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martedì 29 marzo 2016

Un artista del digiuno (Kafka, 1922)




La gabbia 
In questi ultimi decenni l’interesse pei digiunatori è molto diminuito. Mentre prima meritava metter su spettacoli di questo genere per proprio conto, oggi sarebbe assolutamente impossibile. Erano altri tempi quelli. 
Tutta la città si occupava allora del digiunatore; a ogni giorno di digiuno aumentava l’interesse del pubblico; tutti volevano vedere il digiunatore, almeno una volta al giorno; e negli ultimi giorni c’erano perfino degli abbonati che sedevano intere giornate davanti alla sua piccola gabbia; anche di notte avevano luogo delle visite alla luce delle fiaccole, per aumentare l’effetto; quando il tempo era bello la gabbia veniva trasportata all’aperto, e allora erano specialmente i bambini a cui veniva mostrato il digiunatore; mentre per gli adulti costituiva spesso solo uno spasso, a cui si partecipava perché era di moda, i bimbi lo guardavano ammirati a bocca aperta, tenendosi per precauzione per la mano, mentre egli, pallido, nella sua maglia nera, con le costole esageratamente sporgenti, sdegnando perfino una poltrona, se ne stava seduto sopra paglia sparsa qua e là, facendo a volte un cenno cortese con la testa, a volte rispondendo alle domande con un sorriso sforzato o allungando un braccio attraverso le sbarre per far palpare la sua magrezza; e finiva poi per sprofondarsi in se stesso senza occuparsi più di nessuno, neppure del battito dell’orologio – così importante per lui unico mobile della sua gabbia, per guardare fissamente cogli occhi semichiusi dinanzi a sé, succhiando di quando in quando un sorso d’acqua da un minuscolo bicchierino, per inumidirsi le labbra. 

Gli spettatori del digiunatore secondo il fumettista Crumb)

Oltre agli spettatori consueti e mutevoli c’erano anche dei guardiani fissi, scelti dal pubblico, che per una strana coincidenza eran di solito macellai e, sempre a tre per volta, avevan il compito di sorvegliare il digiunatore giorno e notte, perché, clandestinamente, non riuscisse a nutrirsi in qualche modo. Ma era solo una formalità, adottata per tranquillità della folla, poiché gli iniziati sapevano bene che il digiunatore, durante il periodo, non avrebbe toccato nessuna qualità di cibo, a nessun costo, neppure se vi fosse stato costretto; lo impediva il rispetto verso la sua arte. 
Ma naturalmente, non tutti i guardiani potevano intendere ciò; a volte si formavano dei gruppi di sorveglianti notturni che compivano il loro dovere molto superficialmente, si ritiravano di proposito in un cantuccio lontano, per darsi tutti a giuocar a carte, con l’intenzione evidente di dare al digiunatore il modo di fare un piccolo spuntino che, a loro parere, avrebbe potuto consumare ricorrendo a qualche segreta riserva. 

Per il digiunatore nulla era più penoso di questi guardiani; lo facevano diventare melanconico, gli rendevano terribilmente difficile il digiuno; a volte riusciva a vincere la sua debolezza e cantava durante la veglia finché aveva fiato, per mostrar a quella gente quanto ingiustamente sospettavano di lui, ma serviva a poco, perché quelli invece lo ammiravano per la sua abilità di mangiare perfino mentre cantava. Preferiva di molto quei guardiani che si sedevano proprio vicino alla gabbia e, non contenti della fioca illuminazione notturna della sala, lo illuminavano con lampadine elettriche tascabili, che l’impresario metteva a loro disposizione. 
Quella luce cruda non lo disturbava per nulla; tanto, dormire non poteva, mentre gli riusciva di appisolarsi un poco sempre, con qualsiasi illuminazione e a qualsiasi ora, anche se la sala era piena di gente e di fracasso; egli era dispostissimo a passare la notte con quei guardiani senza dormire mai; era pronto a scherzare con loro, a raccontare loro qualche storia della sua vita errante, ad ascoltare a sua volta i loro racconti, e tutto soltanto per tenerli svegli, per convincerli continuamente che non c’era nulla da mangiare nella gabbia e che egli digiunava come nessuno di loro avrebbe potuto fare. La sua felicità toccava il colmo, però, quando faceva giorno e, a sue spese, veniva portata loro un’abbondantissima colazione, su cui si gettavano con l’appetito proprio delle persone sane dopo una faticosa veglia notturna. 




C’era, è vero, della gente che vedeva in questa colazione una scandalosa circonvenzione dei guardiani da parte sua, ma era un andar troppo oltre, e quando si chiedeva a quelle persone, se fossero disposte ad assumersi la veglia notturna senza colazione, per andare in fondo alla cosa, si dileguavano, pur restando fedeli ai loro sospetti. Questo d’altronde faceva parte di quei sospetti che circondavano comunque l’arte del digiuno. Nessuno infatti, era in condizione di passar tutti quei giorni e quelle notti ininterrottamente come guardiano accanto al digiunatore, e nessuno dunque poteva sapere, per propria esperienza, se il digiuno veniva osservato davvero senza interruzioni, in maniera assoluta; solo il digiunatore in persona era in grado di saperlo e di essere così anche lo spettatore pienamente soddisfatto del suo digiuno.
Egli invece non era soddisfatto mai, per un’altra ragione: forse non era dimagrito per il digiuno tantoché alcune persone, pur dolenti, erano costrette a rinunciare a quello spettacolo perché non sopportavano la sua vista ma piuttosto perché non era soddisfatto di sé. Egli solo sapeva e nessuno iniziato lo sospettava quanto fosse facile il digiunare. Era la cosa più facile del mondo. Non lo nascondeva neanche, ma non gli si prestava fede e, nel migliore dei casi, lo si riteneva modesto, più spesso avido di pubblicità o addirittura un imbroglione, a cui il digiunare certo era facile, perché sapeva renderselo tale, e aveva anche la faccia tosta di lasciarlo intendere. Tutto questo ormai l’aveva dovuto sopportare, e nel corso degli anni ci s’era perfino abituato, ma nell’intimo questo malcontento lo rodeva sempre, tant’è vero che mai, dopo nessun periodo di digiuno questa testimonianza non gli si poteva negare aveva lasciato la gabbia spontaneamente. Come termine massimo del digiuno l’impresario aveva fissato quaranta giorni, non gli permetteva di superare mai quel limite, neppure nelle metropoli ... e non senza ragione. L’esperienza insegnava che sino a quaranta giorni si poteva aumentare gradatamente l’attenzione di una città con una pubblicità sempre più intensa; più a lungo il pubblico non rispondeva più; si notava una sensibile diminuzione dell’affluenza; c’era naturalmente qualche divario, sotto quest’aspetto, tra un paese, tra una città e l’altra, ma la regola era che quaranta giorni costituissero il limite massimo. 


Il quarantesimo giorno la porta della gabbia inghirlandata veniva aperta, una folla di spettatori entusiasmati gremiva l’anfiteatro, una banda militare suonava, due medici entravano nella gabbia per fare le misurazioni di rito al digiunatore, con un megafono venivano diffusi tra la gente i risultati dell’esame medico, e finalmente arrivavano due giovani signore, felici di esser state designate dalla sorte, per aiutare il digiunatore a uscire dalla gabbia, scendere due scalini e arrivare sino al tavolino ove era imbandito un pranzo da malati, preparato con cura. A questo punto il digiunatore si ribellava sempre. Porgeva di buon grado, sì, le braccia scheletriche alle signore chine su di lui, che gli tendevano le mani pronte per aiutarlo, ma non si voleva alzare. 
Il circo rappresentato da Juan Esplandiu

Perché smettere il digiuno proprio ora, dopo quaranta giorni? Avrebbe resistito ancora a lungo per un tempo illimitato; perché farlo smettere proprio ora ch’era nel punto culminante del digiuno, anzi non c’era ancora arrivato? Perché defraudarlo della gloria di continuare ancora a digiunare, di diventare non solo il più grande digiunatore di tutti i tempi questo, forse, lo era già ma di superare perfino se stesso sino a un punto incredibile, perché sentiva che le sue possibilità di digiunare erano addirittura illimitate? Perché quella folla che dimostrava di ammirarlo tanto, aveva tanta poca pazienza con lui? Se resisteva lui a digiunare ancora, perché non voleva resister lei? E levava lo sguardo verso gli occhi di quelle signore, apparentemente così gentili, in realtà così crudeli, scuotendo la testa troppo pesante per il suo debole collo. E poi era stanco, se ne stava bene lì nella paglia e doveva invece rizzarsi in tutta la sua lunghezza, per andare verso quel cibo, il cui solo pensiero gli procurava una nausea, che solo per riguardo alle signore cercava faticosamente di soffocare. Ma poi avveniva quel che capitava sempre. Interveniva l’impresario e senza dir una parola – la musica non permetteva di scambiarne neppure due levava le braccia sul digiunatore, come se invitasse il cielo a guardare una buona volta sulla paglia la sua opera, quel povero martire e questo il digiunatore lo era, ma in tutt’altro senso, - afferrava il poveretto per la esile vita, facendo credere, con un eccesso di precauzione, di aver a che fare con un oggetto molto fragile, per consegnarlo poi non senza averlo di nascosto scosso un poco, facendogli così oscillare in qua e in là senza controllo le gambe e il busto alle signore, che erano intanto mortalmente impallidite. 


Da quel momento il digiunatore tollerava tutto; la testa pendeva sul petto, come se fosse rotolata lì per caso, fermandosi per una qualche ragione inspiegabile; il corpo era tutto incavato; le gambe con le ginocchia serrate per istinto di conservazione, raspavano il suolo come se non fosse quello vero, ma lo stessero, a quel modo, soltanto cercando; e tutto il peso, per quanto modesto del suo corpo, gravava sopra una delle signore, che, cercando aiuto intorno e tutta ansimante – non s’era certo immaginata così quell’incarico onorifico – prima allungava il collo quanto era possibile, per preservare il viso dal contatto col digiunatore, ma poi, vedendo che non ci riusciva e che la sua più fortunata collega, non le veniva in soccorso, ma si contentava di reggere tremando davanti a sé la mano del digiunatore un mucchietto d’ossa – scoppiava in lacrime tra le risate di soddisfazione della sala, per venir subito sostituita da un inserviente pronto già da tempo. Poi veniva il pasto, di cui l’impresario faceva ingerire qualche boccone al digiunatore caduto in un dormiveglia simile a un deliquio, mentre parlava allegramente, per distrarre l’attenzione del pubblico dallo stato pietoso in cui il poveretto si trovava; poi veniva ancora un brindisi al pubblico e l’impresario dava a intendere che glielo aveva sussurrato il digiunatore stesso; la banda sottolineava tutto con una rumorosa fanfara finale, la folla si disperdeva e nessuno aveva più diritto di essere scontento dello spettacolo, tranne il digiunatore, lui soltanto sempre. 


Così aveva vissuto per molti anni con brevi e regolari intervalli di riposo, in mezzo a un apparente benessere, rispettato dal mondo, eppur quasi sempre immerso in una cupa malinconia, che diveniva sempre più cupa perché nessuno riusciva a prenderla sul serio. 
E come, d’altronde, consolarlo? Che poteva ancora desiderare? E se per caso capitava una volta una persona di buon cuore, che lo compativa e gli voleva spiegare come quella malinconia probabilmente venisse dal digiuno, poteva anche accadere, specie quando il digiuno era già molto lungo, che il digiunatore rispondesse con un impeto di furore e, tra lo spavento di tutti, si mettesse a scuotere le sbarre della gabbia come una bestia. 
Ma in casi simili l’impresario ricorreva a una punizione, che usava di preferenza. Scusava il digiunatore dinanzi al pubblico radunato, ammetteva che si poteva perdonare il contegno del digiunatore solo pensando a un’irascibilità, provocata dalla fame, e solo difficilmente immaginabile da chi era sazio; veniva poi, come di conseguenza, a parlare, per spiegarla nello stesso senso, dell’asserzione del digiunatore di poter prolungare il digiuno molto più di quel che già non facesse; lodava il nobile intento, la buona volontà, la grande abnegazione, contenuti certo anche in questa asserzione; ma tentava poi subito di svalutarla mostrando semplicemente delle fotografie, subito messe in vendita, in cui si vedeva il digiunatore giunto al quarantesimo giorno, in un letto, quasi esausto dalla debolezza. 

L'impresario

Questa maniera di storcere la verità, per quanto ben nota al digiunatore, riusciva pur sempre a snervarlo ogni volta ed era veramente troppo per lui. Quello che era la conseguenza di un’anticipata fine del digiuno, veniva presentata qui come la causa! Era impossibile lottare contro una simile incomprensione, contro questa universale incomprensione. Ogni volta era rimasto ad ascoltare ansiosamente e fiducioso, attaccato alle sbarre, l’impresario, ma quando comparivano le fotografie, abbandonava ogni volta la gabbia per ricadere con un sospiro sulla paglia, mente il pubblico tranquillizzato poteva riavvicinarsi e guardarlo. 

I testimoni di queste scene, quando ci ripensavano qualche anno dopo, non riuscivano quasi più a comprender sè stessi, perché nel frattempo era intervenuto quel mutamento cui s’è già accennato; ed era sopraggiunto quasi d’improvviso; ci sarà stata certo qualche ragione profonda; ma chi si prendeva la briga di andar a cercarla? Comunque un bel giorno il digiunatore, così viziato dal pubblico, si vide abbandonato dalla folla desiderosa di divertirsi, che affluiva ormai ad altri spettacoli. 
Un’ultima volta l’impresario se lo trascinò dietro in fretta per mezza Europa, per vedere se qua e là non rispuntasse l’antico entusiasmo; ma tutto fu vano; come per una segreta intesa si era destata una vera avversione per il digiuno come spettacolo. 
Naturalmente questo fenomeno non s’era potuto verificare in realtà da un momento all’altro e ora tornavano in mente, in ritardo, alcuni segni precursori di cui, a suo tempo, nell’ebbrezza del successo, non s’era tenuto abbastanza conto, né sufficientemente ostacolata l’apparizione; ma era troppo tardi ormai per combatterli in qualche modo. Era bensì certo che sarebbe tornato un giorno l’ora fortunata del digiuno, ma non era sufficiente conforto per quelli che vivevano allora. 
Cosa doveva fare il digiunatore? Uno, che s’era visto acclamare da migliaia di persone, non poteva esibirsi nei baracconi delle piccole fiere di campagna; per mettersi a fare un altro mestiere il digiunatore non solo era troppo vecchio, ma soprattutto troppo fanaticamente attaccato alla sua arte. Così egli congedò l’impresario, compagno di una carriera senza pari, e subito si fece scritturare da un gran circo; per riguardo alla sua suscettibilità non volle neppure vedere le clausole del contratto. 


Un gran circo con quella marea di persone, di animali e di arnesi, che si equilibrano e si completano l’un con l’altro, può sempre utilizzare chicchessia, in qualunque momento, anche un digiunatore, naturalmente purché abbia pretese relativamente modeste; inoltre, in questo caso particolare, non era soltanto lui a essere scritturato, ma anche il suo nome da tempo ormai celebre; anzi per la singolarità di quest’arte, che con l’aumentare degli anni non soffriva diminuzioni, non si poteva neanche dire che in questo caso un artista ormai invecchiato, non più nel pieno splendore dei suoi mezzi, si fosse rifugiato nel tranquillo impiego di un circo, ché anzi il digiunatore assicurava, e gli si poteva credere, che avrebbe continuato a digiunare come prima; affermava persino che, se lo lasciavano fare – e gli fu promesso senz’altro – avrebbe proprio ora stupito il mondo e con ragione; un’asserzione, questa, che, considerando l’umore del tempo – e il digiunatore nel suo entusiasmo se ne dimenticava facilmente suscitava nella gente del mestiere solo un sorriso. 


In fondo anche il digiunatore s’era reso conto del reale stato delle cose e considerò quindi naturale che non lo si mettesse con la sua gabbia nel mezzo della pista, come un numero sensazionale, ma fuori, in un posto del resto comodamente accessibile, in vicinanza delle stalle. Grandi cartelli variopinti incorniciavano la gabbia, spiegando al pubblico cosa c’era da vedere in quel luogo. Quando, durante le pause dello spettacolo, la gente s’affollava verso le stalle per vedere le bestie, era quasi inevitabile che passasse davanti al digiunatore e si soffermasse un attimo davanti a lui; forse c’era chi si sarebbe trattenuto ancora più a lungo se non ci fossero stati, nello stretto corridoio, quelli che venivano dietro e non comprendevano la ragione di quell’indugio sulla via che portava alle ambite stalle, rendendo così impossibile una visita più prolungata e pacata. Questa era anche la ragione per cui il digiunatore tremava al pensiero di queste ore di visita, di cui pure era ansioso come dello scopo della sua vita. Nei primi tempi non vedeva l’ora che queste pause dello spettacolo arrivassero; la vista di quella massa ondeggiante di gente, che s’avvicinava, l’aveva incantato, sinché non s’era presto convinto – anche la più tenace, quasi consapevole illusione non aveva resistito all’esperienza – che intenzionalmente erano tutti, senza eccezione, dei visitatori delle stalle. Lo spettacolo della gente che s’avvicinava da lontano, rimase la sensazione migliore, perché appena era giunta vicino a lui, egli veniva come sopraffatto dal gridìo e dalle dispute di due gruppi che si formavano di continuo: uno di coloro, che volevano guardarselo comodamente e presto divenne per il digiunatore il gruppo più sgradito ma non per una vera comprensione, bensì per capriccio e puntiglio; e un altro di coloro, che prima di tutto volevan giungere alle stalle. 

Passato il grosso del pubblico, venivano poi i ritardatari e proprio questi, cui nessuno impediva di fermarsi quanto volevano, gli passavano dinanzi, allungando il passo, senza quasi degnarlo di un’occhiata, per arrivare in tempo a veder gli animali. E non era davvero molto frequente il caso fortunato di un padre di famiglia che, arrivando lì coi figlioli, accennava col dito al digiunatore, spiegando loro minuziosamente di che si trattasse, ricordando i tempi andati, in cui aveva assistito a esibizioni simili ma molto più grandiose; i bambini, scarsamente preparati su questo argomento dalla scuola e dalla vita che poteva significare per loro patir la fame? continuavano a starsene lì, senza capire, ma nello splendore dei loro occhi incuriositi pareva di intravedere il riflesso di tempi nuovi, lontani ancora e più caritatevoli. Forse, si diceva a volte il digiunatore, tutto sarebbe andato meglio se non lo avessero collocato tanto vicino alle stalle. Così la gente aveva una scelta troppo facile, per tacere poi che le esalazioni delle stalle, l’irrequietezza delle bestie nella notte, il passaggio dei pezzi di carne cruda per le belve, i ruggiti che ne accompagnavano i pasti lo disturbavano molto e lo deprimevano continuamente. Non osava però rivolgersi alla direzione del circo per protestare; in fondo doveva alla presenza delle bestie quella folla di spettatori, tra cui poteva pur capitarne di quando in quando uno destinato a lui e chissà dove l’avrebbero cacciato, se richiamava l’attenzione della direzione sopra di sé e quindi anche sul fatto che, in conclusione, egli costituiva solo un ostacolo sulla via che conduceva alle stalle. 

E' ancora qui! - Stai ancora digiunando? Non smetti mai? - Perdonatemi...Ho sempre voluto che le persone ammirassero il mio digiunare...  

Un piccolo ostacolo, però, che si faceva sempre più piccolo: ci si abituò alla stranezza, in tempi come i nostri, di reclamare l’attenzione del pubblico sopra un digiunatore, e con questa abitudine il suo destino fu segnato. Poteva digiunare quanto voleva ... ed egli lo faceva; ma nulla lo poteva più salvare, nessuno più si curava di lui. Si provi qualcuno a spiegare l’arte del digiuno! A chi non la conosce, non si può darne un’idea. I bei cartelloni con le iscrizioni divennero sudici e illeggibili; e vennero strappati via e a nessuno venne in mente di sostituirli; la piccola tabella poi, col numero dei giorni di digiuno compiuti, che nei primi tempi veniva rinnovata ogni giorno, rimase per lungo tempo sempre la stessa, poiché dopo le prime settimane al personale del circo anche quella piccola fatica era parsa troppo; e così il digiunatore continuava a digiunare, come aveva sognato un tempo, e gli riusciva senza sforzo come aveva predetto, ma nessuno contava più i giorni, nessuno, nemmeno il digiunatore, sapeva quanto alta era ormai la sua prova e il suo cuore si sentì oppresso. E se una volta, in quel tempo, qualche sfaccendato si fermava dinanzi alla gabbia, considerava con ironia la cifra altissima e parlava di imbroglio, era, in questo senso, la più stupida menzogna che l’indifferenza e un’innata malignità avevan potuto inventare; poiché non era il digiunatore ad ingannare egli lavorava onestamente ma il mondo lo frodava del premio che si meritava. 

E passarono ancora molti giorni ed anche questo finì. Un giorno la gabbia dette nell’occhio a un custode, che chiese agli inservienti perché si tenesse lì quella gabbia ancora buona ad usarsi, senza utilizzarla, con tutta quella paglia fradicia; nessuno lo sapeva, sinché uno, col soccorso dei cartelli, non si ricordò del digiunatore. La paglia venne smossa con delle stanghe e vi si trovò il digiunatore. «Digiuni dunque ancora?» chiese il custode, «quando ti deciderai a smettere?». «Perdonatemi voi tutti» sussurrò il digiunatore; ma soltanto il custode che teneva l’orecchio accosto alle sbarre, lo intese. «Ma certo» disse il custode, toccandosi la fronte con un dito per accennare al personale lo stato in cui si trovava il poveretto, «ti perdoniamo.» «Ho voluto sempre che ammiraste il mio digiuno» continuò il digiunatore. «E noi, infatti, ne siamo ammirati» disse condiscendente il custode. «E invece non dovete ammirarlo» replicò il digiunatore. «E allora non lo ammireremo» rispose il custode, «ma poi perché non dobbiamo farlo?». «Perché sono costretto a digiunare» continuò il digiunatore. «Ma senti un po’» disse il custode «perché non ne puoi fare a meno?». «Perché io» disse il digiunatore, sollevando un poco la sua piccola testa e parlando con le labbra appuntite come per un bacio proprio all’orecchio del custode, «perché non riuscivo a trovar il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato non avrei fatto tante storie e mi sarei messo a mangiare a quattro palmenti come te e gli altri». Furono le sue ultime parole, ma nei suoi occhi spenti si leggeva ancora la ferma, anche se non più superba convinzione di continuare a digiunare. 
Lo ammiriamo! - Non dovreste. Perchè non ho scelta...Devo digiunare
«E ora fate ordine!» disse il custode; e il digiunatore fu sotterrato insieme alla paglia. Nella gabbia fu messa poi una giovane pantera. E vedere nella gabbia sì a lungo deserta dimenarsi quella fiera fu un sollievo per tutti, anche per gli spettatori più ottusi.
Non le mancava nulla. Il cibo che le piaceva, glielo portavano senza tante storie i guardiani; non sembrava neppure che la belva rimpiangesse la libertà; quel nobile corpo, perfetto e teso in ogni parte sin quasi a scoppiarne, pareva portare con sé anche la libertà; sembrava celarsi in qualche punto della dentatura; e la gioia di vivere emanava con tanta forza dalle fauci, che agli spettatori non era facile resistervi. Ma si dominavano, circondavano la gabbia e non volevano saperne di andar via. 

Racconti, a cura di Ervino Pocar, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1970

venerdì 13 dicembre 2013

Sul sentimento di vergogna


E tuttavia io lo sono,
non lo respingo mai come un’immagine estranea,
 ma mi è presente come un me che io sono senza conoscerlo[1],
perché lo scopro solo nella vergogna
(in certi casi, nell’orgo­glio).
Sono la vergogna o la fierezza
che mi rivelano lo sguardo altrui
e me stesso al limi­te dello sguardo;
che mi fanno vivere, non conoscere,
la situazione di guardato.
Sartre (1943)

Freud
Io mi rimprovero qualche cosa
– ho paura che altre persone lo sappiano
mi vergogno quindi di fronte agli altri.
Freud (1895, p. 53).

In psicoanalisi, il tema della vergogna è stato spesso trascurato in favore della maggiore attenzione rivolta alla colpa. La vergogna riferendosi sia alla morale, che al Sé, era più difficile da identificare a livello psicodinamico (Frølund, 1997).  La concezione originaria sulla vergogna, a partire da Freud offre alcuni spunti di approfondimento e riguarda perlopiù un affetto con potenzialità di difesa[2]; così come la moralità. Nella Minuta K Freud (1895) elenca tre tipi di nevrosi[3] da difesa: isteria, nevrosi ossessiva e paranoia. In tutti questi tipi di nevrosi: “la vergogna e la moralità sono le forze rimoventi (…) l’insorgere della vergogna [è connessa] con l’esperienza sessuale mediante legami (…) profondi” pp. 50-51). I diversi tipi di nevrosi, si definiscono secondo Freud, proprio in base alla modalità di esecuzione della rimozione: “la nevrosi è il negativo della perversione” ovvero della manifestazione sessuale grezza, priva di rimozione (Laplanche, Pontalis, 1967).
Freud (1895) dedica una particolare attenzione al tema della vergogna nella descrizione eziologica della nevrosi ossessiva. In questo caso, l’esperienza primaria infantile (definita anche trauma[4]) è talmente precoce da non poter essere che accompagnata da piacere, tuttavia quando questa esperienza viene richiamata alla memoria sorge l’autoaccusa (in tedesco Vorwuf, rimprovero) che genera vergogna “ovvero paura che la gente sappia” (p. 53) e rimozione. Al posto del ricordo e dell’autoaccusa, si formerà – mediante spostamento lungo catene associative – un sintomo di contrasto: ovvero “una certa sfumata scrupolosità” (Freud, 1895, p. 52). Nel 1896, ne “Le nuove osservazioni sulle neuropsicosi da difesa”, Freud si riferisce alla vergogna non solo come forza che rimuove, ma anche come risultato della difesa riuscita: “Scrupolosità, vergogna, sfiducia in sé stessi sono i sintomi con i quali comincia il terzo periodo, quello dell’apparente sanità o, più propriamente, quello della difesa riuscita” (p. 313).
Ne “L’interpretazione dei sogni, Freud (1899) parla della vergogna descrivendo tra i sogni tipici, il “sogno di imbarazzo per la propria nudità”. Esso riguarda un desiderio esibizionistico proibito, che nel sogno trova soddisfacimento, ma che proprio per essere giunto a trovare una rappresentazione crea anche la sensazione penosa della vergogna. “Il contesto nel quale tali sogni si presentano in soggetti nevrotici, nel corso delle mie analisi, non lascia (…) alcun dubbio sull’esistenza alla base del sogno, di un ricordo della primissima infanzia. Soltanto nella nostra infanzia è esistito un periodo in cui eravamo visti seminudi (…) e non ci vergognavamo della nostra nudità (…). Questa infanzia che non conosce vergogna appare più tardi al nostro sguardo retrospettivo come un paradiso, e il paradiso stesso non è altro che la fantasia collettiva dell’infanzia del singolo. Ecco perché anche in paradiso gli uomini sono nudi e non si vergognano l’uno di fronte all’altro, finché giunge un momento in cui la vergogna e l’angoscia si destano, avviene la cacciata, cominciano la vita sessuale e il lavoro della civiltà” (pp. 227-228). L’esibizionismo ha a che fare con una rappresentazione di sé del soggetto che si pensa osservato dall’altro. L’Io diviene pensabile in quanto guardato dall’altro, ovvero esposto agli sguardi dell’altro. Anche questa concezione classica sembra un’impronta che si può adattare sia al modello relazionale, che alla teoria di Kohut della psicologia del Sé.
In “Lutto e melanconia” (1917), Freud afferma che il melanconico, manca di vergogna: “Il senso di vergogna di fronte agli altri (…) manca nel melanconico, o quanto meno non è appariscente. Si potrebbe mettere in rilievo nel melanconico la caratteristica opposta di un assillante bisogno di comunicare che trova soddisfacimento nel mettere a nudo il proprio Io. Non è dunque essenziale stabilire se il melanconico nel suo autodenigrarsi, abbia ragione, nel senso che la sua critica converge con il giudizio degli altri (…) Ha perduto il rispetto di sé e certamente per un buon motivo (…) L’analogia con il lutto ci induce a concludere che il melanconico ha subito una perdita che riguarda l’oggetto, da ciò che egli dichiara risulta invece una perdita che riguarda il suo Io” (p. 106).
Freud (1933) considera l’origine della vergogna non nella paura bensì nel senso di inadeguatezza: “Shame, which is considered to be a feminine characteristic par excellence but is far more a matter of convention than might be supposed, has as its purpose, we believe, concealment of genital deficiency. We are not forgetting that at a later time shame takes on other functions” (p. 132). Dunque la vergogna per Freud ha una duplice valenza: sia di meccanismo di difesa, che affetto e sintomo, e riguarda un fenomeno che coinvolge “gli altri che osservano”.
Ferenczi
Il ritiro dell’amore e il fatto di essere completamente soli
con la propria esigenza d’amore
di fronte a una maggioranza compatta e schiacciante
provocano nei bambini cosiddetti normali
la vergogna e la rimozione (nevrosi)
Ferenczi (1921, p. 257)

Uno sguardo al passato, rispetto al tema della vergogna, risulta proficuo rivolgendosi alla concezione di Ferenczi di mutua analisi. Essa può essere – almeno in parte secondo Kilborne (1998) – considerata una reazione rispetto alla vergogna dell’autore nei confronti del rifiuto da parte di Freud di accoglierlo come analizzando. Ferenczi cercava un analista che non indulgesse nella “confusione delle lingue”[5]. Ferenczi scrisse infatti che la sua stessa analisi non proseguì abbastanza a fondo a causa di motivazioni narcisistiche del suo analista, ovvero per “la sua ferma determinazione ad essere sano, e per la sua antipatia verso ogni debolezza e anormalità (…) introdusse la fase “educativa” troppo presto”. Ferenczi scrisse questa critica a Freud in data 1 Maggio 1932 del suo diario, commentando che dalla sua scoperta Freud non amava più i suoi pazienti, bensì era tornato all’amore del suo ben organizzato e coltivato Super Io (un’ulteriore prova della sua antipatia per psicotici, pervertiti e ogni cosa in generale “troppo anormale”). Il modello terapeutico di Freud, secondo Ferenczi stava diventando più interessato all’ordine, carattere e rimpiazzo di un cattivo superio con uno migliore, e stava diventando pedagogico. Poiché Freud non era disposto ad ammettere errori, Ferenczi, sensibile alla vergogna e alla ferita narcisistica, scrisse a proposito del bisogno dell’analista di ammettere debolezze ed esperienze traumatiche. Queste ammissioni, secondo Ferenczi, hanno l’effetto di ridurre e abolire la distanza e il senso di inferiorità del paziente. Significativamente il 21 Luglio 1932, dopo aver declinato l’offerta di presidenza dell’International Psychoanalytical Association (21 Agosto 1932), marcando irrevocabilmente la sua rottura con Freud, Ferenczi scrisse un lavoro “On feeling of shame” nel suo Diario clinico: “Così si comportano gli adulti, quando proiettano sui bambini la loro passionalità, ed è quanto anche noi, analisti, abbiamo fatto presentando le nostre distorsioni sessuali imposte ai bamini come teorie sessuali infantili”. Tre giorni dopo, il 27 Agosto 1932, Freud scrisse a Eitingon che “il rifiuto di Ferenczi è un’azione nevrotica di ostilità verso il padre e i fratelli, per mantenere il piacere regressivo di svolgere il ruolo di madre verso i propri pazienti”. L’approccio di Ferenczi, rigettato infine da parte di Freud, conteneva in germe molte delle più recenti considerazioni in ambito psicoanalitico. La concezione di self disclosure o di parità tra paziente e analista della psicoanalisi relazionale, così come la concezione dei meccanismi di scissione e dissociazione derivanti da un evento traumatico, nonché l’origine della psicopatologia da ricercare nella relazione madre bambino, piuttosto che nella sessualità infantile, fanno tutte capo al lavoro innovativo e lungimirante di Ferenczi. Egli si interrogava sull’autenticità dell’esperienza affettiva in analisi sia per il paziente che per l’analista, credendo che solo l’amore autentico potesse avere un valore riparativo e terapeutico[6] (Ciocca, 2003).
Winnicott
Non sarebbe tremendo
se il bambino guardasse nello specchio
e non vedesse niente?
Paziente citato da Winnicott, (1967, p.136)

Dagli albori della psicoanalisi fino agli anni 50, il tema della vergogna passa in secondo piano. E’ Winnicott, nella sua descrizione dello sviluppo del bambino in relazione alla madre a riportare l’attenzione sull’importanza dell’essere riconosciuti come soggetti nella propria unicità, da un altro significativo e soprattutto “reale[7]“. Winnicott (1967) parla del ruolo di specchio svolto dalla madre, come colei che permette al bambino di vedere se stesso (Mollon, 2002). La madre sufficientemente buona[8] (Winnicott, 1952, p. 88) è in grado di adattarsi ai bisogni del bambino creando un’illusione di onnipotenza che getterà le basi per lo sviluppo sano. L’esperienza del Sé del bambino si basa infatti sul principio “sono veduto, quindi esisto”. L’emergere del Sé sano – Vero Sé – rappresenta la realizzazione di un potenziale che viene alla luce grazie ai gesti creativi del bambino e può essere compromesso da fattori ambientali. Nel Falso Sé infatti la madre non riesce a comprendere il bambino attraverso i suoi gesti ed egli sarà obbligato ad un’accondiscendenza estranea al suo vero Sé finendo per imitare l’ambiente e rassegnandosi ad abbandonare i gesti creativi ponendo così le basi per un senso di sé basato su sentimenti di vulnerabilità, vergogna, estraniamento, irrealtà.

Kohut

The struggle of the patient who suffers from a narcissistic personality disorder to reassemble himself, the despair—the guiltless despair, I stress, of those who in late middle age discover that the basic patterns of their self as laid down in their nuclear ambitions and ideals have not been realized... This is the time of utter hopelessness for some, of utter lethargy, of that depression without guilt and self-directed aggression, which overtakes those who feel that they have failed and cannot remedy the failure in the time and with the energies still at their disposal.
The suicides of this period are not the expression of a punitive superego, but a remedial act—the wish to wipe out the unbearable sense of mortification and nameless shame imposed by the ultimate recognition of a failure of all-encompassing magnitude
Kohut (1977) citato da Morrison (1983)

L’approccio di Kohut al narcisismo ha consentito di rivalutare il ruolo della vergogna nella teoria psicoanalitica, tanto da meritare successivamente la definizione di Broucek (1982) “shame is to self-psychology what anxiety is to ego psychology – the keystone affect” (p. 369). Il lavoro di Kohut segna un primo passo nel cambiamento definitivo del paradigma psicoanalitico verso le relazioni oggettuali, anche se il suo inserimento all’interno delle teorie definite come tali, è controversa (Greenberg, Mitchell, 1983). L’attenzione alla condizione “psicotica” – narcisistica e borderline – precedentemente ritenuta difficilmente trattabile, viene reinterpretata da Kohut (1959) come struttura di personalità fortemente connotata da un deficit nel senso del Sé. Questo tipo di condizione, è caratterizzata da forti bisogni di dipendenza; una dipendenza che non è manifestazione di una fissazione orale come erroneamente concepito da Freud (1905), bensì di un bisogno concreto di appoggio che si manifesta chiaramente nel transfert. Kohut (1959) riconosce pertanto che le dinamiche di transfert non riguardano soltanto una ripetizione del passato, ma anche la necessità del paziente di un oggetto-sé in grado di sostenere i suoi bisogni relativi soprattutto alla possibilità di essere visto da un Altro, ad es. il terapeuta, per poter raggiungere un senso di stabilità (Kohut, 1971).  
Nel modello dello sviluppo kohutiano, i genitori fungono da oggetto-sé. Il compito principale dell’oggetto-sé è quello di svolgere una funzione speculare, ovvero fornire risposte empatiche che permettono il dispiegarsi dell’esibizionismo e della grandiosità del bambino. Il bambino in questo modo è in grado di elaborare il proprio Sé grandioso (2-4 anni) ovvero la sua iniziale onnipotenza (Kohut, 1966). Mediante l’idealizzazione dell’immagine parentale (imago parentale idealizzata) il bambino ricava (interiorizzazione trasmutante) un senso di uguaglianza al genitore forte e potente, cosiché è consentita la formazione dell’ideale dell’Io. La frustrazione adeguata alla fase di sviluppo permette di elaborare, in modo graduale, l’iniziale onnipotenza del bambino e di interiorizzare la funzione speculare dell’oggetto-sé (ovvero la sua modalità relazionale) ed il senso di essere uguale ad un ideale, consentendo la formazione del Sé nucleare. Tra i 4 e i 6 anni il bambino potrà procedere all’elaborazione del Sé bipolare – costituito dall’ideale dell’Io ricavato dagli oggetti-sé idealizzabili e dalle ambizioni realistiche, ciò che realmente si è in grado di fare – ovverosia il senso di avere delle risorse e delle intenzioni. Agendo in questo modo, il genitore rende possibile al bambino vivere l’esperienza dell’individualità (Kohut, 1971).
Quando invece i genitori falliscono nel loro ruolo di oggetto-sé si genera l’angoscia di disintegrazione (Kohut, 1977); ovvero una minaccia al proprio senso di identità. Il Sé grandioso viene scisso – dando origine al senso di vanagloria, orgoglio, arroganza – oppure rimosso – dando luogo a sentimenti di impoverimento (Self depletion), bassa autostima, vergogna, depressione (Kohut, 1971). Ne deriva un disturbo narcisistico in quanto il Sé grandioso non può essere neutralizzato poichè non ha ricevuto sufficiente rispecchiamento (Kohut, 1972, 1977).
L’incontro tra il bisogno del paziente e la funzione rappresentata dal rapporto affettivo del terapeuta oggetto-Sé, diventa quindi un’unità primaria nello sviluppo psichico. Kohut (1971) teorizzerà a tale proposito tre tipi di transfert di oggetto-sé: speculare, idealizzante e gemellare.
Kohut (1971) nota come le specifiche esperienze patologiche del narcisismo cadono nello spettro che va dall’ansia grandiosa e dall’eccitamento da una parte, al mite imbarazzo e consapevolezza di sé o estrema vergogna, ipocondria e depressione dall’altra (p. 200). Similarmente, come definizione della depressione, Kohut (1977) parla di una depressione “senza colpa”, definita dal fallimento a raggiungere ambizioni e ideali, che può essere considerata una sostituta della vergogna. Di fatto colpa e vergogna sembrano correlare tra loro, ed è possibile distinguere manifestazioni depressive caratterizzate da colpa, o manifestazioni depressive caratterizzate da vergogna. A seconda se predomina la perdita o l’aggressività, o il fallimento nel vivere un ideale. Inoltre, è messo in evidenza come la vergogna e il conflitto predominano spesso nei suicidi portati a termine. Kohut (1977) parla di una tremenda hopelessness, o letargia, di quelle depressioni senza colpa e autodirette, che sovrastano quelli che sentono di aver fallito e non possono rimediare, con energie ancora a loro disposizione. Il suicidio in questo caso non è un’espressione di un superio punitivo, ma un atto di rimedio, per scacciare il senso soverchiante di mortificazione e vergogna senza nome imposta dal riconoscimento del fallimento di grandezza onnicomprensiva.
Pertanto Kohut (1971, p. 181) non riconosce la vergogna come dovuta al confronto con un ideale dell’Io, bensì all’esibizionismo “costituzionale” del Sé non neutralizzato (Morrison, 1984).
I disturbi del Sé possono essere differenziati, secondo Morrison (1984) in primari e secondari, i disturbi secondari riguardano la reazione “acuta e cronica” di un sé consolidato alle esperienze dell’infanzia, dell’adolescenza e della maturità che implicano un sé sufficientemente coeso, mentre nei disturbi primari la
la vergogna non ha lo spazio necessario ad emergere, in quanto il sé non è in grado di registrare tale sentimento poiché sovrastato dal carico del panico e della diffusione dei confini (p. 83). Secondo Morrison (1984), l’antidoto alla vergogna riguarda l’accettazione. Nel trattamento psicoanalitico dei pazienti depressi, è necessario non trascurare la rabbia narcisistica che deriva esattamente dalla mancanza di consapevolezza riguardo il senso di vuoto e fallimento dovuto agli obiettivi non conseguiti del Sé grandioso, che rendono il Sé non accettabile.

La concezione di Kohut (1972) di rabbia narcisistica, riguarda infatti in maniera complementare la vergogna: l’Uomo Tragico è colui che non è in grado di riconoscere sé stesso, in quanto soffre di un vuoto che risulta dal mancato rispecchiamento ricevuto dall’ambiente. Ciò causa una vulnerabilità primaria alla rabbia, in quanto la persona stessa è drammaticamente incapace di riconoscere chi è; parafrasando la citazione di Winnicott (1967), “non trova sé stesso”. 


Schema dell’approccio terapeutico secondo Kohut (1971).


La vergogna sperimentata come evento relazionale può attivare difese molto rigide, come il diniego, la dissociazione e la costruzione di strategie protettive come “i rifugi della mente” (Steiner 1993), utili a preservare il sé da sentimenti di impotenza, abbandono e vergogna. Queste difese, se non riconosciute, possono impedire sia la comunicazione, sia la simbolizzazione dell’esperienza traumatica stessa nella forma di un linguaggio comunicabile. La dissociazione può presentarsi sottoforma di “scissione verticale”[9] così come indicato da Kohut (1971), in cui è possibile osservare due rappresentazioni del sé distinte; una di tipo maniacale, l’altra di tipo depressivo con relativi sentimenti di autosvalutazione e vergogna, che possono portare nei casi estremi al suicidio. 
Broucek
It is important to distinguish between
shame stress,
the narcissistic affect shame,
and the process which regulates this affect,
 shame regulation.
Broucek (1982)
Broucek (1982) ha studiato la vergogna e le sue connessioni con lo sviluppo narcisistico. Secondo l’autore “significant shame experiences may occur in the first one and a half years of life” (p. 372); e riguardano in essenza lo sviluppo del senso di sé. Broucek considera indici di una risposta di vergogna la postura, come ad es. il capo chino o l’allontanamento dello sguardo dei bambini il cui intento non è riuscito mentre un loro interesse era stato attivato. Broucek (1991) respinge l’ipotesi di una barriera innata per gli affetti di eccitazione o di gioia, citando casi in cui l’eccitazione o la gioia vengono interrotti, mentre sorge la vergogna. La proposta di Broucek è che queste prime fonti di vergogna o senso di colpa sono il risultato delle esperienze del bambino d’inefficacia interpersonale. In questo modo Broucek lega lo sviluppo positivo del senso di sé all’efficacia, in particolare nelle relazioni interpersonali, mentre la vergogna emerge quando si verificano degli errori. Secondo Broucek (1982) la vergogna emerge quando il contatto con la madre si interrompe:  
[I]n the infant’s contacts with mother at those moments when mother becomes a stranger to her infant. This happens when the infant is disappointed in his excited expectation that certain communicative and interactional behavior will be forthcoming in response to his communicative readiness ... shame arises from a disturbance of recognition, producing familiar responses to an unfamiliar person, as long as we understand the “different” mother to be the unfamiliar person. That a mother (even a “good enough” mother) can be a stranger to her own infant at times is not really surprising since the mother’s moods, preoccupations, conflicts and defences will disturb her physiognomy and at times alter her established communication patterns [p. 370].
L’autore afferma che la vergogna è l’esperienza affettiva di base di dispiacere e dolore psichico associata con i disturbi del narcisismo. La “Nameless shame” di Kohut (1977), ha origine nel periodo sensomotorio e nonverbale, quando sia la componente dell’ideale dell’Io che il Superio sono operativi. La colpa emerge solo nel periodo verbale, che riguarda lo sviluppo della coscienza e l’interiorizzazione dei valori morali. La vergogna inoltre secondo l’autore è intimamente connessa alla sessualità; egli ipotizza che la vergogna è una fonte primaria d’inibizione, che limita la forza della vita erotica. Al contrario di Freud, tuttavia, Broucek afferma che non è la civiltà che si è sviluppata intorno alla possibilità di inibire il desiderio sessuale, ma sono i vincoli innati della sessualità con la vergogna ad aver svolto un ruolo fondamentale nella costruzione della civiltà. A sostegno di questa ipotesi afferma che l’aumento dell’incidenza della depressione, insieme al diffuso senso di disperazione, riguarda la sensazione che la vita ha perso significato, e ciò è riconducibile alle violazioni della funzione di protezione che deriva dalla vergogna nel garantire ad esempio all’individuo psichicamente ancora immaturo, come un adolescente, di essere coinvolto in un livello di intimità fisica maggiore di quanto sia psicologicamente preparato a gestire. Un interessante concetto esposto da Broucek (1991) è quello di oggettivazione: i bambini diventano consapevoli che sono oggetto di controllo sia degli altri che di se stessi. Secondo Broucek questa esperienza frantuma la relazionalità con caregivers che il bambino aveva precedentemente dato per scontata. I bambini diventano così in grado di distinguere tra le esperienze in cui la loro soggettività viene rispettata, e quelle in cui vengono trattati soprattutto come “oggetti”. Essere trattati senza considerazione verso i propri sentimenti e interessi può assumere molte forme, tra cui la vergogna. La vergogna verrà da quel momento in poi attivata quindi ogni volta che i bambini saranno trattati come oggetti, e soprattutto quando sperano o si aspettano di ottenere uno scambio soggettivo. Secondo Broucek (1991) per tutta la vita sperimentiamo momenti in cui “esistiamo con l’altro in un campo di esperienza affettiva condivisa e in sovrapposizione di coscienza” e momenti di 'coscienza disgiuntiva', in cui c’è un godimento reciproco come meri oggetti” (p. 46). “Nello stato di improvvisa, non cercata, o indesiderata auto-oggettivazione l’esperienza immediata di un individuo di realtà dell’essere può essere persa, con conseguente vergogna e trasformazione del mondo interpersonale e fenomenale come disorientante. In quei momenti il mondo può sembrare in pericolo di collasso ... e di conseguenza, in una sorta di vertigine” (p. 40).
Broucek (1991) propone quindi che l’esperienza della vergogna di sentirsi un mero “oggetto” possa essere una fonte di derealizzazione, depersonalizzazione, e la frammentazione del senso di Sé coeso; questa concezione è stata definita da Lichtenberg (1994) un importante contributo alla comprensione degli stati traumatici.
Dal punto di vista della situazione analitica, Broucek (1991) afferma che un certo grado di oggettivazione del paziente avviene sempre quando si legge il suo comportamento alla luce di una teoria, e ciò rischia di mettere il paziente nella condizione di provare vergogna (p. 101). D’altra parte l’uso del lettino in analisi consente di ridurre al minimo la possibilità che il paziente provi vergogna, ma bisogna anche considerare il rischio che ciò si traduca in una manchevolezza nell’analisi di tale aspetto del paziente (p. 86).

Thrane
I am ashamed of what I am.
Shame therefore realizes an intimate relation of myself to myself.
Through shame I have discovered an aspect of my being
Sartre (1943, p. 221).

The guilty person focuses on the act;
 a man ashamed, on himself.
A man who is ashamed
is ashamed of what he is.
Thrane (1979)

Secondo Thrane (1979), non è un caso che gli adolescenti siano particolarmente inclini alla vergogna: essa, è strettamente connessa all’identità. Per l’adolescente, l’obbedienza agli ammonimenti dei genitori assume il significato di essere all’altezza degli ideali degli adulti.
La vergogna consta, secondo l’autore di due aspetti: uno è personale, ovvero relativo agli ideali di sé – come ad esempio la forma del proprio corpo; definito dall’autore “l’oggetto primordiale della vergogna”–, mentre l’altro riguarda l’aspetto sociale. In questo caso la vergogna riguarda gli altri: in particolare “essere di fronte agli altri”. Ad esempio, arrossire o sudare sono risposte sociali alla vergogna, così come il desiderio di non essere visibili agli altri può essere tale da suicidarsi. La vergogna è vissuta come un colpo all’immagine di sé, mentre la colpa riguarda un senso di “aver preso più di quanto sia giustamente proprio”. Mentre nella vergogna si cerca il segreto, nella colpa si cerca la confessione. Il colpevole si concentra sul gesto, un uomo che prova vergogna, su se stesso.
Un antidoto alla vergogna è l’umorismo: coloro che sono in grado di ridere di se stessi si sentono superiori alle loro debolezze e mancanze, e la vergogna viene pertanto dissipata. Ciò che cambia secondo Thrane (1979) è il senso di essere attivi rispetto a tale sensazione: “Il clown che fa ridere gli altri di se stesso non si sente umiliato, poiché è egli stesso ad averli fatti ridere “ (Piers, 1953 p. 42).
Citando Walsh (1970) Thrane afferma che una fonte importante di vergogna o orgoglio riguarda le origini, le istituzioni di cui si fa parte, la cultura e le persone associate allo sviluppo in quanto esse definiscono considerevolmente l’identità dell’individuo.
La vergogna dipende infatti dai processi di identificazione, così come suggerito anche da Erikson nel modello dello sviluppo dell’identità (1950). Tuttavia solo alcune identificazioni possono essere scelte, infatti quelle più importanti come ad esempio quelle infantili o inconsce, non vengono scelte.
La vergogna inoltre è relativa agli ideali. Per vergognarsi è necessario sentire che si è privi di valore, spregevoli invece che ammirevoli, perdere l’autostima e l’amore di sé, allontanarsi da sé stessi con disgusto, e aspettarsi che gli altri facciano altrettanto, temere i loro sguardi di disprezzo, e desiderare di essere invisibile.
In tal senso mentre la vergogna è orientata all’esterno, il senso di colpa è orientato internamente. La vergogna implica un pubblico, anche se solo nella fantasia. Tale esperienza diventa condivisibile solo dopo che si è superata attraverso un riadattamento di ideali, o dell’umore. Ma ciò che si cerca non è il perdono, bensì l’accettazione che diventa una conferma della propria identità.
La vergogna a quel punto diventa una responsabilità dell’individuo in quanto ha in precedenza svolto un ruolo di protezione nei confronti dell’identità; nel momento in cui era in atto una costruzione amorevole di sé.
Secondo Thrane (1979), il paziente arriva in analisi insoddisfatto della sua identità, tale vergogna circa il suo essere produce migliori potenzialità di cambiamento. La vergogna, come afferma anche Kohut manca soltanto in presenza di un sé completamente disintegrato, in quanto relativo ai disturbi primari del Sé.
La stessa intrusione del terapeuta nel regno privato del sé, può indurre nel paziente molta vergogna. Il transfert di idealizzazione e identificazione può essere utilizzato come un modo per scongiurare la vergogna.
Thrane inoltre considera la vergogna dell’analista una protezione della propria integrità psichica riguardo all’osservazione del mondo privato del paziente: tale vergogna riguarda il riconoscimento che il paziente è qualcun altro e non un semplice oggetto di tecnica. In questo modo il senso di  vergogna dell’analista, produce l’ideale di riservatezza come una certezza evidente, invece che come un’esternazione imbarazzante imposta da considerazioni di prudenza. La pratica della psicoterapia è un mestiere solitario in molti modi e pertanto il senso di vergogna è sicuramente una causa parziale di solitudine; tuttavia afferma Thrane, il terapeuta che non prova vergogna per i suoi pazienti potrebbe perdersi nel mondo privato dei suoi “casi”. L’aiuto di altri colleghi diventa una costellazione narcisistica di pezzi di un puzzle, pertanto il senso di vergogna dell’analista è un riconoscimento dell’alterità irrevocabile e della naturale dignità del paziente.

Amati Sas
 
Da uno studio sistematico sulla vergogna, l’autrice Amati Sas (1992) percorre come via d’unione alle differenti teorie sul tema, quello dell’ambiguità. Ciò è dovuto principalmente al fatto che le teorie degli autori incrociate, non corrispondono tra loro, a maggior ragione con gli esempi che vengono riportati. Tuttavia differenti approcci teorici messi insieme consentono una visione unitaria sul tema.
L’esperienza clinica dell’autrice riguarda soprattutto il lavoro con pazienti che riportano eventi traumatici importanti. Elementi di vergogna emergono chiaramente in questo tipo di pazienti che combattono con sentimenti di alienazione e conflitto (Amati Sas, 1989). Bettelheim (1943) ha notato che una persona esposta a condizioni estreme si comporta in un modo che essa stessa non approva. La persona rimane con differenti immagini di sé che corrispondono a contesti diversi e non possono essere introdotti in un unico registro.
In queste situazioni, l’elaborazione della vergogna presuppone la capacità di accettare la sfida di scoprire molteplici varianti della propria immagine a seconda delle circostanze, e il placare il conflitto interno che ne deriva, così come  la continua necessità di ristabilire la propria continuità e coerenza, cioè il senso della propria identità.
L’ambiguità è caratterizzata dalla possibilità di adattamento, malleabilità, permeabilità e non conflittualità all’interno della personalità.
La parte più dipendente della personalità diventa particolarmente evidente nelle circostanze in cui una persona esposta a condizioni estreme sente di aver perso la sua continuità. In queste circostanze traumatiche, gli aspetti ambigui della personalità − i residui dell’indifferenziazione primaria (di solito scissi, proiettati e depositati nel quadro stabile degli oggetti esterni), invadono l’Io più maturo, integrato e differenziato. Questa regressione all’ambiguità corrisponde a quello che Winnicott chiama 'fear of breakdown’, Anna Freud ‘fear of surrender’ e Masud Khan ‘dread of resourceless dependance’. Essa è vissuta dalle vittime di situazioni estreme come un cambiamento, una nuova verità’, in cui, inaspettatamente devono ‘adattarsi e familiarizzare con qualsiasi cosa(Amati Sas, 1985).
La vergogna può essere facilmente definita come una sensibilità propria del campo narcisistico’, relativa ai legami simbiotici che si accompagnano sempre alle relazioni oggettuali.
Per comprendere la vergogna, è importante notare la reciprocità del legame simbiotico, in cui ognuno è il potenziale depositario di ansie e incertezze altrui. Il legame simbiotico, che è mutuo e tacito, comporta la capacità di essere il depositario dell’ambiguità di un altro.
Quando si è nella posizione dell’oggetto ausiliario, ci si assume la responsabilità per la propria ambivalenza verso gli aspetti ambigui dell’altro (ciò è particolarmente evidente nella posizione dello psicoanalista).
Vergogna e ambiguità possono essere pertanto connesse. Quando l’ambiguità predomina nella personalità, non si manifesta la vergogna. Tuttavia, se il senso di vergogna diventa troppo angosciante, il soggetto può difendersi contro di essa diventando indefinito o confuso.
Nel momento in cui emerge la vergogna, l’Io può essere spinto a intraprendere un lavoro di conoscenza e simbolizzazione, perché è costretto a funzionare’, al fine di recuperare l’equilibrio perduto nel suo senso di continuità e coerenza. In questi casi si può ricorrere a un intervento preventivo (gesti o comportamenti), oppure si può intraprendere uno sforzo più complesso di rappresentazione e simbolizzazione, inducendolo mediante un diverso registro. Nei casi di vergogna catastrofica che travolge il senso di continuità del sé, è necessario un periodo di elaborazione e contestualizzazione’ più lungo; un maggiore sforzo per recuperare i propri punti di riferimento interni ed esterni (come si può osservare nel processo terapeutico dei superstiti).

[1] L’essere per altri non è una relazione oggettiva, conoscitiva, tra me e l’altro, ma una relazione d’essere, che si coglie immedia­tamente negli stati o affetti psicologici come la vergogna.
[2] La difesa è definita da Freud (1895): “un’avversione a dirigere l’energia psichica in modo da produrre dispiacere” (p. 49).
[3] Ricordiamo che Freud suddivise le nevrosi in attuali (derivanti da disfunzione somatica sessuale) e psiconevrosi (relative a un conflitto). La nevrosi narcisistica ad esempio, figura tra le psiconevrosi, ovvero tra le patologie più vicine alla psicosi che alla nevrosi. In tal senso questa classificazione verrà poi accolta significativamente da Kohut (1959) per mettere in evidenza il diverso ambito d’azione per la psicoanalisi quando essa riguarda un paziente nevrotico o psicotico.
[4] Negli “Studi sull’isteria” (1892-95) Freud fornisce una definizione di trauma psichico come “qualsiasi esperienza provochi gli affetti penosi del terrore, dell’angoscia, della vergogna, del dolore psichico” (p. 177).
[5]La confusione delle lingue tra l’adulto e il bambino. Il linguaggio della tenerezza e della passione”, lavoro presentato al Congresso di Wiesbaden dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale.
[6]Elasticità della tecnica psicoanalitica” (1928).
[7] Gli indipendenti inglesi hanno definito il bambino come un essere programmato per ottenere un’interazione armoniosa e uno sviluppo non traumatico, che può incorrere in cure genitoriali inadeguate (Mitchell e Black, 1995): “Bowlby citava come una pietra miliare nel sorgere della sua linea di pensiero indipendente il momento in cui si alzò con aria di sfida per affermare nel mezzo di una di queste discussioni: “Ma le cattive madri esistono davvero” (p. 140). Tale espressione segnò lo sviluppo delle teorie inglesi postkleiniane.
[8] Lettera a Money Kyrle.

[9] I concetti di scissione orizzontale e verticale in Kohut (1971) riguardano nel primo caso una rimozione del nutrimento narcisistico proveniente da determinate fonti;  mentre nel secondo caso dalla negazione completa di un intero aspetto della realtà psichica del soggetto dal Sé centrale (p. 176; p. 195). Il compito dell’analista è quello di abolire entrambe le barriere.

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