, hanno l’effetto di ridurre e abolire la distanza e il senso di inferiorità del paziente. Significativamente il 21 Luglio 1932, dopo aver declinato l’offerta di presidenza dell’International Psychoanalytical Association (21 Agosto 1932), marcando irrevocabilmente la sua rottura con Freud, Ferenczi scrisse un lavoro “On feeling of shame” nel suo Diario clinico: “Così si comportano gli adulti, quando proiettano sui bambini la loro passionalità, ed è quanto anche noi, analisti, abbiamo fatto presentando le nostre distorsioni sessuali imposte ai bamini come teorie sessuali infantili”. Tre giorni dopo, il 27 Agosto 1932, Freud scrisse a Eitingon che “il rifiuto di Ferenczi è un’azione nevrotica di ostilità verso il padre e i fratelli, per mantenere il piacere regressivo di svolgere il ruolo di madre verso i propri pazienti”. L’approccio di Ferenczi, rigettato infine da parte di Freud, conteneva in germe molte delle più recenti considerazioni in ambito psicoanalitico. La concezione di self disclosure o di parità tra paziente e analista della psicoanalisi relazionale, così come la concezione dei meccanismi di scissione e dissociazione derivanti da un evento traumatico, nonché l’origine della psicopatologia da ricercare nella relazione madre bambino, piuttosto che nella sessualità infantile, fanno tutte capo al lavoro innovativo e lungimirante di Ferenczi. Egli si interrogava sull’autenticità dell’esperienza affettiva in analisi sia per il paziente che per l’analista, credendo che solo l’amore autentico potesse avere un valore riparativo e terapeutico[6] (Ciocca, 2003).
Winnicott
Non sarebbe tremendo
se il bambino guardasse nello specchio
e non vedesse niente?
Paziente citato da Winnicott, (1967, p.136)

Dagli albori della psicoanalisi fino agli anni 50, il tema della vergogna passa in secondo piano. E’ Winnicott, nella sua descrizione dello sviluppo del bambino in relazione alla madre a riportare l’attenzione sull’importanza dell’essere riconosciuti come soggetti nella propria unicità, da un altro significativo e soprattutto “reale[7]“. Winnicott (1967) parla del ruolo di specchio svolto dalla madre, come colei che permette al bambino di vedere se stesso (Mollon, 2002). La madre sufficientemente buona[8] (Winnicott, 1952, p. 88) è in grado di adattarsi ai bisogni del bambino creando un’illusione di onnipotenza che getterà le basi per lo sviluppo sano. L’esperienza del Sé del bambino si basa infatti sul principio “sono veduto, quindi esisto”. L’emergere del Sé sano – Vero Sé – rappresenta la realizzazione di un potenziale che viene alla luce grazie ai gesti creativi del bambino e può essere compromesso da fattori ambientali. Nel Falso Sé infatti la madre non riesce a comprendere il bambino attraverso i suoi gesti ed egli sarà obbligato ad un’accondiscendenza estranea al suo vero Sé finendo per imitare l’ambiente e rassegnandosi ad abbandonare i gesti creativi ponendo così le basi per un senso di sé basato su sentimenti di vulnerabilità, vergogna, estraniamento, irrealtà.

Kohut

The struggle of the patient who suffers from a narcissistic personality disorder to reassemble himself, the despair—the guiltless despair, I stress, of those who in late middle age discover that the basic patterns of their self as laid down in their nuclear ambitions and ideals have not been realized... This is the time of utter hopelessness for some, of utter lethargy, of that depression without guilt and self-directed aggression, which overtakes those who feel that they have failed and cannot remedy the failure in the time and with the energies still at their disposal.
The suicides of this period are not the expression of a punitive superego, but a remedial act—the wish to wipe out the unbearable sense of mortification and nameless shame imposed by the ultimate recognition of a failure of all-encompassing magnitude
Kohut (1977) citato da Morrison (1983)

L’approccio di Kohut al narcisismo ha consentito di rivalutare il ruolo della vergogna nella teoria psicoanalitica, tanto da meritare successivamente la definizione di Broucek (1982) “shame is to self-psychology what anxiety is to ego psychology – the keystone affect” (p. 369). Il lavoro di Kohut segna un primo passo nel cambiamento definitivo del paradigma psicoanalitico verso le relazioni oggettuali, anche se il suo inserimento all’interno delle teorie definite come tali, è controversa (Greenberg, Mitchell, 1983). L’attenzione alla condizione “psicotica” – narcisistica e borderline – precedentemente ritenuta difficilmente trattabile, viene reinterpretata da Kohut (1959) come struttura di personalità fortemente connotata da un deficit nel senso del Sé. Questo tipo di condizione, è caratterizzata da forti bisogni di dipendenza; una dipendenza che non è manifestazione di una fissazione orale come erroneamente concepito da Freud (1905), bensì di un bisogno concreto di appoggio che si manifesta chiaramente nel transfert. Kohut (1959) riconosce pertanto che le dinamiche di transfert non riguardano soltanto una ripetizione del passato, ma anche la necessità del paziente di un oggetto-sé in grado di sostenere i suoi bisogni relativi soprattutto alla possibilità di essere visto da un Altro, ad es. il terapeuta, per poter raggiungere un senso di stabilità (Kohut, 1971).  
Nel modello dello sviluppo kohutiano, i genitori fungono da oggetto-sé. Il compito principale dell’oggetto-sé è quello di svolgere una funzione speculare, ovvero fornire risposte empatiche che permettono il dispiegarsi dell’esibizionismo e della grandiosità del bambino. Il bambino in questo modo è in grado di elaborare il proprio Sé grandioso (2-4 anni) ovvero la sua iniziale onnipotenza (Kohut, 1966). Mediante l’idealizzazione dell’immagine parentale (imago parentale idealizzata) il bambino ricava (interiorizzazione trasmutante) un senso di uguaglianza al genitore forte e potente, cosiché è consentita la formazione dell’ideale dell’Io. La frustrazione adeguata alla fase di sviluppo permette di elaborare, in modo graduale, l’iniziale onnipotenza del bambino e di interiorizzare la funzione speculare dell’oggetto-sé (ovvero la sua modalità relazionale) ed il senso di essere uguale ad un ideale, consentendo la formazione del Sé nucleare. Tra i 4 e i 6 anni il bambino potrà procedere all’elaborazione del Sé bipolare – costituito dall’ideale dell’Io ricavato dagli oggetti-sé idealizzabili e dalle ambizioni realistiche, ciò che realmente si è in grado di fare – ovverosia il senso di avere delle risorse e delle intenzioni. Agendo in questo modo, il genitore rende possibile al bambino vivere l’esperienza dell’individualità (Kohut, 1971).
Quando invece i genitori falliscono nel loro ruolo di oggetto-sé si genera l’angoscia di disintegrazione (Kohut, 1977); ovvero una minaccia al proprio senso di identità. Il Sé grandioso viene scisso – dando origine al senso di vanagloria, orgoglio, arroganza – oppure rimosso – dando luogo a sentimenti di impoverimento (Self depletion), bassa autostima, vergogna, depressione (Kohut, 1971). Ne deriva un disturbo narcisistico in quanto il Sé grandioso non può essere neutralizzato poichè non ha ricevuto sufficiente rispecchiamento (Kohut, 1972, 1977).
L’incontro tra il bisogno del paziente e la funzione rappresentata dal rapporto affettivo del terapeuta oggetto-Sé, diventa quindi un’unità primaria nello sviluppo psichico. Kohut (1971) teorizzerà a tale proposito tre tipi di transfert di oggetto-sé: speculare, idealizzante e gemellare.
Kohut (1971) nota come le specifiche esperienze patologiche del narcisismo cadono nello spettro che va dall’ansia grandiosa e dall’eccitamento da una parte, al mite imbarazzo e consapevolezza di sé o estrema vergogna, ipocondria e depressione dall’altra (p. 200). Similarmente, come definizione della depressione, Kohut (1977) parla di una depressione “senza colpa”, definita dal fallimento a raggiungere ambizioni e ideali, che può essere considerata una sostituta della vergogna. Di fatto colpa e vergogna sembrano correlare tra loro, ed è possibile distinguere manifestazioni depressive caratterizzate da colpa, o manifestazioni depressive caratterizzate da vergogna. A seconda se predomina la perdita o l’aggressività, o il fallimento nel vivere un ideale. Inoltre, è messo in evidenza come la vergogna e il conflitto predominano spesso nei suicidi portati a termine. Kohut (1977) parla di una tremenda hopelessness, o letargia, di quelle depressioni senza colpa e autodirette, che sovrastano quelli che sentono di aver fallito e non possono rimediare, con energie ancora a loro disposizione. Il suicidio in questo caso non è un’espressione di un superio punitivo, ma un atto di rimedio, per scacciare il senso soverchiante di mortificazione e vergogna senza nome imposta dal riconoscimento del fallimento di grandezza onnicomprensiva.
Pertanto Kohut (1971, p. 181) non riconosce la vergogna come dovuta al confronto con un ideale dell’Io, bensì all’esibizionismo “costituzionale” del Sé non neutralizzato (Morrison, 1984).
I disturbi del Sé possono essere differenziati, secondo Morrison (1984) in primari e secondari, i disturbi secondari riguardano la reazione “acuta e cronica” di un sé consolidato alle esperienze dell’infanzia, dell’adolescenza e della maturità che implicano un sé sufficientemente coeso, mentre nei disturbi primari la
la vergogna non ha lo spazio necessario ad emergere, in quanto il sé non è in grado di registrare tale sentimento poiché sovrastato dal carico del panico e della diffusione dei confini (p. 83). Secondo Morrison (1984), l’antidoto alla vergogna riguarda l’accettazione. Nel trattamento psicoanalitico dei pazienti depressi, è necessario non trascurare la rabbia narcisistica che deriva esattamente dalla mancanza di consapevolezza riguardo il senso di vuoto e fallimento dovuto agli obiettivi non conseguiti del Sé grandioso, che rendono il Sé non accettabile.

La concezione di Kohut (1972) di rabbia narcisistica, riguarda infatti in maniera complementare la vergogna: l’Uomo Tragico è colui che non è in grado di riconoscere sé stesso, in quanto soffre di un vuoto che risulta dal mancato rispecchiamento ricevuto dall’ambiente. Ciò causa una vulnerabilità primaria alla rabbia, in quanto la persona stessa è drammaticamente incapace di riconoscere chi è; parafrasando la citazione di Winnicott (1967), “non trova sé stesso”. 


Schema dell’approccio terapeutico secondo Kohut (1971).


La vergogna sperimentata come evento relazionale può attivare difese molto rigide, come il diniego, la dissociazione e la costruzione di strategie protettive come “i rifugi della mente” (Steiner 1993), utili a preservare il sé da sentimenti di impotenza, abbandono e vergogna. Queste difese, se non riconosciute, possono impedire sia la comunicazione, sia la simbolizzazione dell’esperienza traumatica stessa nella forma di un linguaggio comunicabile. La dissociazione può presentarsi sottoforma di “scissione verticale”[9] così come indicato da Kohut (1971), in cui è possibile osservare due rappresentazioni del sé distinte; una di tipo maniacale, l’altra di tipo depressivo con relativi sentimenti di autosvalutazione e vergogna, che possono portare nei casi estremi al suicidio. 
Broucek
It is important to distinguish between
shame stress,
the narcissistic affect shame,
and the process which regulates this affect,
 shame regulation.
Broucek (1982)
Broucek (1982) ha studiato la vergogna e le sue connessioni con lo sviluppo narcisistico. Secondo l’autore “significant shame experiences may occur in the first one and a half years of life” (p. 372); e riguardano in essenza lo sviluppo del senso di sé. Broucek considera indici di una risposta di vergogna la postura, come ad es. il capo chino o l’allontanamento dello sguardo dei bambini il cui intento non è riuscito mentre un loro interesse era stato attivato. Broucek (1991) respinge l’ipotesi di una barriera innata per gli affetti di eccitazione o di gioia, citando casi in cui l’eccitazione o la gioia vengono interrotti, mentre sorge la vergogna. La proposta di Broucek è che queste prime fonti di vergogna o senso di colpa sono il risultato delle esperienze del bambino d’inefficacia interpersonale. In questo modo Broucek lega lo sviluppo positivo del senso di sé all’efficacia, in particolare nelle relazioni interpersonali, mentre la vergogna emerge quando si verificano degli errori. Secondo Broucek (1982) la vergogna emerge quando il contatto con la madre si interrompe:  
[I]n the infant’s contacts with mother at those moments when mother becomes a stranger to her infant. This happens when the infant is disappointed in his excited expectation that certain communicative and interactional behavior will be forthcoming in response to his communicative readiness ... shame arises from a disturbance of recognition, producing familiar responses to an unfamiliar person, as long as we understand the “different” mother to be the unfamiliar person. That a mother (even a “good enough” mother) can be a stranger to her own infant at times is not really surprising since the mother’s moods, preoccupations, conflicts and defences will disturb her physiognomy and at times alter her established communication patterns [p. 370].
L’autore afferma che la vergogna è l’esperienza affettiva di base di dispiacere e dolore psichico associata con i disturbi del narcisismo. La “Nameless shame” di Kohut (1977), ha origine nel periodo sensomotorio e nonverbale, quando sia la componente dell’ideale dell’Io che il Superio sono operativi. La colpa emerge solo nel periodo verbale, che riguarda lo sviluppo della coscienza e l’interiorizzazione dei valori morali. La vergogna inoltre secondo l’autore è intimamente connessa alla sessualità; egli ipotizza che la vergogna è una fonte primaria d’inibizione, che limita la forza della vita erotica. Al contrario di Freud, tuttavia, Broucek afferma che non è la civiltà che si è sviluppata intorno alla possibilità di inibire il desiderio sessuale, ma sono i vincoli innati della sessualità con la vergogna ad aver svolto un ruolo fondamentale nella costruzione della civiltà. A sostegno di questa ipotesi afferma che l’aumento dell’incidenza della depressione, insieme al diffuso senso di disperazione, riguarda la sensazione che la vita ha perso significato, e ciò è riconducibile alle violazioni della funzione di protezione che deriva dalla vergogna nel garantire ad esempio all’individuo psichicamente ancora immaturo, come un adolescente, di essere coinvolto in un livello di intimità fisica maggiore di quanto sia psicologicamente preparato a gestire. Un interessante concetto esposto da Broucek (1991) è quello di oggettivazione: i bambini diventano consapevoli che sono oggetto di controllo sia degli altri che di se stessi. Secondo Broucek questa esperienza frantuma la relazionalità con caregivers che il bambino aveva precedentemente dato per scontata. I bambini diventano così in grado di distinguere tra le esperienze in cui la loro soggettività viene rispettata, e quelle in cui vengono trattati soprattutto come “oggetti”. Essere trattati senza considerazione verso i propri sentimenti e interessi può assumere molte forme, tra cui la vergogna. La vergogna verrà da quel momento in poi attivata quindi ogni volta che i bambini saranno trattati come oggetti, e soprattutto quando sperano o si aspettano di ottenere uno scambio soggettivo. Secondo Broucek (1991) per tutta la vita sperimentiamo momenti in cui “esistiamo con l’altro in un campo di esperienza affettiva condivisa e in sovrapposizione di coscienza” e momenti di 'coscienza disgiuntiva', in cui c’è un godimento reciproco come meri oggetti” (p. 46). “Nello stato di improvvisa, non cercata, o indesiderata auto-oggettivazione l’esperienza immediata di un individuo di realtà dell’essere può essere persa, con conseguente vergogna e trasformazione del mondo interpersonale e fenomenale come disorientante. In quei momenti il mondo può sembrare in pericolo di collasso ... e di conseguenza, in una sorta di vertigine” (p. 40).
Broucek (1991) propone quindi che l’esperienza della vergogna di sentirsi un mero “oggetto” possa essere una fonte di derealizzazione, depersonalizzazione, e la frammentazione del senso di Sé coeso; questa concezione è stata definita da Lichtenberg (1994) un importante contributo alla comprensione degli stati traumatici.
Dal punto di vista della situazione analitica, Broucek (1991) afferma che un certo grado di oggettivazione del paziente avviene sempre quando si legge il suo comportamento alla luce di una teoria, e ciò rischia di mettere il paziente nella condizione di provare vergogna (p. 101). D’altra parte l’uso del lettino in analisi consente di ridurre al minimo la possibilità che il paziente provi vergogna, ma bisogna anche considerare il rischio che ciò si traduca in una manchevolezza nell’analisi di tale aspetto del paziente (p. 86).

Thrane
I am ashamed of what I am.
Shame therefore realizes an intimate relation of myself to myself.
Through shame I have discovered an aspect of my being
Sartre (1943, p. 221).

The guilty person focuses on the act;
 a man ashamed, on himself.
A man who is ashamed
is ashamed of what he is.
Thrane (1979)

Secondo Thrane (1979), non è un caso che gli adolescenti siano particolarmente inclini alla vergogna: essa, è strettamente connessa all’identità. Per l’adolescente, l’obbedienza agli ammonimenti dei genitori assume il significato di essere all’altezza degli ideali degli adulti.
La vergogna consta, secondo l’autore di due aspetti: uno è personale, ovvero relativo agli ideali di sé – come ad esempio la forma del proprio corpo; definito dall’autore “l’oggetto primordiale della vergogna”–, mentre l’altro riguarda l’aspetto sociale. In questo caso la vergogna riguarda gli altri: in particolare “essere di fronte agli altri”. Ad esempio, arrossire o sudare sono risposte sociali alla vergogna, così come il desiderio di non essere visibili agli altri può essere tale da suicidarsi. La vergogna è vissuta come un colpo all’immagine di sé, mentre la colpa riguarda un senso di “aver preso più di quanto sia giustamente proprio”. Mentre nella vergogna si cerca il segreto, nella colpa si cerca la confessione. Il colpevole si concentra sul gesto, un uomo che prova vergogna, su se stesso.
Un antidoto alla vergogna è l’umorismo: coloro che sono in grado di ridere di se stessi si sentono superiori alle loro debolezze e mancanze, e la vergogna viene pertanto dissipata. Ciò che cambia secondo Thrane (1979) è il senso di essere attivi rispetto a tale sensazione: “Il clown che fa ridere gli altri di se stesso non si sente umiliato, poiché è egli stesso ad averli fatti ridere “ (Piers, 1953 p. 42).
Citando Walsh (1970) Thrane afferma che una fonte importante di vergogna o orgoglio riguarda le origini, le istituzioni di cui si fa parte, la cultura e le persone associate allo sviluppo in quanto esse definiscono considerevolmente l’identità dell’individuo.
La vergogna dipende infatti dai processi di identificazione, così come suggerito anche da Erikson nel modello dello sviluppo dell’identità (1950). Tuttavia solo alcune identificazioni possono essere scelte, infatti quelle più importanti come ad esempio quelle infantili o inconsce, non vengono scelte.
La vergogna inoltre è relativa agli ideali. Per vergognarsi è necessario sentire che si è privi di valore, spregevoli invece che ammirevoli, perdere l’autostima e l’amore di sé, allontanarsi da sé stessi con disgusto, e aspettarsi che gli altri facciano altrettanto, temere i loro sguardi di disprezzo, e desiderare di essere invisibile.
In tal senso mentre la vergogna è orientata all’esterno, il senso di colpa è orientato internamente. La vergogna implica un pubblico, anche se solo nella fantasia. Tale esperienza diventa condivisibile solo dopo che si è superata attraverso un riadattamento di ideali, o dell’umore. Ma ciò che si cerca non è il perdono, bensì l’accettazione che diventa una conferma della propria identità.
La vergogna a quel punto diventa una responsabilità dell’individuo in quanto ha in precedenza svolto un ruolo di protezione nei confronti dell’identità; nel momento in cui era in atto una costruzione amorevole di sé.
Secondo Thrane (1979), il paziente arriva in analisi insoddisfatto della sua identità, tale vergogna circa il suo essere produce migliori potenzialità di cambiamento. La vergogna, come afferma anche Kohut manca soltanto in presenza di un sé completamente disintegrato, in quanto relativo ai disturbi primari del Sé.
La stessa intrusione del terapeuta nel regno privato del sé, può indurre nel paziente molta vergogna. Il transfert di idealizzazione e identificazione può essere utilizzato come un modo per scongiurare la vergogna.
Thrane inoltre considera la vergogna dell’analista una protezione della propria integrità psichica riguardo all’osservazione del mondo privato del paziente: tale vergogna riguarda il riconoscimento che il paziente è qualcun altro e non un semplice oggetto di tecnica. In questo modo il senso di  vergogna dell’analista, produce l’ideale di riservatezza come una certezza evidente, invece che come un’esternazione imbarazzante imposta da considerazioni di prudenza. La pratica della psicoterapia è un mestiere solitario in molti modi e pertanto il senso di vergogna è sicuramente una causa parziale di solitudine; tuttavia afferma Thrane, il terapeuta che non prova vergogna per i suoi pazienti potrebbe perdersi nel mondo privato dei suoi “casi”. L’aiuto di altri colleghi diventa una costellazione narcisistica di pezzi di un puzzle, pertanto il senso di vergogna dell’analista è un riconoscimento dell’alterità irrevocabile e della naturale dignità del paziente.

Amati Sas
 
Da uno studio sistematico sulla vergogna, l’autrice Amati Sas (1992) percorre come via d’unione alle differenti teorie sul tema, quello dell’ambiguità. Ciò è dovuto principalmente al fatto che le teorie degli autori incrociate, non corrispondono tra loro, a maggior ragione con gli esempi che vengono riportati. Tuttavia differenti approcci teorici messi insieme consentono una visione unitaria sul tema.
L’esperienza clinica dell’autrice riguarda soprattutto il lavoro con pazienti che riportano eventi traumatici importanti. Elementi di vergogna emergono chiaramente in questo tipo di pazienti che combattono con sentimenti di alienazione e conflitto (Amati Sas, 1989). Bettelheim (1943) ha notato che una persona esposta a condizioni estreme si comporta in un modo che essa stessa non approva. La persona rimane con differenti immagini di sé che corrispondono a contesti diversi e non possono essere introdotti in un unico registro.
In queste situazioni, l’elaborazione della vergogna presuppone la capacità di accettare la sfida di scoprire molteplici varianti della propria immagine a seconda delle circostanze, e il placare il conflitto interno che ne deriva, così come  la continua necessità di ristabilire la propria continuità e coerenza, cioè il senso della propria identità.
L’ambiguità è caratterizzata dalla possibilità di adattamento, malleabilità, permeabilità e non conflittualità all’interno della personalità.
La parte più dipendente della personalità diventa particolarmente evidente nelle circostanze in cui una persona esposta a condizioni estreme sente di aver perso la sua continuità. In queste circostanze traumatiche, gli aspetti ambigui della personalità − i residui dell’indifferenziazione primaria (di solito scissi, proiettati e depositati nel quadro stabile degli oggetti esterni), invadono l’Io più maturo, integrato e differenziato. Questa regressione all’ambiguità corrisponde a quello che Winnicott chiama 'fear of breakdown’, Anna Freud ‘fear of surrender’ e Masud Khan ‘dread of resourceless dependance’. Essa è vissuta dalle vittime di situazioni estreme come un cambiamento, una nuova verità’, in cui, inaspettatamente devono ‘adattarsi e familiarizzare con qualsiasi cosa(Amati Sas, 1985).
La vergogna può essere facilmente definita come una sensibilità propria del campo narcisistico’, relativa ai legami simbiotici che si accompagnano sempre alle relazioni oggettuali.
Per comprendere la vergogna, è importante notare la reciprocità del legame simbiotico, in cui ognuno è il potenziale depositario di ansie e incertezze altrui. Il legame simbiotico, che è mutuo e tacito, comporta la capacità di essere il depositario dell’ambiguità di un altro.
Quando si è nella posizione dell’oggetto ausiliario, ci si assume la responsabilità per la propria ambivalenza verso gli aspetti ambigui dell’altro (ciò è particolarmente evidente nella posizione dello psicoanalista).
Vergogna e ambiguità possono essere pertanto connesse. Quando l’ambiguità predomina nella personalità, non si manifesta la vergogna. Tuttavia, se il senso di vergogna diventa troppo angosciante, il soggetto può difendersi contro di essa diventando indefinito o confuso.
Nel momento in cui emerge la vergogna, l’Io può essere spinto a intraprendere un lavoro di conoscenza e simbolizzazione, perché è costretto a funzionare’, al fine di recuperare l’equilibrio perduto nel suo senso di continuità e coerenza. In questi casi si può ricorrere a un intervento preventivo (gesti o comportamenti), oppure si può intraprendere uno sforzo più complesso di rappresentazione e simbolizzazione, inducendolo mediante un diverso registro. Nei casi di vergogna catastrofica che travolge il senso di continuità del sé, è necessario un periodo di elaborazione e contestualizzazione’ più lungo; un maggiore sforzo per recuperare i propri punti di riferimento interni ed esterni (come si può osservare nel processo terapeutico dei superstiti).

[1] L’essere per altri non è una relazione oggettiva, conoscitiva, tra me e l’altro, ma una relazione d’essere, che si coglie immedia­tamente negli stati o affetti psicologici come la vergogna.
[2] La difesa è definita da Freud (1895): “un’avversione a dirigere l’energia psichica in modo da produrre dispiacere” (p. 49).
[3] Ricordiamo che Freud suddivise le nevrosi in attuali (derivanti da disfunzione somatica sessuale) e psiconevrosi (relative a un conflitto). La nevrosi narcisistica ad esempio, figura tra le psiconevrosi, ovvero tra le patologie più vicine alla psicosi che alla nevrosi. In tal senso questa classificazione verrà poi accolta significativamente da Kohut (1959) per mettere in evidenza il diverso ambito d’azione per la psicoanalisi quando essa riguarda un paziente nevrotico o psicotico.
[4] Negli “Studi sull’isteria” (1892-95) Freud fornisce una definizione di trauma psichico come “qualsiasi esperienza provochi gli affetti penosi del terrore, dell’angoscia, della vergogna, del dolore psichico” (p. 177).
[5]La confusione delle lingue tra l’adulto e il bambino. Il linguaggio della tenerezza e della passione”, lavoro presentato al Congresso di Wiesbaden dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale.
[6]Elasticità della tecnica psicoanalitica” (1928).
[7] Gli indipendenti inglesi hanno definito il bambino come un essere programmato per ottenere un’interazione armoniosa e uno sviluppo non traumatico, che può incorrere in cure genitoriali inadeguate (Mitchell e Black, 1995): “Bowlby citava come una pietra miliare nel sorgere della sua linea di pensiero indipendente il momento in cui si alzò con aria di sfida per affermare nel mezzo di una di queste discussioni: “Ma le cattive madri esistono davvero” (p. 140). Tale espressione segnò lo sviluppo delle teorie inglesi postkleiniane.
[8] Lettera a Money Kyrle.

[9] I concetti di scissione orizzontale e verticale in Kohut (1971) riguardano nel primo caso una rimozione del nutrimento narcisistico proveniente da determinate fonti;  mentre nel secondo caso dalla negazione completa di un intero aspetto della realtà psichica del soggetto dal Sé centrale (p. 176; p. 195). Il compito dell’analista è quello di abolire entrambe le barriere.

Bibliografia
Amati Sas, S. A. (1988), Rcuprer la honte In Violence d’tat et Psychanalyse ed. J. Puget, R. Kas. et al. Paris: Dunod,1989.
Amati Sas, S. A. (1992), Ambiguity as the Route to Shame. Int. J. Psycho-Anal., 73:329-341.
Bettelheim, B. (1943), Individual and mass behaviour in extreme situations J. Abnormal Social Psychology. 38, 417-452
Broucek, F. J. (1982), Shame and its Relationship to Early Narcissistic Developments. Int. J. Psycho-Anal. 63:369-378 
Broucek, F. J. (1991). Shame and the Self. New York: The Guilford Press.
Ciocca, A. (2003), Appunti di psicoanalisi. La Biblioteca by ASPPI collana Strumenti 
Erikson, E. (1950), Infanzia e società. Armando Editore
Ferenczi, Sándor (1933). The Confusion of tongues. In M. Balint (ed.), Selected Papers of Sándor Ferenczi, vol. 3. New York: Basic Books, 1955
Ferenczi, S. (1911), Opere. Raffaello Cortina, Milano
Ferenczi S. (1932), The clinical diaries. Dupont J, ed. Cambridge: Harvard University Press, 1988
Freud, S. (1892-1895), Studi sull’isteria. Tr. it. in Opere vol. I, Bollati Boringhieri, Torino
Freud, S. (1899), L’interpretazione dei sogni. Tr. it. in Opere, vol. III, Bollati Boringhieri, Torino, 1968
Freud, S. (1915-1917), Introduzione alla psicoanalisi. Tr. It. in Opere vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino 1978
Freud, S. (1926), Inhibitions, Symptoms, and Anxiety. Standard Edition 20 77-175 London: Hogarth Press, 1959
Frølund, L. (1997). Early shame and mirroring. Scand. Psychoanal. Rev., 20:35-57
Greenberg, J. R., Mitchell S. A. (1983), Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica. Tr. it. Il Mulino, Bologna 1986
Kilborne, B. (1998). Ferenczi, Regression and Shame. Int. Forum Psychoanal., 7:225-228
Kohut, H., (1959-1981), Introspezione ed empatia. Raccolta di scritti. Bollati Boringhieri, Torino, 2003
Kohut H. (1966), Forme e trasformazioni del narcisismo. In Kohut H. (1978), La ricerca del Sé. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1982
Kohut, H. (1971), Narcisismo e analisi del Sé. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1976
Kohut, H., (1972), “Pensieri sul narcisismo e sulla rabbia narcisistica”. Tr. it. in La ricerca del Sé. Bollati Boringhieri, Torino, 1982
Kohut, H. (1977), La guarigione del Sé. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2002
Laplanche, J. e Pontalis, J.B. (1967), Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari, 1981
Lichtenberg, J. W. (1983), Psychoanalysis and Infant Research, Lawrence Erlbaum Associates, New Jersey
Lichtenberg, J (1994), Shame and the self. Psychoanal. Q., 63:124-129
Mitchell S. A., Black M. J. (1995), L'esperienza della psicoanalisi: Storia del pensiero psicoanalitico moderno. Bollati Boringhieri, Torino 1996
Morrison, N. K. (1987), The rôle of shame in schizophrenia. In: The Rôle of Shame in Symptom Formation, pp. 51-87, ed. H.B. Lewis, New Jersey: Lawrence Erlbaum Ass
Morrison, A. P. (1983), Shame, the ideal self, and narcissism. Contemp. Psychoanal., 19, 295-318
Morrison, A. P. (1984), Shame and the Psychology of the Self. In Kohut's Legacy: Contributions to Self Psychology. Edited by Paul E. Stepansky and Arnold Goldberg. The Analytic Press, Hillsdale, N. J.
Sartre, J.-P. (1943), Being and Nothingness. New York: Philosophical Library, 1956
Steiner S., (1993), I rifugi della mente, Boringhieri, Torino, 1996
Thrane, G. (1979). Shame and the Construction of the Self. Annu. Psychoanal., 7:321-341
Winnicott, D.W. (1967). The location of cultural experience., Int. J. Psychoanal., 48:368–372

Post più popolare

DSM-5: cosa è cambiato nella diagnosi?

I sistemi diagnostici in psichiatria sono basati sull'osservazione della presenza o assenza e della frequenza d...

Post più letti