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lunedì 24 marzo 2014

Donald W. Winnicott: stralcio da "Comunicare e non comunicare: studio su alcuni opposti" (1962) -


"Il gioco non è di fatto una questione di realtà interna, e neppure una questione di realtà esterna. Se il gioco non è né al di dentro, né al di fuori, dov'è? Fui vicino alla idea che esprimo nel mio lavoro La capacità di star da solo (1968b), in cui dissi che all'inizio il bambino è solo soltanto in presenza di qualcuno. Assistiamo all'impiego che un bambino fa di un oggetto transizionale, il primo processo di non-me e assistiamo al tempo stesso al primo uso che fa il bambino di un simbolo e la prima esperienza di gioco" (Gioco e realtà, 1971) .

"Nel corso della stesura di questo lavoro, mi sono trovato a sostenere il diritto di non comunicare. Questa era una mia intima protesta contro la spaventosa fantasia di essere sfruttato all'infinito, ovverosia contro la fantasia di essere mangiato o inghiottito, o ancora, contro la fantasia di essere scoperto.
Secondo me nella persona sana c'è un nucleo della personalità che corrisponde al vero Sè, questo nucleo non comunica mai con il mondo degli oggetti percepiti e il singolo individuo sa che esso non deve mai essere in comunicazione con la realtà esterna o influenzato da questa. Sebbene le persone sane comunichino e godano di questo comunicare, è pure vero l'altro fatto, ossia che ogni individuo è isolato, costantemente non comunicante, costantemente ignoto, di fatto non scoperto. Al centro di ogni persona c'è un elemento incomunicato, inviolabile, che è sacro e va preservato.
Il problema è: come stare isolato senza dover perciò essere distaccato? La risposta potrebbe venire dalle madri che possono comunicare con i loro piccoli solo nella misura in cui essi sono per loro oggetti soggettivi. Nel momento in cui gli infanti cominciano a percepire obiettivamente le madri, essi hanno già appreso a dominare diverse tecniche di comunicazione indiretta, la più evidente delle quali è il linguaggio. Esiste tuttavia un periodo transizionale, che mi ha particolarmente interessato, nel corso del quale si presentano oggetti e fenomeni transizionali che cominciano a fondare nel bambino l'uso dei simboli.
Secondo me, una condizione importante per lo sviluppo dell'Io sta in questa zona della comunicazione dell'individuo con fenomeni soggettivi, che sola dà la sensazione del reale. Nelle circostanze più favorevoli ha luogo l'accrescimento e il bambino possiede ora tre linee di comunicazione: la comunicazione che silenziosa per sempre, la comunicazione esplicita, indiretta e piacevole, e questa terza o intermedia forma di comunicazione che dal gioco si diffonde in esperienze culturali di ogni tipo.
La comunicazione silenziosa è legata al concetto del narcisismo primario? Le idee che siamo venuti esponendo hanno una portata pratica: esse ci suggeriscono che nel nostro lavoro dobbiamo tener conto del fatto che la non comunicazione del paziente può essere un contributo positivo, e ci impongono di chiederci se la nostra tecnica permette al paziente di comunicarci che non comunica. Il paziente può comunicare questo, solo se noi siamo pronti a cogliere il segnale con cui ce lo comunica e sappiamo distinguerlo dal segnale del disagio legato ad un'impossibilità a comunicare. In quanto stiamo dicendo c'è riferimento al concetto di essere solo in presenza di qualcuno, condizione che costituisce anzitutto un evento naturale della vita infantile e che in seguito è subordinata all'acquisizione di una  capacità di ritirarsi senza perdere l'identificazione con ciò da cui si è ritratti. Questa capacità si manifesta anche sotto forma di capacità di concentrarsi su un compito.
Ho cercato di dimostrare l'esigenza di riconoscere questo aspetto della salute: il Sè centrale non comunicante, immune per sempre dal principio di realtà, e silenzioso per sempre. Qui la comunicazione non è non-verbale; è assolutamente personale, come la musica delle sfere; essa rientra nell'esser vivo. E nello stato di salute, è da questo che sorge naturalmente la comunicazione.
La comunicazione esplicita è piacevole e implica tecniche estremamente interessanti, compreso il linguaggio. I due estremi, la comunicazione esplicita che è indiretta e la comunicazione silenziosa o personale, che fa sentire reali, hanno ciascuna il proprio costo, e nella zona culturale intermedia esiste per molti, ma non per tutti, una modalità di comunicazione che è un compromesso quanto mai prezioso".

martedì 11 giugno 2013

Omaggio a una pioniera dimenticata della psicoanalisi: Sabina Spielrein

Una scena tratta dal film "Prendimi l'anima"(2003) di Roberto Faenza, ispirato alla vita e alle vicende di Sabina Spielrein, interpretato da Emilia Fox e Ian Glen

Sabina Nikolaevna Špil'rejn-Šeftel'
(Сабина Нафтуловна Шпильрейн; 7 novembre 1885 - 12 o 14 agosto, 1942) è stato un medico russo e una delle prime psicoanaliste donna. 
Fu prima paziente, poi studentessa quindi collega di Carl Gustav Jung. Appignanesi e Forrester (1992) scrivono di lei che “inaugurò, come paziente, la sua carriera di analista” (p. 117). Ebbe un rapporto epistolare e professionale con Sigmund Freud. Uno dei suoi più famosi analizzandi fu lo psicologo dell'età evolutiva svizzero Jean Piaget. 
Nonostante il suo lavoro sia di gran lunga antecedente a quello di Melanie Klein – ricordiamo che la tesi di laurea in medicina Il contenuto psicologico di una caso di schizofrenia (dementia praecox) fu discussa nel 1911 e pubblicata lo stesso anno nello Jahrbuch für Psychoanalitische und Psychopathologische Forschungen, dieci anni prima del kleiniano Lo sviluppo di un bambino (1923) – il suo lavoro è stato poco riconosciuto. Carotenuto (1986) sottolinea questo aspetto in particolare in relazione al lavoro La distruzione come causa della nascitascritto nel 1912. Sappiamo infatti che grazie ad esso Freud arriverà ad una diversificazione circa la teoria della pulsione nel 1920, in Al di là del principio di piacere (Robert, 1964; Carotenuto, 1986). Freud citerà la Spielrein nei seguenti termini: “Buona parte di questi concetti è stata anticipata da Sabina Spielrein (1912) in un suo erudito e interessante lavoro, ma che, disgraziatamente, mi appare poco chiaro. Ella definisce l'elemento sadico della pulsione sessuale come ‘distruttivo’ ”. 
Scrive Spielrein (1912): “Quando ho scritto questo saggio, non era ancora stato pubblicato il libro del Dr. Stekel Il linguaggio dei sogni. Nel libro l’autore dimostra sulla base di numerosi sogni, che insieme al desiderio di vita noi abbiamo il desiderio di morire. Quest’ultimo desiderio egli lo considera come l’opposto del desiderio di vita che è implicito nell’essenza dell’istinto sessuale [...] Ritengo che i miei esempi dimostrino abbastanza chiaramente, come provano alcuni fatti biologici, che l’istinto riproduttivo è costituito anche dal punto di vista psicologico da due componenti antagonistiche ed è perciò altrettanto un istinto di nascita quanto di distruzione” (p. 114). 
La Spielrein fondò intorno al 1923, con Vera Schmidt, l’Asilo Bianco. Tra i lavori della Spielrein in campo infantile ricordiamo L'origine delle parole infantili papà e mamma (1922) e l’utilizzo della tecnica del disegno ad occhi aperti e chiusi (1928). 
Circa il tema del sogno, l’unico volume disponibile in Italia in relazione al lavoro della Spielrein, è ricco di intuizioni teoriche. La Spielrein (1912) nei suoi primi scritti si attiene alle conoscenze già approfondite da Stekel, Freud e Jung sul simbolismo: 

“Una donna mi raccontava che mentre un dente le veniva estratto sotto narcosi aveva sognato il distacco del parto. Non ci meraviglia che nei sogni l’estrazione dei denti si presti così bene a simbolizzare il distacco del parto. Ora abbiamo: distacco del parto = estrazione dei denti = castrazione, cioè la procreazione viene intesa come una castrazione” (p. 111). 

L’autrice tuttavia, in maniera coraggiosa rispetto a quanto riterrà utile in seguito Melanie Klein, non avrà particolari remore nell’esprimere le sue idee in netto contrasto con Freud. 
In Il contenuto psicologico di un caso di schizofrenia, il contributo della Spielrein (1911) diventa quindi particolarmente originale: 

“Il materiale da me raccolto offrirà numerose prove per gli studiosi che analizzano l’analogia tra sogno, psicosi e mito. L’esistenza di un tale rapporto mi pare possibile solo ipotizzando che un modo di pensare arcaico agisca ancora nel presente” (pp. 73-74). 

Secondo l’autrice, il linguaggio schizofrenico non è illogico, bensì può essere compreso se letto attraverso i codici di un linguaggio più arcaico, rispetto a quello di cui si fa uso corrente: tale linguaggio è direttamente legato a quello del sogno. 
La Spielrein offre quindi un approfondimento di questo punto di vista nello scritto Il tempo nella vita psichica subliminale (1922) in cui collega i pensieri preconsci a quelli coscienti ma presenti nel sogno: 

Ancor più nettamente spaziale è un altro sogno del signore pocanzi menzionato, che vede una situazione per lui penosa come un paesaggio che diventa sempre più piccolo, perdendosi in lontananza. Egli vuole dire cioè, come nel suo precedente sogno: “ciò appartiene al passato remoto”, cioè come nel suo precedente sogno: “ciò apparterrà fra poco al passato remoto”. E’ ancora una volta un divenire, che è tanto presente continuo quanto futuro. Ed ecco un altro esempio interessante di come si raffigura la valutazione della durata temporale nel pensiero preconscio [...] “Io sogno” mi scrive, “che mi trovo in una grande piazza bianca, asfaltata. Da qui si dipartono strade in varie direzioni: quella a est porta verso il mare. Io vado a ovest e dico fra me e me che devo svegliarmi fra due ore. La strada verso ovest è in leggera salita e viene tagliata due volte ad angolo retto da strade dritte. Io penso: ecco la prima ora, ecco la seconda”. [...] Si tratta veramente di un sogno? – un sogno è qualcosa di più. Possiamo osservare direttamente come un proposito cosciente, quello di svegliarsi dopo due ore, continui a vivere e ad essere elaborato, travestito col linguaggio figurato del preconscio: i due tratti di tempo (le due ore) diventano due tratti di strada; questa immagine viene poi adoperata come materiale onirico.
(Spielrein, 1922, p. 118). 

In questo scritto la Spielrein (1922) sembra precorrere il pensiero di Bion (1967); quindi spiega che il contenuto del sogno riguarda la rappresentazione della situazione presente del sognatore, talvolta modificata per questioni di comodità di utilizzo del materiale onirico (il sognatore deve ricordare di svegliarsi).
Spielrein (1922) pone quindi il problema dell’essenza del sogno. Ricordiamo che per Freud si parla di sogno solo quando c’è la formazione di un desiderio. Ma l’autrice nota che ad esempio, negli stati di grave affaticamento è difficile sognare, e che non sempre il sogno riguarda l’appagamento di un desiderio. Definisce sogni incompleti quei sogni che, fatti in uno stato di angoscia, depressione grave o stato di affaticamento, sembrano più simili ad una rappresentazione della situazione presente del sognatore che ad appagamenti di un desiderio. Quindi rileva la somiglianza tra il linguaggio onirico e quello di alcune lingue che “non conoscono il tempo come direzione, ma solo come durata” (p. 120). Il russo, ad esempio secondo l’autrice, ha molte analogie con il linguaggio del sogno: “il linguaggio verbale in questi casi crea le proprie rappresentazioni, così come nel sogno, attingendo a materiale preconscio” (p. 122).
Riepilogando Spielrein (1922) fornisce le seguenti informazioni sul sogno: il sogno non si può raffigurare come direzione; nel sogno la direzione è trasformata in durata; il passato nel sogno non è un vero passato ma un “non-esserci” ovvero un “non-esserci-più”; il sogno, come il pensiero del bambino, non distingue la direzione temporale ma soltanto la direzione finale o futura.
Il contributo della Spielrein appare subito innovativo rispetto ai temi presentati durante la stessa epoca dai suoi colleghi maschi. Spielrein non parla più soltanto di desiderio (Freud) o di simbolo (Jung), ma fa riferimento allo stato mentale del sognatore in relazione al sogno (stati depressivi, stati psicotici), e alle capacità del sogno di pensare contenuti coscienti (elementi coscienti emergono nel sogno ad uso del sognatore).
La Spielrein, cercando di centrare il bersaglio nel trattare il complesso argomento del lavoro onirico, azzarda interessanti paragoni tra linguaggio del sogno e linguaggio arcaico, linguaggio del sogno e Preconscio, linguaggio del sogno e lingue che non distinguono le coordinate temporali con esattezza come il russo; inoltre, Spielrein cerca di cogliere gli aspetti atemporali dell’elemento onirico nelle sue complesse sfaccettature. 

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