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venerdì 31 agosto 2018

L'amore non è abbastanza - dimmi come ami, ti dirò: "chi sei?"


Mother! è un film del 2017 scritto e diretto da Darren Aronofsky,
con protagonisti Jennifer Lawrence e Javier Bardem.

Anche il più riuscito dei rapporti ha le sue falle.
Come insegnano i principi della regolazione affettiva delle interazioni umane (Tronick, 1989; Beebe, Lachmann, 2002) è impossibile essere perfettamente sintonizzati con qualcuno la maggior parte del tempo; spesso e a maggior ragione nei momenti di maggiore crisi individuale o svincolo evolutivo. Nell'osservazione diretta dell'interazione madre-bambino è possibile osservare che i momenti di "rottura" o anche "pausa" sono essenzialmente più frequenti rispetto a quelli di "incontro" e tali disgiunzioni attese vengono considerate parte del normale processo interattivo, cui segue una forma riparativa - più o meno funzionale a seconda della specifica diade. Tali principi sono stati applicati con successo allo studio delle relazioni adulte. E' infatti possibile prevedere sin dall'osservazione delle interazioni infantili una linea evolutiva che segnerà l'orientamento regolativo generale dell'individuo verso una sicurezza o insicurezza dell'attaccamento (Bowlby, 1969, 1972, 1980; Ainsworth et al., 1978).

I conflitti esistenti nell'ambito delle relazioni affettive familiari e intime possono avere un impatto generalmente sottovalutato ma di enorme portata per la salute mentale, lasciando la persona ripetutamente ansiosa, scossa, paurosa, triste o impotente, fino a sentirsi bloccata; oppure con un costante vissuto di essere sbagliata, in difetto o inadeguata. I maggiori danni sostenuti - sia dal soggetto che le mette in atto, sia da chi le riceve - solitamente riguardano le strategie di difesa di basso livello rispetto all'esame di realtà, quali ad esempio l'aggressività passiva, ovverosia un comportamento celato e socialmente accettabile o giustificabile che nasconde effettivamente un danno inferto, ma anche e soprattutto la rabbia narcisistica, con i difetti empatici che ne consegue; la manipolazione emotiva istericoforme, e le dinamiche di squilibrio di potere (schiavo-padrone e dipendenze). A livello nevrotico più alto sono invece facilmente riscontrabili colpa e vergogna.

Le dinamiche succitate sono in bassa percentuale e occasionalmente vissute anche nella maggiorparte delle interazioni, ma aumentando in frequenza e pervasività descrivono i più comuni circoli disfunzionali delle relazioni apertamente e storicamente conflittuali. Si osserverà, in queste ultime più frequentemente, un'organizzazione del tono emotivo focalizzato sul negativo, piuttosto che sul positivo, e un basso livello di capacità di accettazione, comprensione e reciprocità.

Possiamo sviluppare relazioni dannose con chiunque nel corso della vita – la relazione dannosa con un partner ad esempio (oppure un dirigente, un amico, etc.). Ciò che è utile osservare in termini clinici è che spesso questo genere di rapporti consiste in uno specchio o ripetizione di antiche dinamiche familiari, relative ai rapporti originari con genitori, fratelli, figure di riferimento primarie, etc.
I rapporti dannosi con i caregiver in particolare, sono particolarmente comuni, e soprattutto difficili da affrontare e gestire perché legati a un dogma sociale e culturale estremamente radicato, specialmente nella cultura italiana.
Uno degli elementi meno considerati in merito, ad esempio, è la continuità dell’influenza invalidante che ne deriva. Questo perchè non si può “lasciare” un genitore e andare a cercarsene uno nuovo, come si fa più spesso con gli amici o con un partner. Il senso di colpa e la disapprovazione che la società impone sulle spalle di chi vive problemi di questo tipo possono spesso essere una motivazione sufficiente ad una sofferenza silenziosa, taciuta e nascosta.

La società impone intorno a nucleo familiare una serie di “convenzioni” basate su assunzioni essenzialmente false: la neo-mamma che deve essere per forza eternamente felice e instancabile, e soprattutto volta al sacrificio della sua identità distinta dall'essere madre; i “genitori che sono sempre i genitori” quindi intoccabili e nel giusto per definizione etc. Ma ce ne sarebbero tante altre parte dell'esperienza comune che resta tuttavia come dissociata. 
La realtà degli eventi però ci mostra in modo irrefutabile che vivere in un ambiente con dinamiche disfunzionali, o di negazione/diniego, genera a lungo termine un logorio che determina una serie di problemi che richiedono un successivo inevitabile lavoro di emancipazione ed attenzione costante. Ciò che non si osserva, si ripete, con le conseguenze del caso.

Sacrificare continuamente il proprio benessere per il quieto vivere con un parente distruttivo, intrusivo o invalidante ad esempio, significa “fare la cosa giusta”? Ci sono molte opzioni tra il soffrire costantemente le problematiche che presenta un caregiver e il tagliarlo completamente fuori.
Tagliare fuori un caregiver estremamente dannoso, tuttavia, nei casi in cui questo è strettamente necessario, ovvero in tutti quei casi in cui il soggetto diventa vittima di soprusi, violenze, sviluppa sintomi fisici o psicopatologici, problemi comportamentali etc., non è una tragedia, ma un effettivo diritto e una necessità. In questi casi diventa più evidente come il dogma sociale condiviso si attiene, in realtà, alla maggioranza di persone che fortunatamente non ha una misura di cosa implichi un contesto simile. Oppure a chi ha dolorosamente internalizzato un sistema di diniego tale che si è conformato al proprio ambiente, pagandone tuttavia un caro prezzo consapevolmente o meno.

Quali sono i segni più insidiosi, nascosti e comuni di una relazione "originaria" o "ripetuta" dannosa?
Innanzitutto, una mancata capacità di rispettare gli spazi e i bisogni dell'altro, figlio, partner, amico etc. Tali meccanismi originano spesso dal comportamento di un genitore che vive l'identità separata del figlio come un rifiuto verso di lui (vedi invertimento dei ruoli genitore-figlio, invischiamento e responsabilità per la felicità dell'altro vissuto come incompleto, o parte mancante di sè).
In secondo luogo, l'evitamento dei momenti affettivi autentici, anche quelli negativi
. Un evitamento del riconoscimento della parte emotiva dell'esperienza, nella sua totalità. Sviluppare un adeguato livello di accettazione e compassione, verso se stessi e verso gli altri, può essere molto complicato quando chi avrebbe dovuto prendersi cura di noi ha ignorato i nostri bisogni più profondi e basilari, ponendoci di fronte ai propri. La sensazione può essere quella di essere invisibili (inesistenti, non importanti), o come se i propri sentimenti o bisogni emotivi costituiscano un fastidio, pertanto debbano essere nascosti (in questi contesti viene promosso un alto tasso di vergogna - mancata accettazione, o senso di indegnità che si trasmetterà non solo nelle relazioni "ripetute" ma anche spesso a livello trans-generazionale nella successiva prole).

Un pensiero molto comune può essere: “In fin dei conti ho avuto un tetto sopra la testa e del cibo. Non dovrei lamentarmi”. La sofferenza che si sperimenta in questo genere di trascuratezza emotiva tuttavia è reale, nonostante il fatto che per altri possa essere andata peggio.
Gli abusi fisici reiterati causano un danno più evidente, ma l’abuso e l’abbandono emotivo (anche solo minacciato) può creare profonde cicatrici.
L’entità del trauma sperimentato non dovrebbe essere misurata su una scala che prevede una legittimazione soltanto sulla base della gravità evidente e marcata (esteriore o tangibile) del danno. Un danno emotivo può essere invisibile e tuttavia continuare ad essere invalidante per il resto della vita.

In essenza vivere la propria vita occupando un posto nel mondo significa affrancarsi dalla storia, osservandola come distinta da un destino disegnato. Ovverosia apprendere una nuova libertà emotiva e relazionale dalle ripetizioni del passato, acquisendo consapevolezza e padronanza sulla propria storia e le proprie modalità, e mettendo in atto le nuove capacità apprese in contesti più accoglienti.

mercoledì 5 luglio 2017

Fluttuazioni narcisistiche e compassione nello sviluppo e decorso dei DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare)



Searching all directions with your awareness, 
you find no one dearer than yourself. 
In the same way, others are thickly dear to themselves. 
So you shouldn't hurt others if you love yourself.

(TheravadaUdana 47 - Rajan Sutta)

Viruncamban, uno dei dodici giganti demoni guardiani Ramayana all'aereoporto Suvarnabhumi (Bangkok, Thailand). La statua riproduce lo stesso gigante del Temple of the Emerald Buddha (Wat Phra Kaew). Viruncamban, dal volto blu e gli occhi da coccodrillo, aveva il potere di rendersi invisibile. Fu eletto da Tosakanth dopo che la meditazione del demone era stata interrotta. Dopo aver assistito alla morte dell'amico stretto Satasoon per mano di Hanuman, Viruncamban si rese invisibile a sé stesso e al suo esercito, e scurì il cielo per facilitare la sua fuga nell'oceano, mentre la sua falsa immagine combatteva instancabilmente. Sotto suggerimento di una fanciulla celeste denominata Wanarin, Viruncamban si nascose sotto il letto dell'oceano vicino al Monte Akatkiree.

Un recente articolo pubblicato sulla rivista Eating Behaviours ha esaminato il ruolo della compassione verso di sé, nelle problematiche relative all’immagine corporea e allo stile alimentare.
Cos’è la compassione per sé stessi? Essa riguarda un atteggiamento di cura e gentilezza verso di sé, piuttosto che di giudizio; la capacità di riflettere sul proprio dolore con umanità, piuttosto che rifugiarsi nell’isolamento; la consapevolezza dei propri limiti, piuttosto che rimuginare sui fallimenti (Neff, 2003a). 
Quali sono i rapporti tra autostima e compassione per sé stessi? L’autostima può essere definita come una valutazione complessiva positiva di sé (Rosenberg, 1965); la compassione riguarda invece una forma più stabile e incondizionata di cura di sé, che si differenzia dalle fluttuazioni narcisistiche (ad esempio assumere un atteggiamento rigidamente difensivo verso l’ottimismo o il pessimismo). In tal senso la differenza tra autostima e compassione per sé stessi consiste nell’espressione di un giudizio perentorio (polarizzato, fisso) riguardante il proprio valore, rispetto alla possibilità di accettarsi semplicemente per quel che si è nella propria unicità, cioè proprio perché “sé stessi”. 
La compassione verso di sé, ha comunque un’influenza significativa sull’equilibrio narcisistico: un sano livello di autostima infatti, prevede il riconoscimento delle proprie qualità e dei propri limiti in maniera bilanciata. Tale costrutto come aspetto basilare della compassione psicologica in senso più ampio (rivolta agli altri), è stata associato anche alla possibilità di riconoscere il proprio ruolo in situazioni di crisi, imparare dai propri errori, e alla capacità di riconoscere e accettare parti di sé (positive o meno) per ciò che sono.
In che modo la compassione verso di sé incide nello sviluppo dei DCA? Kelly, Vimalakhantan e Carter (2014) hanno trovato che il miglior predittore per lo sviluppo di disturbi alimentari consisteva in un basso livello di compassione verso di sé. Pazienti con problematiche alimentari che riuscivano a sviluppare la capacità di essere compassionevoli verso di sé durante il trattamento, mostravano una risposta migliore alle cure, nel corso di 12 settimane (Kelly, Carter, e Borairi, 2014). 
Questi dati suggeriscono che la possibilità di accettare sé stessi gioca un ruolo importante nella gestione dell’immagine corporea e nella gestione dell’alimentazione in relazione alle problematiche narcisistiche legate al piacersi fisicamente, e al “sentirsi abbastanza”. 
I ricercatori Kelly, Vimalakhantan e Carter (2014) hanno anche evidenziato un altro aspetto relativo alla compassione verso sé stessi: il timore di provarla oppure di ricevere compassione dagli altri risultava essere il miglior predittore rispetto al mantenimento della problematica alimentare. Come vengono letti questi risultati clinicamente? Ricevere compassione dagli altri o provare compassione verso di , può rappresentare un’esperienza relativamente spaventosa per alcuni individui in quanto essa implica un’ammissione di vulnerabilità (cioè della propria umanità rispetto a un’illusoria onnipotenza), che può essere negativamente letta come debolezza o fallibilità. Tale livello di perfettibilità in questi casi si scontrerà con le difese narcisistiche più resistenti (“devo essere perfetto/a o non sono niente”). 
Secondo Gilbert et al., (2011) le persone che temono di più la compassione in realtà sono convinte di non meritarla; oppure sono eccessivamente (irrealisticamente) preoccupate di abbassare i propri standard e apparire deboli agli altri (quindi in maniera amplificata a sé stessi). E’ stato visto che queste persone mostrano in media un livello più alto di psicopatologia rispetto alla popolazione totale.  
In conclusione, la capacità di ricevere e provare compassione è un importante fattore protettivo contro lo sviluppo di disturbi alimentari (così come altri tipi di dipendenze compulsive) e può facilitare la remissione dei sintomi quando il disturbo è già presente. Essa può quindi essere considerata un importante obiettivo terapeutico nel corso del trattamento dei DCA, e di altri tipi di disturbi in generale.
Bibliografia

Kelly, A.C., Carter, J.C., Borairi, S. (2014), Are improvements in shame and self-compassion early in eating disorders treatment associated with better patient outcomes? International Journal of Eating Disorders, 47(1),54-64.

Kelly, Vimalakhantan, Carter (2014), Understanding the role of self-esteem, self-compassion, and fear of self-compassion in eating disorder pathology: An examination of female students and eating disorder patients. Eating Behaviours, 15 (2014) 388-391.
Neff, K. D., (2003a), Self compassion: An alternative conceptualization of a healthy attitude toward oneself. Self and Identity, 2(2), 85-101.
Rosenberg, M. (1965), Society and the adolescent self-image. Princeton: Princeton University Press.

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