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martedì 31 dicembre 2019

Il caso Marilyn Monroe e la responsabilità terapeutica


Only parts of us will ever
touch only parts of others —
one’s own truth is just that really — one’s own truth.
We can only share the part that is understood by within another’s knowing acceptable to
the other — therefore so one
is for most part alone.
As it is meant to be in
evidently in nature — at best though perhaps it could make
our understanding seek
another’s loneliness out.

'Fragments: Poems, Intimate Notes, Letters' by Marilyn Monroe


Nel testo "Il caso Marilyn Monroe e altri disastri della psicoanalisi" (Mecacci, 2000) si prendono in esame alcuni aspetti critici della disciplina psicoanalitica dai suoi albori ai giorni nostri. Il caso di Marilyn Monroe viene osservato per primo. Nel testo si vuole evidenziare la natura di inadeguatezza delle cure ricevute dai vari analisti nella loro pratica. 
Una delle paure più grandi di cui soffriva l'attrice era quella dell’abbandono. Marilyn passò da una famiglia adottiva all'altra dopo essere stata lasciata in orfanotrofio dalla madre. Non avendo avuto nessuno accanto a cui poter fare riferimento sin da bambina, fu in analisi per molti anni e cercò nei matrimoni la stabilità che le era mancata all'origine. Si dice che portasse sempre con sé un'immagine Lincoln, non avendo nemmeno mai conosciuto l'identità del padre: "La maggior parte delle persone può ammirare suo padre, ma io non ne ho mai avuto uno. Ho bisogno di qualcuno da ammirare. Mio padre é Abraham Lincoln…Intendo dire che penso a Lincoln come a mio padre. Lui é saggio e gentile e buono. È il mio ideale, Lincoln. Lo amo". 
Marilyn fu una donna dalla straordinaria intelligenza e sensibilità. A dispetto del quadro scarsamente empatico di lei dipinto da Mecacci, (forse dovuto anche a fini di sensazionalismo, che contrariamente a quanto l'autore afferma di voler fare all'inizio del libro, non manca affatto) Marilyn ebbe un successo planetario e incancellabile proprio in virtù della sua natura indomabile, libera e provocatoria. 

Marilyn inziò l'analisi sotto suggerimento della sua insegnante di recitazione con Margaret Herz Hoenberg, poi Anna Freud, quindi Marianne Rie Kris, Ralph Greeson e infine Milton Wexler. Fu trattata con un lavoro analitico di stampo classico alternato al manicomio, dosi massicce di farmaci e la camicia di forza. Non ho dubbi che l'attrice abbia fallito il suo trattamento!

"Anna Freud sottopone Marilyn al gioco delle biglie di vetro... Marilyn sta davanti a lei e deve muovere, in base a come le sposterà, Anna darà la sua interpretazione. (Marilyn) sposta le biglie una dopo l'altra nella direzione di Anna che può quindi diagnosticare un 'desiderio di contatto sessuale'... Anna Freud sintetizza così la diagnosi: emotivamente instabile, fortemente impulsiva, bisognosa di continue approvazioni da parte del mondo esterno; non sopporta la solitudine, tende a deprimermi di fronte ai rifiuti; paranoide con tratti schizofrenici"

Immagino che alleanza terapeutica potesse esserci tra le due donne! Difatti Marilyn paga cospicuamente Anna Freud per congedarla; vuole cambiare analista. La nuova terapeuta Kris però non é in grado di fare di meglio e la rinchiude in manicomio. Greeson la imbottisce di farmaci e la introduce ai suoi familiari. Entrambi gli ultimi due terapeuti si alternano tra loro e vengono infine rimpiazzati a causa di spostamenti geografici  di lavoro (a volte della paziente, a volte il loro). Ecco uno stralcio della lettera di Marilyn dal suo ricovero:

"Descrivendo le violenze psichiche e fisiche che aveva subìto (Marilyn), notava come i medici fossero interessati ai pazienti solo in quanto i loro disturbi trovavano un riscontro a ciò che avevano letto sui libri, e non perché vedevano in loro degli esseri umani sofferenti". 

Mecacci sottolinea il coinvolgimento di Greenson nella vita quotidiana con Marilyn, l'alternarsi con la terapeuta newyorchese Kris, i legami che i vari terapeuti avevano tra di loro e con Marilyn. 
È fuori di dubbio che uno sconfinamento dalle norme del setting fosse chiaro. Ma cosa ha fatto realmente e definitivamente fallire il trattamento, quando Marilyn fu trovata morta il 4 Agosto 1962? Nel testo ci si perde in una ricostruzione complottistica su un probabile coinvolgimento di Greenson con, addirittura, gli interessi sovietici. 
Queste affermazioni sembrano più adatte a quelle di una rivista di gossip o di una biografia romanzata che a un testo divulgativo di discussione sulla psicoanalisi. D'altra parte il peggio che si possa fare con la psicoanalisi é il gossip e la caricatura, e Mecacci non fallisce in nessuna delle due imprese. 

Più probabilmente quello che é mancato a questi analisti é stata una capacità di spogliarsi delle vesti di dottori per diventare terapeuti, proprio come esprime Marilyn nella sua lettera. È nelle parole di Marilyn sul suo ricovero, e nel costante aumentare delle dosi degli psicofarmaci somministratole che si denota tutta l'impotenza e l'incapacità di comprensione dei suoi analisti nei suoi confronti mentre avanzano le loro interpretazioni da manuale. Ancora una volta si conferma come sia la verità del paziente la bussola più importante da seguire per orientarsi. 

Il perseguire una verità storica in un processo psicoanalitico é assimilabile al rincorrere un'utopia. La verità ha il volto di chi la racconta. Questo é ancora più vero  nel caso di un paziente. La sua verità é tutto ciò che conta, perché é il modo in cui la storia é stata vissuta e ha lasciato una traccia in lei/lui a diventare la materia del lavoro da gestire e che vale la pena di ascoltare profondamente e indipendentemente da altri fattori. Questo é particolarmente importante perché il paziente é il centro del lavoro e con cognizione dei limiti é necessario, mediante l'uso della consapevolezza, spogliare il campo di altre futili attribuzioni più spesso appartenenti all'analista e spesso sottovalutate, del modo in cui lei/lui sperimenta la storia e le conferme alle proprie idee teoriche e impostazioni personali di vita. In definitiva dunque la prova ineluttabile del successo di un trattamento non sta nelle valutazioni pedisseque dei test di personalità, ma molto più semplicemente e infallibilmente nelle affermazioni del paziente sul lavoro svolto.

A proposito della responsabilità terapeutica, tanto quanto é importante rimanere costantemente critici sul lavoro del terapeuta, é importante considerare quanto essa sia bilaterale. L'impegno profuso nel lavoro deve riguardare infatti anche il paziente, nello specifico quando é in grado di comprendere che l'inizio di un lavoro non implica una posizione passiva da parte sua e di risoluzione magica per il terapeuta, al contrario richiede l'attivazione di risorse proprie che saranno stimolate dal lavoro congiunto e una partecipazione attiva.

Fortunatamente oggi la psicoanalisi non segue più l'impostazione classica. Soprattutto si é aperta insieme alla psichiatria più illuminata, al dominio delle neuroscienze impegnate nel coinvolgimento della filosofia e della fenomenologia nell'osservazione dell'esperienza mettendo al centro anche la soggettività dell'analista che non è più lasciato "fuori dal campo di osservazione". Ciò non significa che non ci saranno più errori, ma che oggi abbiamo più strumenti per uscire dalle empasse e comprendere il paziente; per avvicinarci alla sua esperienza con scopi di testimonianza e integrazione dell'esperienza. Oggi sappiamo che un farmaco non salva da solo un paziente per quanto grave. È soltanto un aiuto, che insieme a quello di una rete di elementi congiunti e congruenti di protezione, può risollevare poco alla volta la vita del paziente cresciuto in un contesto emotivamente disregolante e invivibile, che é stato appreso e confermato per decenni nel corso della sua storia.

Mecacci, L. (2000) Marilyn Monroe e altri disastri della psicoanalisi. LaTerza Edizioni.

giovedì 15 agosto 2013

Di Jonathan Shedler - Alcuni consigli su come scegliere un terapeuta



Il Freud Museum di Londra presenta Divan: pezzo di attenzione libera fluttuante, un progetto  dell'artista messicano Santiago Borja. La proposta di Borja mira a favorire nuove letture del lavoro di Freud in relazione alle culture non europee. http://www.freud.org.uk/exhibitions/72952/divan-free-floating-attention-piece/

Dopo aver insegnato a diverse generazioni di psicologi e psichiatri come fare psicoterapia, conosco una vasta gamma di terapie e teorie - per questo non le impongo ai miei pazienti.

Fate attenzione ai terapeuti troppo identificati con un "marchio" di terapia. Hanno già deciso come trattarvi ancor prima di avervi incontrato, figuriamoci ascoltarvi. Fate anche attenzione ai terapeuti che proclamano competenze in diverse forme di psicoterapia. Si può finire con un principiante, o qualcuno che si preoccupa di più di riempire la sua agenda, che della sua integrità.

Attenzione ai terapeuti che enfatizzano una specializzazione in determinate diagnosi o disturbi.
Una diagnosi ci dice poco su come aiutare. Le cause del dolore emotivo sono generalmente intrecciate nel tessuto della nostra vita, come viviamo, come vediamo noi stessi e gli altri, come ci rapportiamo con la gente o non riusciamo a rapportarci, ciò che desideriamo e ciò di cui abbiamo paura, come far fronte alle avversità e al successo, ciò che sappiamo di noi stessi e ciò che non vogliamo sapere.
Una importante competenza del terapeuta consiste nel capire come tale tessuto è intrecciato e come può potenzialmente essere ritessuto, e non nella diagnosi o nel disturbo.

Le prime sedute dovrebbero concentrarsi sullo sviluppo di una comprensione condivisa rispetto a ciò che costituisce realmente il problema, una comprensione che abbia senso per entrambi.
"Quella che è davvero la questione" non è la vostra depressione, ansia, o disturbo alimentare. Ma quello che sta succedendo psicologicamente, sotto la superficie delle cose, che causa questi problemi. Una visione condivisa di quello che è il problema fornisce un punto di riferimento per la terapia.
Una psicoterapia efficace ha un obiettivo.

Si può sviluppare una visione condivisa nel corso della prima seduta, oppure possono essere necessarie diverse sedute. Tale visione evolverà e cambierà con il progredire della terapia. Essa potrà essere rielaborata più volte: è dinamica, e non statica.
Ci dovrebbe essere un obiettivo tuttavia, fin dall'inizio, una base su cui costruire.

Molti terapeuti parlano di "alleanza terapeutica", ma pochi sembrano capire che cosa sia realmente. Alleanza terapeutica non significa soltanto che paziente e terapeuta vanno d'accordo, o che si trovano bene insieme. Non è un'alleanza basata su una cosa qualunque.
Un'alleanza terapeutica si basa su un comune, mutuo accordo sul compito da svolgere - un'alleanza su tutto il lavoro che c'è da fare.

Una buona alleanza terapeutica riguarda tre elementi:
1) il senso di legame,
2) un reciproco accordo circa l'obiettivo o scopo della psicoterapia,
3) un reciproco accordo sui metodi che paziente e terapeuta useranno a servizio di tale obiettivo.
Tutti e tre gli elementi sono necessari. Spesso riscontro il primo elemento senza gli altri due.

Una comprensione condivisa rispetto al problema deve essere realmente condivisa.
Non può essere soltanto la comprensione del terapeuta, o soltanto la comprensione del paziente.
E' qualcosa che paziente e terapeuta devono creare insieme, e che trascende ciò che ognuno di loro  saprebbe da solo.
Se si potesse raggiungere tale comprensione da soli, probabilmente non si avrebbe bisogno della terapia.
Il compito del terapeuta è quello di aiutare a risolvere il problema in un modo che non è fattibile stando da soli. Quando si arriverà a una comprensione condivisa, si avrà la consapevolezza di aver catturato qualcosa di importante.

Un'immagine di Jonathan Shedler, PhD, tratta dalla sua pagina Facebook, in cui ha postato questo articolo.

I miei studenti mi chiedono sempre cosa fare quando i pazienti non hanno idea di quale sia il problema.
Il paziente sa che c'è qualcosa che non va, ma non sa dire che cosa.
Sente un vuoto interiore, si sente perduto o bloccato, ma non ha idea del perché.
E' in questo caso che l'aiuto del terapeuta è essenziale, perché il terapeuta è in grado di offrire una prospettiva che il paziente non potrebbe avere da solo. Ad esempio il terapeuta può offrire il proprio punto di vista, cioè che il problema potrebbe essere che il paziente è estraneo rispetto a se stesso.
In questi casi si può dire al paziente: "Sente che qualcosa va molto male, ma non trova le parole per dirlo. Forse potrebbe aiutarla riuscire a trovare delle parole per descrivere ciò che va male. Se riusciamo insieme a trovare delle parole, saremo in grado di vedere le cose in modo più chiaro. Quando vediamo le cose più chiaramente, possiamo essere in grado di trovare una via d'uscita".

Poi si può chiedere, ed è fondamentale affinchè la comprensione sia realmente condivisa: "Pensa che sarebbe utile se riuscissimo a trovare delle parole per ciò che non va?".
Se il paziente entra in risonanza con questo - se sente anche lui che la ricerca di parole lo aiuterà - allora abbiamo un focus iniziale per il nostro lavoro.
Il compito condiviso è quello di trovare le parole. Il paziente non riesce a trovare le parole giuste da solo, e anche il terapeuta non può trovare le parole giuste senza l'aiuto del paziente; ma insieme sarà possibile trovarle.
Il focus del trattamento evolverà nel tempo, ma ora si ha un punto di partenza.

Se il paziente non è in sintonia con l'idea che la ricerca di parole potrà aiutarlo, bisogna tornare indietro e continuare a esplorare finchè non si trova un obiettivo sul quale entrambi siano d'accordo, e che sia per entrambi fruttuoso, da cui poter ripartire.

Non sempre un "sì" è la vera risposta.
Se il paziente è d'accordo con una particolare visione del trattamento proposta, ma si impegna nella terapia in un modo che suggerisce accondiscendenza, non c'è una visione condivisa. E' solo una  comprensione parziale del problema, e non condivisa.
Se il paziente è d'accordo soltanto perché presume che il terapeuta ne saprà più di lui perché è l'"esperto", non c'è una comprensione condivisa.
Anche in questo caso, bisogna tornare indietro e continuare ad esplorare.
(Ma ora abbiamo anche una nuova ipotesi su ciò che potrebbe costituire il problema. Se il paziente ha l'abitudine di delegare ad altri ciò che è giusto per lui, invece di padroneggiare i propri pensieri e sentimenti, questo potrebbe essere la causa di ciò che non va e del perché non trova delle parole per dirlo. Si solleverà quindi la questione al fine di porla in considerazione).

Quando scrivo di psicoterapia, divento più consapevole della terminologia. Per questo motivo avverto la necessità di spendere qualche parola a proposito dell'utilizzo del termine 'paziente' rispetto al termine 'cliente'.
Molti terapeuti, e diversi psichiatri, definiscono i loro assistiti come "clienti".
Personalmente ho dubbi su entrambe le parole.
Le persone che vengono da me per un trattamento hanno bisogno di aiuto, a volte con urgenza. Alcuni sentono di avermi affidato letteralmente la loro vita.
Il lavoro che facciamo ha profonde conseguenze, spesso permanenti (se non non fosse così, non sarebbe psicoterapia).
Ad ogni modo dal mio punto di vista, la metafora medica ('paziente') appare più congrua con quanto  è in gioco rispetto alla metafora commerciale ('cliente').

E allora, come si fa a scegliere un terapeuta?
Evitate gli ideologi e gli esperti-di-tutto.
Non cercate in lungo e in largo qualcuno specializzato nel trattamento di persone che hanno esattamente il vostro identico problema, perché non esistono altre persone che hanno esattamente il vostro problema.
Quando incontrate il terapeuta scelto, osservate se sembra più interessato a voi o a diagnosticarvi un disturbo.
Osservate se lo psicoterapeuta vi invita a riflettere insieme su quello che è realmente il problema. Notate se insieme siete in grado di sviluppare una comprensione condivisa rispetto a ciò che costituisce il problema, una comprensione che suona vera per voi.
Questa parte di lavoro potrebbe richiedere più sedute, ma il percorso da intraprendere dovrebbe procedere fin dall'inizio in questa direzione.
Se tutti questi ingredienti sono presenti, probabilmente ne avete trovato uno buono!

Jonathan Shedler, Ph.D ( http://jonathanshedler.com/ ) è Professore Associato presso la University of Colorado School of Medicine. Insegna e conduce laboratori per il pubblico professionale nazionale e internazionale e fornisce consulenza clinica e supervisione ( http://jonathanshedler.com/consultation/ ) in teleconferenza a professionisti della salute mentale in tutto il mondo.


fonte: https://www.facebook.com/jonathan.shedler

giovedì 13 giugno 2013

Famiglie e terapia della famiglia. La terapia strutturale di Salvador Minuchin (1974)

Nel 1914 Ortega y Gasset scriveva "Io sono me stesso più le mie circostanze, e se non le salvo, non posso salvare me stesso" (Minuchin, 1974, p. 13). Per dare un'immagine a questa affermazione Ortega y Gasset si avvalse di una storia: il comandante Peary raccontava che nel suo viaggio verso il polo, si diresse tutta la notte verso nord, facendo correre vivacemente i suoi cani da slitta. La sera controllò le sue bussole e si accorse che era molto più a sud del mattino precedente. Tutta la giornata aveva viaggiato faticosamente verso il nord camminando sulla superficie di un enorme iceberg trascinato a sud dalla corrente oceanica.
Secondo Minuchin, l'esperienza umana è determinata dall'interazione con l'ambiente; l'uomo non è se stesso senza i fatti che condizionano il suo destino.
Il caso di Alice nel paese delle meraviglie
Nel famoso film della Disney, Alice cresce a dismisura fino a occupare, con il suo corpo, tutta la casa. Minuchin paragona la terapia intrapsichica al cambiare Alice, e la terapia strutturale al cambiare Alice all'interno della sua stanza.
"Alice" è una paziente con disturbi del pensiero paranoidi, vissuta per venticinque anni nello stesso appartamento. 
Un giorno la donna tornò a casa e trovò l'appartamento svaligiato. Decise quindi di trasferirsi e chiamò una compagnia di traslochi. Di lì in poi iniziò il suo incubo: le persone che l'aiutavano con il trasloco spostavano ciò che le apparteneva mettendo gli oggetti nei posti sbagliati, perdevano gli oggetti preziosi e cercavano di controllare dove andava, scambiandosi segni di nascosto. 
La donna ricevette dallo psichiatra dei tranquillanti, ma la sua esperienza non cambiò. Fu visitata allora da un altro psichiatra che lasciò di proposito davanti a lei delle bottiglie. La donna pensò subito che fossero pericolose, e il medico raccomandò il ricovero. Ma la donna rifiutò.
Un altro terapeuta i cui interventi erano basati sulla comprensione dell'ambiente dei vecchi e delle persone sole le spiegò che aveva perduto il suo guscio: la casa precedente della quale conosceva ogni oggetto, il circondario e i vicini. A questo punto come ogni crostaceo che perde il suo guscio era vulnerabile. La realtà aveva un diverso effetto su di lei. Il terapeuta la rassicurò dicendo che i problemi sarebbero scomparsi quando le fosse cresciuto un nuovo guscio.
Quanto tempo ci sarebbe voluto?
Doveva togliere dall'imballaggio tutto ciò che le apparteneva, appendere i quadri che avevano abbellito il suo precedente appartamento, mettere i libri negli scaffali, sistemare il suo appartamento affinchè diventasse familiare. 
Tutti i suoi movimenti dovevano essere fatti sistematicamente. Doveva alzarsi a una certa ora, far compere a un tempo prestabilito, andare negli stessi negozi, pagare alla stessa cassa, etc. Non doveva provare a fare nuove amicizie nel quartiere per due settimane. Doveva andare nella zona dove aveva abitato e far visita ai vecchi amici, ma per non gravare sugli amici e sulla famiglia non avrebbe dovuto descrivere nessuna delle sue esperienze. Se qualcuno le avesse chiesto che problemi aveva, doveva rispondere che si trattava unicamente di sciocchi problemi da vecchi paurosi. 
Questo intervento aiutava la paziente a stabilire una routine per accrescere il senso di familiarità con il nuovo territorio. Doveva esplorare ed esaminare la nuova strana zona in cui viveva, allo stesso modo degli animali. La paurosa esperienza di non familiarità con l'ambiente era stata interpretata, da questa donna sola come una cospirazione alle sue spalle. 
Nella misura in cui aveva cercato di comunicare le sue esperienze, la risposta dell'ambiente era stata quella di amplificare la sua percezione di essere anormale e psicopatica. Amici e parenti si erano spaventati e l'avevano spaventata con cospirazioni di segretezza. Due psichiatri le avevano diagnosticato una psicosi con allucinazioni paranoiche e avevano proposto il suo internamento. Una comunità paranoica si era sviluppata intorno a lei.
Un terapeuta comportamentale aveva interpretato il suo trasferimento come una crisi ambientale. 
Seguendo la metafora di Alice nella stanza, aveva percepito che la donna stava cambiando più lentamente del mondo che la circondava. Il suo intervento implicava un cambiamento della donna all'interno del suo mondo dandole un controllo sull'ambiente finchè non le fosse divenuto familiare. Il terapeuta aveva così protetto la donna prendendo in mano la situazione e guidandola "mentre le cresceva il nuovo guscio". Al contempo aveva bloccato i processi di risposta che amplificavano la patologia della paziente. Man mano che il suo intervento cambiava l'esperienza che la donna aveva del proprio ambiente, i sintomi sparivano. 
Ella continuò a vivere nel nuovo appartamento, con l'indipendenza desiderata. Il cambiamento non era avvenuto all'interno o all'esterno della paziente, ma nel modo di porsi in relazione con l'ambiente.
L'intervento strutturale opera sul processo di risposta tra l'ambiente e la persona che lo sperimenta, sui cambiamenti imposti da una persona sull'ambiente e sul modo in cui la risposta a questi cambiamenti influenza ogni suo conseguente movimento. Uno spostamento di posizione di una persona messa di fronte al suo ambiente costituisce anche una svolta nell'ambito della sua esperienza. Cambiando il rapporto tra una persona e il contesto in cui funziona, si cambia la sua esperienza di soggetto.

Bibliografia
Minuchin, S. (1974), Famiglie e terapia della famiglia. Casa Editrice Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma.

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