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giovedì 16 giugno 2016

'L'abisso della follia' di George Atwood - dal giudizio sulla malattia mentale alla comprensione dell'unicità umana



Le forme più gravi di sofferenza psichica non sono deviazioni da una norma prestabilita, ma il risultato di contesti relazionali traumatici, privi di responsività affettiva, comprensione ed empatia. Forte di cinquant’anni di esperienza clinica con i pazienti comunemente considerati “gravi”, Atwood tenta d’illustrare tale prospettiva – il contestualismo fenomenologico della psicoanalisi post-cartesiana – attraverso i suoi appassionati racconti di successi e fallimenti nella psicoterapia di individui comunemente sottoposti a diagnosi e trattamento psichiatrico. La barriera che divide la salute dalla cosiddetta malattia mentale è spazzata via da Atwood proprio attraverso la comprensione dei mondi personali nascosti da queste diagnosi, che si rivelano risposte umane a contesti soggettivi che spingono verso il ciglio dell’abisso. La cosiddetta “malattia mentale” è quindi uno sforzo per la risalita, ed è proprio attraverso la comprensione del senso soggettivo di fenomeni umani che si celano dietro termini come depressione, schizofrenia, disturbo bipolare, sogni e deliri che la cura è possibile. L’umanità è un ingrediente fondamentale per la terapia. Ciò che rende umana la possibilità di comprensione è proprio la capacità del clinico di riconoscere quanto la follia sia una possibilità che riguarda tutti noi.

George Atwood, PhD, è professore emerito di Psicologia Clinica presso la Rutgers University, membro fondatore e analista supervisore dell’Institute for the Psychoanalytic Study of Subjectivity di New York, membro onorario APA (American Psychoanalytic Association), autore di numerosi articoli e libri, tra cui Volti nelle nuvole, I contesti dell’essere, Psicopatologia intersoggettiva, Intersoggettività e lavoro clinico, La prospettiva intersoggettiva, che prendono in esame gli approcci terapeutici agli stati psicotici. I suoi principali interessi comprendono la teoria della personalità, l’analisi delle fonti psicologiche dei sistemi filosofici e l’esplorazione della complessa relazione tra follia e genio creativo.


Atwood, G., (2012). L'abisso della follia. Giovanni Fioriti Editore

domenica 15 novembre 2015

Il sogno come attività organizzatrice dell’esperienza - James Fosshage


 
Immagine tratta da: https://psychoanalyticdialoguesblog.wordpress.com/2015/07/30/by-joan-sarnat-standing-up-for-negative-feelings-in-psychoanalytic-supervision/comment-page-1/#comment-17


James Fosshage (1983, 1993, 1997; Fosshage, Loew, 1987; Lichtenberg, Lachmann, Fosshaghe, 1996) è l’autore post-kohutiano che più si è occupato di raccogliere l’eredità lasciata da Kohut sul tema del sogno, ampliando ed espandendo la teoria della psicologia del Sé sulla funzione e significato dei fenomeni onirici e integrando ai risultati della ricerca psicoanalitica quelli delle neuroscienze e degli studi cognitivi. 
 In particolare, se la psicologia del Sé di Kohut ha ipotizzato che il sogno è un fenomeno mentale molto più complesso, ovvero che assolve a diverse funzioni rispetto a quanto originariamente teorizzato da Freud, Fosshage ha sistematizzato e descritto dettagliatamente quali sono le diverse funzioni del sogno. 
 Per Fosshage (1983) “i sogni continuano gli sforzi consci e inconsci della veglia per risolvere i conflitti intrapsichici, attraverso l’utilizzazione di processi difensivi, attraverso una comprensione interna o attraverso una riorganizzazione creativa appena emergente” (p. 658). 

Il sogno rappresenta pertanto un processo di pensiero complesso, che si svolge durante il sonno, e la cui funzione centrale è l’elaborazione dell’informazione attraverso due modalità cognitive: la modalità del processo primario, immaginativa e dominata dai sensi; e la modalità del processo secondario, fondata su un piano verbale (Fosshage, 1997).
Queste due forme di elaborazione comparirebbero nel sogno sotto forma di immagini sensoriali e di parole dette (e non dette). Se le parole sono poste in modo logico e coerente per dare forma al significato cognitivo del sogno, le immagini sono poste in ordine sequenziale per esprimere un significato e favorire così un’elaborazione affettivo-cognitiva (Fosshage, 1983).
Queste immagini, sostiene Fosshage (1987), verrebbero scelte non per celare qualcosa, ma per favorire e promuovere gli sforzi del sognatore di elaborare e risolvere i problemi della vita quotidiana.

Il contenuto di un sogno, quindi, non viene più inteso come un mascheramento di un desiderio al fine di proteggere il sonno. Messi da parte la teoria freudiana pulsionale e il punto di vista energetico, Fosshage sostiene che i sogni – attraverso affetti, metafore e temi – rivelano direttamente le preoccupazioni immediate del sognatore (Fosshage, 1997).
La natura ambigua e caotica del sogno, dunque, non è spiegata attraverso il processo di mascheramento, ma dalla concomitanza di diversi fattori, tra cui il cattivo ricordo del sogno; l’intrinseca mancanza di chiarezza dell’attività mentale onirica; la difficoltà nel capire il significato delle immagini in una prospettiva vigile e la necessità di trovare una corrispondenza appropriata tra i due diversi stati mentali – onirico e della veglia (Fosshage, 1997).
Le immagini del sogno verrebbero scelte quindi non per celare qualcosa, ma perché costituiscono il miglior linguaggio iconografico di cui la persona che sogna dispone in quel momento.

La comprensione delle tematiche e delle metafore di un sogno richiede, secondo Fosshage (1994), delle associazioni da parte del sognatore. Tuttavia le immagini e gli scenari del sogno devono essere valutati clinicamente per quello che, metaforicamente, rivelano e non per ciò che nascondono. Non assumere che le immagini oniriche dell’oggetto siano proiezioni del Sé del sognatore, consente di avere accesso alle immagini che il sognatore ha degli altri, del Sé-con-altri e di altre importanti configurazioni relazionali. 
Il significato del sogno, può essere molteplice, proprio come l’attività mentale della veglia. Un sogno, quindi, può rappresentare un pensiero relativamente semplice (per es., recarsi al lavoro o svolgere altri compiti quotidiani), senza significati ulteriori. Oppure può, con le sue immagini, fornire una raffigurazione completa della vita del sognatore, tra cui traumi, cambiamenti importanti e condizioni di vita (Fosshage, 1989)1

“Piuttosto che chiedere ripetutamente al paziente di associare i singoli elementi del sogno”, scrive Fosshage (1989) “che tende a interrompere e frammentare l’esperienza del sogno da parte del sognatore, noi dobbiamo comprendere in senso globale la serie di immagini come se fossero le parole di una frase e il dramma complessivo del sogno come se si trattasse di frasi che formano una storia” (p. 5). Questa nozione rappresenta una radicale divergenza con il modello classico e, clinicamente, libera analista e paziente dal peso e dal compito (spesso fallimentare) di dover scovare l’importante significato latente di ogni sogno. 

Sulla base di queste premesse, in anni più recenti Fosshage (Lichtenberg, Lachmman, Fosshage, 1996) ha integrato i suoi sforzi di sistematizzazione con il modello multimotivazionale elaborato da Lichtenberg (1989), descrivendo un vero e proprio “Modello organizzativo del sogno”.
Centrale in questo modello è l’idea che tutta l’esperienza onirica si organizzi: 1) in congiunzione con il contesto esterno che ha avuto un impatto percettivo (per es., una strada fredda, un film visto la sera precedente etc.); 2) in risposta al sistema motivazionale dominante e/o in conflitto; e 3) in accordo con delle configurazioni organizzative, basate sulle esperienze passate del paziente, che sono state attivate. 

All’interno di questa cornice il sogno assume una duplice funzione: facilitare lo sviluppo e mantenere e reintegrare il Sé. La funzione evolutiva del sogno è una delle funzioni del sogno maggiormente sottolineata dalla psicologia del Sé (Paparo, Pancheri, 1999).
Al pari dell’attività vigile, l’attività onirica viene concettualizzata come lo sforzo di contribuire allo sviluppo dell’organizzazione psicologica creando, o consolidando, delle nuove soluzioni (Fosshage, 1983) e consentendo di raggiungere nuove prospettive, rappresentando nuovi modelli di comportamento. 

La signora D. 
 
Come esempio di funzione evolutiva del sogno l’autore riporta il sogno della signora D., una giovane donna, piacevole e attraente che aveva iniziato il trattamento a causa di sintomi d’insonnia, depressione e angoscia.
Quando iniziò il trattamento, la signora D. si sentiva profondamente insicura. Tentava di compensare la sua insicurezza lavorando molte ore e mostrandosi molto compiacente nei confronti delle richieste dei suoi colleghi di studio maschi. Durante l’analisi ricevette la proposta di entrare in un gruppo di lavoro specializzato composto da tre uomini che avevano lasciato il precedente studio per lavorare in proprio.
La signora D. si sentiva molto lusingata dall’offerta, ma anche molto esitante e incerta: “Suo padre aveva soffocato le proprie ambizioni e la metteva in guardia nei confronti del rischio di lasciare un lavoro “sicuro” [...] la signora D. si angosciava all’idea che i suoi vecchi soci potessero offendersi e che la società potesse fallire” (Lichtenberg, Lachmann, Fosshage, 1996, p. 179).
In questa fase dell’analisi, la paziente riportò il seguente sogno: 

Era in una stanza, in piedi in fondo a un tavolo operatorio. Il suo analista era in fondo dal lato opposto. Sul tavolo c’era un bambino piccolo. La cosa strana era che il bambino stava per avere un bambino. Il suo analista cambiava la posizione al bambino, che ora non guardava più verso l’analista ma verso di lei. Dal bambino usciva una donna pienamente matura (ibidem, pp. 179-180). 

Così commentano il sogno gli autori: 

La signora D. pensava che la donna matura rappresentasse lei stessa che prendeva posto nella nuova società. L’analista le fece una domanda sul cambiare posto al bambino. Lei disse che questo era il suo modo [dell’analista] per dirle che era lei, e non lui, che doveva fare un cambiamento allontanandosi dalla precedente aspettativa che, mosso dalle sue suppliche da brava bambina, l’analista avrebbe rimesso a posto le cose. Sapeva che la sua passività e il suo evitamento erano infantili e che il sogno le stava dicendo che doveva diventare adulta. Il sogno l’aiutò ad acquisire una nuova visione delle sue capacità di consolidare il proprio senso di sé come “donna pienamente matura”. (Lichtenberg, Lachmann, Fosshage, 1996, p. 180). 

La funzione del sogno di mantenimento e reintegrazione del Sé deriva direttamente nel concetto kohutiano di sogni sullo stato del Sé (Kohut, 1977). Da questa prospettiva, gli obiettivi dell’attività onirica sono considerati come rivolti, di fronte ad una minaccia di frammentazione o disintegrazione del Sé, a restaurare un senso di sé positivo e coeso.
Centrale in questi sogni è la regolazione degli affetti (Fosshage, 1997). Ad esempio, se in un occasione il paziente sente di non essere riuscito a manifestare la propria rabbia verso una minaccia percepita durante il giorno, può tentare di ristabilire un equilibrio attraverso un sogno. Questo è uno sforzo di regolazione degli affetti e di restaurare l’equilibrio del Sé.
Tuttavia, aggiunge Fosshage (1996), va tenuto conto del fatto che la funzione di restaurare un’organizzazione psicologica non sempre segue un movimento “verso la salute”. Al contrario, un sogno – così come accade durante la veglia – può tentare di ristabilire un modello organizzativo della mente familiare ma problematico.
Un sogno può cioè servire per riaffermare una vecchia visione negativa, più familiare e quindi meno ansiogena del Sé come inadeguato, ripristinando così un minimo di equilibrio psicologico.
In senso più ampio: “Quando sogniamo, usiamo e mettiamo in luce i nostri modelli primari di organizzazione del nostro mondo. Il sognare, come l’attività di pensiero che si svolge durante la veglia, può servire a mantenere o trasformare questi modelli” (ibidem, p. 181).
In questo caso, le immagini di sé, dell’altro e di sé-con-l’altro sono dipinti nelle immagini oniriche come legati tra loro, e lotte e conflitti relazionali possono affiorare e trovare – o non trovare – una soluzione. 

Secondo Fosshage (1996): “La storia [del sogno] implica drammaticamente una lotta relazionale con l’altro che, pieno di rabbia nei suoi confronti, tenta di dominarla sessualmente, un tema ripetitivo nella sua vita familiare. I suoi primi tentativi di affermare se stessa falliscono. E quindi, riprendendosi, trova il coraggio e la forza di urlare a gran voce, in cerca di aiuto dalle persone della stanza accanto – un’immagine di altri soccorevoli e un modo di vedere se stessa come più forte, potente e capace di difendersi” (p. 181). 


In breve, l’approccio all’analisi dei sogni proposto da Fosshage, si basa su una lettura fenomenologica rivolta a convalidare l’esperienza del sognatore, rafforzando la sua convizione sul suo significato. In questo modo si promuove nel paziente la possibilità di poter far affidamento sulla propria esperienza, piuttosto che sulla rilettura interpretativa fornita dall’analista per comprendere il significato del sogno cosicché l’integrità e la coesione del Sé vengano facilitate. 

Un esempio, particolarmente significativo di questo processo ci viene offerto da un caso clinico descritto dall’autore: 

[...]presento un sogno che ritrae gli stati interiori in cambiamento del sognatore. La sognatrice, una donna che aveva allora trentanove anni, era molto intelligente ed era molto dotata nel pensiero per immagini. Era stata cresciuta come “bambina modello” e aveva dovuto congelare una gran parte della sua vita affettiva come risposta sia a due genitori di successo ed estremamente intrusivi (che le avevano già predestinato un rigido programma di vita) che ad alcuni episodi di abuso sessuale attuati da suo fratello e da un vicino. Al momento più acuto di un collasso nervoso con intensi terrori paranoici ed idee suicidarie, era stata ricoverata per un mese, dietro sua richiesta, per potersi confrontare con i suoi terrori in una situazione più contenuta e quindi più sicura. 

Il sogno venne presentato in tre parti. 

I. Un villaggio che si estende in alto e in basso sul fianco di una collina. La collina non ha un fianco ripido ma dolce e graduale, come fosse femminile. È inverno. Guardo in basso verso il villaggio come se fosse il plastico di un trenino. Ci sono gruppi di case vicine, nella neve. Guardo i tetti; sembrano vecchi libri in pelle appollaiati su ogni casa. Ci sono rotaie del treno che passano, zigzagando attraverso il villaggio, unificandolo e creando connessioni, facendone un tutto. Ci sono verdi foreste di conifere, strade, piazze, sentieri di campagna nascosti sotto la neve. Il paesaggio è calmo, pacifico, assai bello. So che io sono il villaggio e allo stesso tempo mi libro sopra di esso. È il paesaggio di me stessa. 

II. Una sensazione di paura. Vengo riempita da quella specie di terrore che mi ha mandato all’ospedale. È enorme, soverchiante, impossibile da gestire. È su tutta me, lo sento sulla mia pelle e dentro di me. Sono paralizzata dalla paura. Una paura antica, familiare. Il villaggio entra in uno stato in cui l’animazione viene sospesa. È gelato e immobile; non c'è alcun movimento. La me stessa che è il villaggio smette di sentire. Ho la sensazione familiare di una paura seguita da un’assenza di sentimenti. 

III. Il tempo è passato, come nel racconto della storia di Rip Van Winkle. Sembra come se fossero passati venti anni (ma so che è passato ancor più tempo). Il villaggio è rimasto in uno stato di animazione sospesa. Per tutto questo tempo sono vissuta senza sentimenti. Ed ecco arriva il disgelo; il villaggio torna alla vita. I cottage sono nello stesso posto ma sembra come se fossero stati spostati in nuove località. La relazione tra le rotaie del treno, il villaggio e i cottage sembra la stessa quando la guardo dall'alto, ma la «me» che è nel panorama si sente diversa. Sono disorientata ma non spaventata. Sono grata del fatto che il sonno gelido sia finito. Ci sono ghiaccioli che si stanno sciogliendo sotto le grondaie dei cottage e la luce cade con un’inclinazione diversa sul paesaggio. Al momento della fine del sogno sono soltanto nel paesaggio e non più sopra di esso. Sto trovando la mia strada attraverso territori non familiari. Il disgelo ha fatto sì che degli appezzamenti di terra siano apparsi da sotto la neve. Il paesaggio non è più incontaminato come era all’inizio del sogno (quando era un modello... una bambina modello), ma io mi sento ben radicata in esso; è molto più reale e pieno di vitalità.
Questo sogno ci parla. Ci narra la storia drammatica di una trasformazione psicologica in corso. Il sonno ventennale di Rip Van WinkIe era cominciato quando la sognatrice aveva diciannove anni, alle soglie dell'età adulta, per dirla con le sue parole, quando aveva incontrato il primo marito. Cresciuta come una bambina modello, era graziosa e femminile ed aveva raggiunto una certa pace interiore ma al costo di essere “gelida” e distante dalla sua stessa esperienza (“So che sono il villaggio ed allo stesso tempo mi libro sopra di esso”). Nell’analisi la paziente aveva ricominciato a prendere contatto con le emozioni, aveva incontrato il terrore e si era congelata per fermarlo. Poi gradualmente, man mano che aveva cominciato a comprendere ed a farsi strada attraverso la sua paura, aveva cominciato a sciogliere il suo gelo, ad esser più pienamente “all’interno” della sua esperienza, e a diventare più viva e vitale. La sognatrice, in una pregnante immaginazione onirica, è in grado di cogliere sentimenti, stati del sé e trasformazioni, ed è in grado di valutare e consolidare ulteriormente questi cambiamenti interiori.
(Fosshage, 2005, pp. 71-72).


1 Questa ipotesi è confermata, indirettamente, dagli studi sul sonno. Diverse ricerche (per una rassegna si veda: Lichtenberg, Lachmann, Fosshage, 1996) hanno mostrato come i sogni REM sono dominati da immagini legate a scenari più tipicamente affettivi. Invece, i sogni che si verificano negli stati non-REM sono dominati da processi secondari del pensiero, e quindi più vicini all’attività mentale che si svolge durante la veglia.

domenica 8 novembre 2015

Sándor Ferenczi: il terzo viaggiatore



Il viaggio del 1909 verso verso la Clark University di Worcester vedeva insieme a Freud e Jung, presi dalla loro vicariante interpretazione dei sogni, anche un terzo viaggiatore: Sándor Ferenczi. 

Ferenczi era un medico ungherese. Intraprese l’attività di psichiatra e lavorò in particolare con gli omosessuali (Bokanowski, 1997). Come psichiatra si era interessato all’ipnosi e ai meccanismi eziologici della nevrosi. Aveva letto le opere di Freud e Breuer sull’isteria, e anche L’Interpretazione dei sogni, ma non ritenne le idee di Freud eccezionali, fin quando non si avvicinò a Jung, grazie al suo interesse per i meccanismi di associazione sincronizzati. Jung invitò Ferenczi ad una rilettura dell’opera di Freud sul sogno, principalmente per l’interesse comune relativo ai fenomeni della rimozione, di cui Freud parlava nell’ultimo capitolo del suo lavoro.
Fu così che Ferenczi rivalutò l’opera e nel 1908 chiese un incontro a Freud (Bokanowski, 1997). Freud dimostrò interesse per il lavoro di Ferenczi e lo invitò al Primo Congresso di Psicoanalisi di Salisburgo. Alla conferenza parteciparono tra gli altri, Jung con il suo lavoro sulla dementia praecox, e Freud con la presentazione del caso clinico dell’uomo dei topi. Da quel momento in poi ebbe inizio una lunga collaborazione. 

Secondo Bokanowski (1997), Ferenczi partecipò durante il viaggio verso Worcester all’analisi dei sogni di Freud e Jung e alla fine del viaggio l’amicizia tra Freud e Ferenczi ne risultò rinsaldata – al contrario di quella tra Freud e Jung.
Tuttavia in un successivo viaggio in Italia sembrerebbe che Ferenczi si sia mostrato eccessivamente bisognoso e dipendente dall’approvazione di Freud, che associò la situazione alla precoce morte del padre di Ferenczi. Un altro episodio spiacevole tra i due riguarda le vicende sentimentali di Ferenczi, che s’invaghì prima di una donna sposata, poi della figlia di questa donna, che prese anche in analisi mettendo sé stesso e Freud in una posizione scomoda. 
 
Ferenczi, anticipò temi fondamentali quali l’introiezione, la scissione, e la frammentazione che verranno successivamente ripresi ed ampliati da Melanie Klein, di cui fu analista. Ferenczi analizzò anche Jones, sebbene questi, nella sua opera sulla vita di Freud, lo abbia accusato di instabilità emotiva (Jones, 1953). L’autore anticipò anche il concetto di oggetto transizionale, approfondito in seguito da Winnicott, e in generale i temi della relazione

Il sogno, per Ferenczi può essere considerato un ponte tra intrapsichico e intersoggettivo (Bolognini, 2000). Rispetto a questo tema, la grande innovazione dell’approccio di Ferenczi è data infatti dall’attenzione a temi meno “metapsicologici” o “topografici”, per focalizzarsi sul vissuto del paziente.
Ferenczi introduce anche dei cambiamenti fondamentali nella tecnica psicoanalitica, che tengono primariamente in considerazione l’analista in quanto persona che partecipa allo scambio con il paziente, e non più unicamente come schermo speculare attraverso cui si analizza soltanto il materiale proveniente dal paziente (Ferenczi, Rank, 1924). Queste innovazioni costeranno a Ferenczi l’esclusione dalla Società Psicoanalitica Viennese. 

Il sogno come elemento psichico dotato di senso psicodinamico, viene preso in considerazione da Ferenczi intorno al 1909. In quell’anno l’autore pubblica L’interpretazione scientifica dei sogni, un saggio in cui prende in esame, a partire dall’idea freudiana di sogno come elemento dotato di significato e appagamento di un desiderio represso, una serie di sogni di alcuni suoi pazienti, di cui analizza il significato. In quegli stessi anni anche Jung scrisse un lavoro analogo (L’analisi dei sogni), probabilmente questi scritti avevano lo scopo di divulgare la teoria freudiana nei paesi d’origine dei due autori

Nel lavoro del 1909 Ferenczi riporta gli elementi di base della teoria freudiana del sogno, quindi indica alcuni simboli: la serratura come simbolo della masturbazione femminile, l’armadio come simbolo dei genitali femminili, cadere dall’alto come declino etico o materiale, il corpo umano come una casa, sparare come atto del coito.
A tale proposito Ferenczi ripete la raccomandazione di Freud sull’uso delle libere associazioni e del simbolismo nell’interpretazione: non è possibile rifarsi ad un “libretto dei sogni” in cui trovare subito la spiegazione per ogni piccolo frammento, ma bisogna indagare il significato dei simboli mediante la collaborazione nelle associazioni con il paziente. 
Ferenczi a differenza di Freud – che utilizzò i propri sogni nell’esposizione della Traumdeutung – parte dall’analisi dei sogni dei propri pazienti, e non indugia nell’autoanalisi – perlomeno non pubblicamente – nonostante la ritenga un esercizio indispensabile per chiunque voglia studiare i processi inconsci. 
 
Dall’analisi dei sogni dei pazienti nevrotici Ferenczi ricava una conoscenza circa “il significato patologico e terapeutico dei sogni e della loro interpretazione” (Ferenczi, 1909, p. 58).
Secondo Ferenczi l’analisi di un soggetto nevrotico può essere accelerata da una felice analisi dei sogni. Mediante il sogno infatti possono essere scoperti “complessi” che nelle libere associazioni della veglia potrebbero restare inconsci a causa del regime più alto della censura durante il giorno.
Il sogno può essere in questo modo osservato come una via breve alla scoperta del sintomo nevrotico, che se portato alla consapevolezza può accorciare il percorso verso la guarigione.
Ferenczi propone anche la possibilità, accennata da Freud, di una significatività diagnostica dei sogni che vede realizzata in una futura “psicologia patologica del sogno che tratti sistematicamente le particolarità della formazione onirica nei casi di isteria, nevrosi ossessiva, paranoia, dementia praecox, nevrastenia, nevrosi d’angoscia, alcolismo, epilessia, paralisi, deficienza mentale ecc.” (Ferenczi, 1909, p. 58). 

L’autore dà anche qualche indicazione circa il rapporto tra paziente e analista con il sogno: l’analista non è soltanto un “catalizzatore”, ma un “motivo scatenante” del sogno (Ferenczi, 1909, p. 103). Il sogno infatti nasce dall’interazione tra paziente e analista e torna dal luogo in cui ha avuto origine. In questo senso Ferenczi sembrerebbe accennare al sogno di transfert.
Il contenuto onirico per Ferenczi ha valore non tanto per il suo contenuto, quanto per la qualità umorale e atmosferica che determina. In questo caso Ferenczi intende dire che il sogno dà informazioni fondamentali sulla modalità di funzionamento psicologico del soggetto all’interno di una situazione relazionale che ha determinato il sogno stesso. Ciò è molto evidente in Ferenczi che dà al sogno una valenza traumatolitica.
Il concetto di “traumatolico” (Ferenczi, annotazione del 23 marzo 1931) esprime una ulteriore differenziazione teorica di Ferenczi da Freud. Il significato del sogno, per Freud, riguarda la soddisfazione di un desiderio rimosso. Ferenczi invece rileva che nel sogno è possibile osservare la presenza di elementi sintomatici relativi a traumi vissuti nel passato. Il sogno viene in questo senso concepito da Ferenczi come traumatolitico, ovvero come elemento che costituisce un tentativo di soluzione dell’evento traumatico. 
Nel lavoro onirico l’obiettivo perseguito dall’analista è quindi quello di ripetere mediante l’analisi del sogno la passività che il soggetto ha sperimentato durante l’evento traumatico. Il fine terapeutico dell’analisi del sogno è quello di rendere accessibili le impressioni sensoriali. Ma l’interpretazione del sogno è solo un aspetto formale del lavoro analitico, poiché ciò che è considerato indispensabile è che il paziente riesca a rivivere affettivamente le emozioni, per poterle elaborare.
Ferenczi ritiene infatti che il focalizzarsi sull’eccessiva consapevolezza sia una resistenza all’analisi. 

Ferenczi postula l’esistenza di due possibilità per il sogno: nella prima si vive un’esperienza puramente emotiva, ovvero priva di contenuti ideativi (ciò è definito sogno primario), nella seconda (sogno secondario, sogno di deformazione) il trauma può giungere ad una soluzione. Il sogno secondario viene infatti deformato in senso ottimistico per poter accedere alla coscienza.
Borgogno (2000) spiega la funzione traumatolitica del sogno in questi termini
“La Traumdeutung di Freud è subito per Ferenczi una sorta di Traume-deutung, dove ciò che è traumatico è la quota di dolore presente in un’esperienza psichica che il paziente può aver registrato senza avere tuttavia gli strumenti adatti per riuscire a metabolizzarla. La funzione ‘traumatolitica’ dei sogni è di riproporre un’esperienza eccessivamente dolorosa nel tentativo di darne creativamente una soluzione migliore: una ripetizione che non è puramente istintuale, ma dell’Io, per questo sforzo di modificare la sofferenza in modo più economico e più vantaggioso. Tale punto di vista sarà prevalente nei suoi ultimi lavori laddove Ferenczi sottolineerà che la censura, nell’imporre una distorsione, “valuta sia l’entità del danno che la misura in cui l’individuo può sopportarlo, e ammette alla percezione solo quel tanto di forma e contenuto del sogno che risulta tollerabile, presentandolo, ove necessario, come adempimento di un desiderio (1931, in 1920-1932, p. 187)” (pp. 85-86). Il sogno è per Ferenczi soprattutto comunicazione della realtà psichica del paziente (Borgogno, 1997). Il sogno infatti risulterà incomprensibile se slegato da tale realtà. 

Le potenzialità del sogno sono quindi quelle di offrire al paziente la possibilità di narrare e integrare la propria storia nell’ambito dell’incontro con l’analista: feeling is believing - sentire è credere (Ferenczi, 1913).
I sogni per Ferenczi non riguardano soltanto un’espressione simbolica di tendenze inconsapevoli, ma il tentativo di working-throught di eventi attuali, i cui resti diurni, chiamati da Ferenczi (1934) “resti di vita” riguardano nello specifico l’analista in quanto egli è in grado di rianimarli. Spesso, infatti, le persone che giungono in analisi hanno bisogno di ritrovare il contatto con gli affetti, e la loro vita relazionale è impoverita a causa di una mancanza di contatto con le emozioni che hanno isolato (Borgogno, 1998).
In questo senso Borgogno (1997), scorge in Ferenczi il germe di una psicoanalisi volta all’intersoggettività. Ferenczi esprime la sua opinione sull’importanza della relazione terapeutica affermando: “si può guarire con tutte le tecniche possibili: con interpretazioni tanto paterne quanto materne, con spiegazioni teoriche, mettendo in rilievo la situazione analitica, e finanche con la vecchia, buona suggestione e l’ipnosi” (Ferenczi, 1926, p. 383); per il suo approccio alla relazione e la sua considerazione del mondo interno, verrà considerato un capostipite degli indipendenti britannici. 

Esempi di analisi di sogni:

Il sogno del “poppante sapiente” (1923)
Spesso i pazienti raccontano sogni in cui dei neonati o bambini piccolissimi o addirittura in fasce, sono in grado di scrivere con perfetto agio, di regalare a chi è a loro vicino parole profonde, di sostenere conversazioni colte, di tenere discorsi e così via. Il contenuto di questi sogni, sembra nascondere qualcosa di caratteristico. Una prima interpretazione superficiale del sogno fa venire fuori un concetto ironico della psicoanalisi, che, come si sa bene, dà più valore ed effetto psichico al vissuto della prima infanzia di quanto non si faccia abitualmente. Questa esagerazione ironica dell’intelligenza del bambino, non farebbe altro che esprimere chiaramente il dubbio sulle comunicazioni psicoanalitiche a questo proposito. Ma poiché fenomeni simili sono molto frequenti nei racconti, nei miti e nella tradizione religiosa, e sono spesso rappresentati concretamente nella pittura (il dibattito della Vergine Maria con i dottori
della Legge), credo che l’ironia qui agisca unicamente da intermediario per evocare ricordi più profondi e più gravi dell’infanzia del soggetto. Il desiderio di divenire sapiente e di superare i “grandi” in saggezza e conoscenza non sarebbe altro che un capovolgimento della situazione in cui si trova il bambino. Una parte dei sogni che rappresentano questo contenuto manifesto e che io ho potuto studiare sono illustrati dalla celebre frase del libertino: “Se soltanto avessi saputo fare un uso migliore dell’allattamento!”. Infine non dimentichiamo che un buon numero di conoscenze sono effettivamente ancora familiari al bambino, conoscenze che in seguito saranno sepolte dalla forza della rimozione. (Ferenczi, 1923 in Bokanowski, 1997, pp. 102-103). 

Scambio di emozioni nel sogno
Un signore di una certa età fu svegliato durante la notte da sua moglie, preoccupata di sentirlo ridere così smodatamente durante il sonno. Il marito le raccontò di aver fatto un sogno: “Ero a letto; un uomo che conoscevo è entrato in camera; ho cercato di accendere la luce, ma non riuscivo ad arrivarci; provavo e riprovavo, ma invano. Anche mia moglie si era alzata dal letto per venirmi in aiuto, ma neppure lei era riuscita a concludere qualcosa; così vergognandosi di trovarsi in camicia da notte alla presenza di questo signore, aveva finito per rinunciarci ed era tornata a letto. Tutto ciò era così comico che sono stato preso da riso irrefrenabile, mentre mia moglie continuava a ripetermi: “Ma perchè ridi così, cosa c’è da ridere?”. Io non riuscivo a smettere fino a quando lei non mi aveva svegliato”. L’indomani il sognatore era estremamente abbattuto e soffriva di un terribile mal di testa. “Sono state quelle risate incredibili che mi hanno sfinito”, diceva. Dal punto di vista analitico questo sogno sembra molto meno divertente. Il “signore di sua conoscenza” che era entrato, è nel pensiero latente del sogno “l’immagine della morte, evocata la sera precedente sotto il nome di ‘grande sconosciuto’”. Il vecchio signore che soffriva di arteriosclerosi aveva avuto la sera precedente occasione di pensare alla sua morte. Le risate irrefrenabili sostituiscono le lacrime e i singhiozzi all’idea che egli debba morire. La lampada che non riesce ad accendere è la lampada della vita. Questo triste pensiero è in rapporto a un recente tentativo di coito non coronato da successo in cui anche l’aiuto di sua moglie in camicia da notte non era stato di alcun aiuto; allora ha preso coscienza del fatto che ormai era sulla china discendente. Il sogno è riuscito a trasformare quel triste pensiero dell’impotenza e della morte in una scena comica e i singhiozzi in riso. Ugualmente si incontrano scambi di emozioni e scambi di gesti di espressione nelle nevrosi, oltreché nel corso dell’analisi sotto forma di “sintomi transitori”.
(Ferenczi, 1916, pp. 95-96). 

Come è possibile osservare dall’analisi di questi sogni, il modo di procedere di Ferenczi all’interpretazione è differente rispetto a quello freudiano. Esso si avvicina di più invece alle modalità suggerite da Jung e Rank. Ferenczi non suddivide minuziosamente il sogno nelle sue piccole componenti, ma lo considera nella sua interezza. Le associazioni e le informazioni che vengono fornite dal paziente, inoltre sono usate oltre che per essere esplorate, per confermare un significato attribuito, dunque l’attendibilità di un’interpretazione.

Il sogno è definito da Ferenczi memoria stratificata in movimento dinamico. Esso riguarda il presente e la ricerca di un Io vivibile, mediante l’esperienza dell’interazione psicoanalitica (Borgogno, 2000).
Esso è una comunicazione essenziale del paziente e può racchiudere in sé elementi fondamentali rispetto a ciò che viene “non detto” (verbalizzato). Mediante il sogno c’è la possibilità che questo materiale emerga in forma “sensoriale”.
Tutto ciò riveste un grosso valore nel momento dell’incontro tra paziente e analista, poiché, per Ferenczi, è esattamente questo il genere di materiale che costituisce un’analisi “riuscita”. 

Qui Ferenczi fa riferimento ad un approccio basato su un'evoluzione del concetto che Freud chiamava abreazione. Propone cioè un approccio leggermente diverso e quanto mai attuale del transfert: la possibilità di sperimentare emotivamente i contenuti traumatici in un contesto di ripetizione protetto. Secondo Ferenczi, infatti i sogni vengono raccontati alla persona a cui si riferisce il contenuto latente. Nello specifico, la persona dell’analista. L’analista è la sorgente esogena del sogno: il paziente registra tutti i movimenti inconsci dell’analista e li ripropone nel sogno. Un esempio evidente di questo processo è il caso di una paziente di Otto Rank, citata da Ferenczi (1926, p. 381): la paziente di Rank fotografa prontamente il narcisismo del suo analista nel volerle proporre, circa l’interpretazione di un sogno, la propria teoria sulla nascita. 
L’analista deve invece, nella relazione con il paziente, avere tatto nel proporre le sue interpretazioni, in modo che queste possano essere “digeribili” (Borgogno, 2000). Inoltre è necessario, secondo Ferenczi, mantenere un ascolto attento e profondo sul contenuto del sogno, volto ad una comprensione dei contenuti effettivamente affidati dal paziente all’analista; più che concentrarsi sul compito di trovare una conferma narcisistica della propria teoria o modello. E’ immediata, in questo senso, la sensazione che si riceve, dalla lettura delle opere di Ferenzi, di vivacità ed attualità nel modo di lavorare con i pazienti, nello specifico in relazione ai sogni.
L’importanza dell’evoluzione teorica del pensiero di Ferenczi ci viene confermata anche dall’unico passo indietro operato da Freud (1920) nella sua definizione di sogno: ovvero quello relativo alla possibilità che il sogno possa riguardare, oltre che l’appagamento di un desiderio rimosso, anche i contenuti traumatici

E’ possibile che l’attenzione sull’aspetto del trauma abbia fatto seguito agli avvenimenti storici che anche la psicoanalisi come disciplina, nella sua evoluzione, ha vissuto direttamente sulla propria pelle: ci riferiamo alle brutture della prima guerra mondiale; le discriminazioni razziali e i molti soldati e civili morti e feriti in guerra.
Questi eventi hanno sicuramente messo in evidenza l’urgenza di contenuti conflittuali che avevano a che fare più con la realtà, così come indica acutamente Ferenczi, rispetto alla considerazione di contenuti più strettamente intrapsichici, relativi all’infanzia e allo sviluppo di un funzionamento psicologico peculiare in adattamento – in maniera più circoscritta – alle circostanze familiari

Ferenczi in questo senso parla di frammentazione e nello specifico di scissione
La scissione non è prerogativa del sognatore, perchè è l’ambiente ad aver contribuito a determinarla e a continuare a favorirla impedendo agli eventi traumatici di essere rivissuti (Borgogno, 2000). Il sogno che per Ferenczi è memoria sepolta o revenants relativa anche alla propria storia familiare, è invece l’accadimento psichico principale in cui si determina la dissociazione: Ferenczi ne parla come di morte psichica e affettiva, in cui il contatto umano con l’esperienza traumatica è allontanato per mezzo di difese autistiche estreme (Borgogno, 2000). Come risposta a queste formazioni psichiche di blocco, Ferenczi propone un maggior calore e una maggiore partecipazione da parte dell’analista, così come una maggiore fiducia nella “reversibilità dei processi psichici” (1932, p. 279). 
Nella nota del 10 agosto 1930 Ferenczi indica come la dissociazione si manifesta nel paziente: dalla sensazione di aver reciso o perduto la testa, alla vertigine, dall'essere travolti da un ciclone, alla proiezione su oggetti non umani. La scissione è descritta invece come una lacerazione subita. 

Secondo Borgogno (2000) l’analisi deve offrire un contenitore al sognatore in modo da poterlo scongelare, farlo rientrare nella sua pelle, superare la passività e l’anestesia. L’analista deve accogliere la regressione del paziente e assumersi la responsabilità del suo dolore psichico, aumentando l’ascolto e il coinvolgimento e indossando i suoi stessi panni prima di lui (Borgogno, 2000). Egli deve credere alle percezioni del sogno del paziente ed esplorarle soprattutto emotivamente. In questo modo, si consentirà al paziente di risperimentare il trauma, e trovare quindi una connotazione più consona a tale vissuto nel bagaglio della propria esperienza di vita. 

Per Ferenczi in tal senso, l’analista si pone “alla pari” del paziente e non in posizione gerarchica (superiore). Il suo ruolo consiste nell’avvicinare il paziente con sensibilità e rispetto, e discernere tra le identificazioni portate dal paziente. 
Sugli elementi della personalità del paziente in relazione “a chi sta parlando” dentro di lui, si può ravvisare anche un’anticipazione dei temi cari ai teorici delle relazioni oggettuali: l’introiezione e proiezione nella costruzione dell’identità (Borgogno, 2000). 

I temi introdotti da Ferenczi anticipano i paradigmi teorici di molti autori a venire. I limiti del suo approccio appaiono sostanzialmente legati alle sue stesse questioni irrisolte: nella mutua analisi forse Ferenczi cercava un appoggio per sé stesso e una risoluzione ai conflitti di dipendenza che rimanevano aperti in lui. 
Tale richiesta non venne esaudita da Freud in seguito alla richiesta di aiuto personale di Ferenczi

venerdì 13 febbraio 2015

Il caso clinico di Connie - di Stephen Mitchell: relazionalità e attaccamento nel trattamento psicoanalitico

 
A questo punto dell’evoluzione delle idee psicologiche,
la teoria dell’attaccamento e quella psicoanalitica,
anziché fornire percorsi alternativi, ci offrono la straordinaria possibilità
di una convergenza che porta ricchezza ad entrambi i modelli.
(Mitchell, 2000)

 Stephen Mitchell in un dipinto di Philip Ringstrom fonte: http://www.iarpp.net/resources/enews/vol11no1/index.html

E' stato recentemente pubblicato l'interessante volume di Morris Eagle "Attaccamento e psicoanalisi-Teoria, ricerca e implicazioni cliniche" (Raffaello Cortina, 2013). Il libro, si pone sulla scia della riflessione teorica più recente a proposito delle implicazioni cliniche della teoria dell'attaccamento (Bowlby, 1969, 1973, 1980).
Nel 2002, Peter Fonagy aveva pubblicato un libro dall'analogo titolo; "Psicoanalisi e teoria dell'attaccamento". Il libro ha trovato una tiepida accoglienza tra i ricercatori e gli psicoanalisti. La tradizione teorica dell'attaccamento così come quella di ricerca e quella psicoanalitica, sono considerate come appartenenti ad ambiti differenti.
Nel 2003 Fonagy annovera nel suo "Psicopatologia evolutiva" (il cui titolo originale è "Psychoanalytic theories, perspective from developmental psychopathology") il Modello della teoria dell'attaccamento di Bowlby tra le teorie psicoanalitiche considerate alla luce del processo evolutivo.
Un argomento di dibattito riguarda la possibilità di considerare la teoria dell'attaccamento nell'ambito del trattamento psicoterapeutico, e in particolare, psicoanalitico.
Il libro di Eagle, in tal senso, consente di riflettere a proposito del rapporto tra teoria dell'attaccamento e psicoanalisi, vagliando le aree di possibile contatto. Ciò che rende particolarmente interessante lo sforzo di Eagle è il fatto che l'autore considera oltre alla teoria psicoanalitica "classica" cioè pulsionale, gli approcci più recenti della psicoanalisi relazionale.
Una differenziazione spesso sottolineata riguarda infatti ciò che è considerato psicologia empirica, psicoterapia e psicoanalisi. Tale differenziazione riguarda nello specifico le differenti tradizioni d'origine a cui questi ambiti fanno capo. E' tuttavia ormai estremamente diffusa l'abitudine a fare riferimento a più livelli di considerazione (outcome, descrizioni cliniche, etc.) alla teoria dell'attaccamento.
In una recente ricerca Mikulincer, Shaver, Avihou-Kanza (2011), hanno proposto un approccio multidisciplinare allo studio delle narrative del sogno. Gli autori hanno associato lo studio sul materiale onirico mediante il metodo CCRT alle dimensioni di ansietà ed evitamento dell’attaccamento adulto. I risultati del CCRT hanno mostrato – in linea con la teoria dell’attaccamento – che W caratterizzate da ricerca di vicinanza, e RO e RS negative erano correlate ad ansietà, mentre W caratterizzati da distanziamento e RO negative erano correlate all’evitamento.
Uno degli obiettivi di questa ricerca era, oltre alla validazione empirica dell’indagine sui sogni come materiale informativo e utile ai fini della valutazione delle dinamiche relazionali, quello di trovare una corrispondenza tra una misura self-report dell’attaccamento e “marker motivazionali e cognitivi dell’insicurezza dell’attaccamento nelle narrative dei sogni” (Mikulincer, Shaver, Avihou-Kanza, 2011, p. 115), in relazione alla possibilità di collegare un aspetto “conscio” (ibidem) – quello del comportamento di attaccamento – con una misura “meno conscia” (ibidem) ovvero psicodinamicamente orientata come quella delle categorie derivate dagli autori dal metodo CCRT. Gli autori hanno affermato che: "I sogni possono contribuire significativamente alla comprensione di sé e al dialogo tra paziente e terapeuta" (Mikulincer, Shaver, Avihou-Kanza, 2011, p. 119).
Recentemente (2013) è stato pubblicato il volume di Beebe e Lachmann “The origins of Attachmnent. Infant research and Adult Treatment”. Il testo sembra indagare, come suggerisce il titolo, le origini dell’attaccamento nelle prime interazioni faccia a faccia madre-bambino.  La creazione di un modello psicoanalitico basato sulle interazioni reali e le successive applicazioni di questa teoria al trattamento adulto (regolazione interattiva/attenzione al contesto, microinterazioni non verbali, modelli di psicoterapia basati sull’attivazione fisiologica, principi di salienza, disconferma delle aspettative negative, regolazione attesa, rottura e riparazione, momenti affettivi intensi) era già stato proposto dagli stessi autori nel 2002, nel testo “Infant Research e Trattamento degli adulti”.

Un tributo personale a Mitchell. Sulla mia specchiera, due carte M&M's e Orfeo Milka, e una foto della mia città natale.

Il caso clinico di Connie (Mitchell, 2000).
Mitchell utilizza il caso di Connie per descrivere come le problematiche dell'attaccamento si rivelano a diversi livelli nella relazionalità per fornire una cornice entro cui pensare la matrice interattiva che si delinea nel processo psicoanalitico. "Da quando Bowlby ha presentato la sua rivoluzionaria teoria dell'attaccamento sono state introdotte ed elaborate altre prospettive relazionali centrate sulla permeabilità affettiva, sulle configurazioni di sé e oggetto e sull'intersoggettività (...) Tali sviluppi suggeriscono che questo è un momento particolarmente appropriato per esplorare le convergenze tra psicoanalisi e teoria dell'attaccamento". (Mitchell, 2000, p. 102). 
Connie richiede una terapia a causa di un persistente senso di tristezza, per la mancata elaborazione del lutto per la morte della madre. Suo padre che dopo l'evento la mandò in collegio, era un uomo provato e fragile a cui lei non doveva far pesare i suoi bisogni.
In secondo luogo sentiva che c'era qualcosa di diverso in lei, che le altre persone avevano ma che a lei mancava. Le sembrava che gli altri avessero un "Sé" ovvero un senso di chi sono e delle radici solide. Connie era sposata e aveva avuto un figlio. Il bambino presentava problemi di separazione. 
Connie sentiva con grande intensità e vergogna che il figlio era parte di lei: l'esperienza della gravidanza, aveva riattivato in lei ricordi relativi alla perdita della madre, in quanto perdita di parti di se stessa. Diventando madre, sperava di ritrovare la madre e le parti perse di se stessa. La perdita di Connie riguardava infatti non solo la madre, ma se stessa e tutto il suo mondo infantile. La gravidanza riempiva quel vuoto. Secondo Loewald, non siamo separati dagli altri significativi, ma co-creiamo esperienze emotive intense e condividiamo tali emozioni in modi che non corrispondono alle categorie discrete sé-altro e interno-esterno (permeabilità affettiva). Afferma Mitchell: "i residui delle esperienze di attaccamento (...) non includono solo modelli cognitivi del mondo interpersonale, ma anche stati affettivi di connessione indifferenziata con le figure di attaccamento organizzati intorno ad affetti positivi come l'euforia o la calma tranquillizzante, e attorno ad affetti negativi come la depressione, l'angoscia o il terrore. In questa visione, ciò che Connie ha bisogno di raggiungere nel corso dell'analisi non è una separazione netta da sua madre e da suo figlio, ma una maggiore capacità di contenere esperienze diverse, sia di unione con loro sia di differenziazione da loro". L'attaccamento all'assenza della madre costituiva di fatto il senso del Sé centrale per Connie. La continua elaborazione inconscia del lutto della madre serviva a mantenere il legame con lei, e con l'unica parte di se stessa di cui era a conoscenza. Il dolore definiva chi era, ovvero tutto ciò che conosceva di se. In mancanza di una figura di attaccamento sicura il suo sentire prendeva il posto di un punto di riferimento umano. L'attaccamento all'assenza era anche una bussola per orientarsi rispetto a quello che poteva aspettarsi dal mondo, e il modo in cui le relazioni avrebbero funzionato. 
Mitchell avverte che qualcosa nelle esperienze presenti di Connie rigeneravano la sua tristezza, qualcosa a cui stava rinunciando nel presente e che aveva perduto nel passato. Mitchell iniziò a parlare con Connie di cibo, perchè tra i suoi argomenti preferiti. Connie era salutista e mangiava molte verdure. Si concedeva però un pacchetto di M&M's ogni pomeriggio. Mitchell preferiva le Milky-Ways. Connie iniziò a riflettere su come con la morte della madre aveva perso una figura che si occupasse della sua alimentazione, come lei faceva ora con il figlio. In effetti lei mangiava inizialmente tutto quello che le sembrava ragionevole, ma poi finiva per concedersi tutto ciò che le capitava a portata di mano: non c'era nessuno che badasse alle ripercussioni sulla sua salute.
Connie non aveva mai fatto esperienza del preoccuparsi della sua salute e della sua sicurezza, non poteva concedersi di lasciarsi andare al desiderio e al piacere facendo affidamento sul fatto che qualcun altro avrebbe supervisionato il suo comportamento. Connie aveva dovuto svolgere da sola il ruolo di caregiver di se stessa. Ciò aveva generato in lei un senso cronico di tristezza e mancanza.
L'approccio di Connie alla cioccolata era prototipico del modo di organizzare le sue relazioni: immaginava quello che poteva avere e poi desiderava le cose che non superavano quei limiti. Con il marito, un uomo incapace di grande intimità aveva imparato che per sopravvivere doveva adattarsi a quanto era disponibile e non avanzare alcuna richiesta.
Bowlby suggerisce che nel contesto di un attaccamento sicuro è possibile utilizzare una base per esplorare il mondo. L'attaccamento nel contesto terapeutico tra Mitchell e Connie, le permise di esplorare il mondo interno ed esterno delle sue preferenze personali, i suoi desideri e i suoi impulsi. Se tale tipo di attaccamento manca, il bambino impara precocemente a svolgere da solo tale funzione, a un costo elevato: l'opportunità di abbandonarsi alla propria esperienza.
L'esperienza di attaccamento terapeutica aveva consentito a Connie di vivere qualcosa che le era mancato durante l'infanzia: la possibilità di abbandonarsi; l'assenza era stata rimpiazzata dalla presenza coerente di Mitchell, che consentiva la sua nascita: "La mente è in realtà transpersonale e contestuale ed emerge nelle interazioni con altre menti" (Mitchell, 2000, p. 111).
Il problema della spendibilità clinica della teoria dell’attaccamento sembra riguardare maggiormente i rapporti relativi alle rispettive tradizioni teoriche di riferimento, che un'effettiva incompatibilità tra di loro.
L’attaccamento svolge un ruolo centrale come dispositivo motivazionale biologico che spinge alla ricerca di sicurezza. John Kerr ha fatto riferimento in una comunicazione personale alla stanza d’analisi come metafora della Strange Situation (Mitchell, 2000). Considerare la teoria dell’attaccamento da un punto di vista strettamente “empirico” ne riduce il raggio d’azione potenziale. Un esempio paradigmatico analogo in tal senso è il comportamento sessuale.
Mitchell fornisce un elegante esempio di come possiamo utilizzare oggi la teoria dell’attaccamento all'interno della cornice concettuale della psicoanalisi relazionale.
Per rendere possibile l'integrazione tra teoria dell'attaccamento e psicoanalisi, forse sarebbe utile capire di quale psicoanalisi si parla, e ridefinire allo stesso modo il concetto di attaccamento.
La domanda che permane pertanto sembra piuttosto: quale esigenza teorica sottende la necessità di mantenere questa differenza?

mercoledì 17 dicembre 2014

Lo sviluppo dell'Io nelle identificazioni di gruppo (radici teoriche in Freud, 1921)


“Se ricevo il gesto di tenerezza nella sfera della domanda, io sono appagato: 
quel gesto non è forse come un miracoloso condensato della presenza? 
Ma se invece lo ricevo (e ciò può essere simultaneo) nella sfera del desiderio, 
io sono inquieto: la tenerezza, a buon diritto, non è esclusiva; 
io devo perciò ammettere che ciò che ricevo, anche altri lo ricevono 
(talvolta mi è anzi dato di vederlo). 
Dove ti dimostri tenero, là individui il tuo plurale”
 (Barthes, 1977, Frammenti di un discorso amoroso)

Skins, la serie inglese culto è andata in onda la prima volta il 25 gennaio 2007 sul canale E4.

Nell’opera Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), Freud affronta il problema della relazione dell’individuo sia con l’Altro che all’interno del gruppo e della società. Freud afferma che l’Altro è sempre un “modello, un oggetto, amico o nemico” e definisce la natura della relazione oggettuale in contrapposizione ai fenomeni narcisistici che vengono realizzati indipendentemente da altre persone.
Freud affronta il tema della relazione gruppale: “Un gruppo si presenta come un insieme d’individui che hanno tutti sostituito il loro ideale dell’Io con lo stesso oggetto, il che porta all’identificazione del proprio Io”. Il gruppo può essere fondato secondo l’autore dalla mancanza d’indipendenza e iniziativa da parte dell’individuo. Freud cita Trotter (1916) che fa derivare i fenomeni psichici della massa da un istinto gregario, innato negli uomini e negli animali. Questo tipo d’istinto è in relazione alla pluricellularità e alla teoria della libido; esso è primario e indecomponibile. L’individuo si sente incompleto quando è solo, il contrasto con il gruppo equivale alla separazione da esso e ciò viene per questo motivo evitato. Per Trotter gli istinti primari sono: conservazione, nutrizione, istinto sessuale e gregario. Quest’ultimo può essere in contrasto con gli altri. La rimozione in tale contesto deriva dal senso di colpa che consente la possibilità di aggregazione (al contrario dell’antisocialità). L’istinto gregario tuttavia non è primario quanto l’istinto di conservazione e l’istinto sessuale. L’istinto di conservazione potrebbe essere uno spunto su cui riflettere ulteriormente: in cosa consiste di fatto? La paura che il bambino prova quando è solo per Freud  (1921) è desiderio insoddisfatto della madre che diventa angoscia. Essa non si calma con l’apparizione di un qualunque uomo, anzi può essere provocata dall’apparizione di un estraneo. 

Queste descrizioni ricordano molto la teoria bowlbiana dell’attaccamento (Bowlby, 1969, 1973, 1980). Il bambino però secondo Freud (1921) nasce privo di tale istinto; esso si crea nella nursery come effetto del rapporto con i genitori e come risultato della gelosia verso il fratello minore. Tale gelosia, una volta superata andrebbe secondo l’autore a creare il senso di comunità. Lo spirito di gruppo deriva pertanto dal superamento della gelosia. La socialità pertanto riguarda la trasformazione di un sentimento ostile in un “attaccamento positivo”, ovverosia in un’identificazione.

Freud (1921) in questo caso corregge l’affermazione di Trotter (1916) circa l’uomo come animale gregario, esso è invece un animale di un’orda, cioè un elemento costitutivo di un’orda guidata da un capo. Per Freud (1921) si distingue quindi una psicologia individuale e una di gruppo. Il capo del gruppo è libero, ha pensiero proprio forte e indipendente, la sua volontà non ha bisogno di essere rafforzata da quella degli altri. Egli è simile al Superuomo di Nietzsche (1883).
Come si sviluppa l’Io nelle identificazioni con il gruppo e in relazione ad un capo potente? L’individuo può ottenere diverse identificazioni in relazione a vari gruppi di cui fa parte, inoltre la rinuncia dell’ideale dell’Io in relazione all’ideale collettivo non è uguale in tutti i casi: tale scissione talvolta può coesistere, insieme al narcisismo conservato del soggetto. Per alcuni l’istinto gregario deriva dall’incarnazione del capo del proprio ideale dell’Io, mentre per altri, per i quali tale incarnazione non è completa, l’aggregazione avviene per identificazioni o mediante la suggestione. In questo passaggio dello sviluppo dell’Io rispetto al gruppo di Freud, possiamo rintracciare alcuni meccanismi di formazione della personalità secondo identificazioni veicolate dal gruppo, che verranno poi ampiamente descritte da Erickson (1982) nella disamina sulla formazione dell’identità in adolescenza. Freud spiega che il differenziarsi nel gruppo può produrre una difficoltà nel funzionamento psichico; causarne arresto o malattia. La separazione dell’Io dall’ideale dell’Io, non può durare a lungo senza generare uno scompenso. Quando Io e ideale dell’Io coincidono si ha sensazione di trionfo, quando sono in tensione, emerge il senso di colpa e di inferiorità. L’amore respinto ad esempio, diventa malinconia nel soggetto perché i rimproveri rivolti all’oggetto abbandonato ricadono sul .
Il bambino secondo Freud si lega agli altri mediante la deviazione della pulsione sessuale, che è l’unica reale spinta al legame. La tenerezza e l’attaccamento affettivo derivano pertanto dalla rimozione della pulsione sessuale. Le tendenze sessuali secondo Freud sono contrarie all’istinto gregario. Queste affermazioni di fatto sembrano essere spiegate più esaustivamente dalla concezione della motivazione complessa all’attaccamento di Lichtenberg (2012), ma possono essere apprezzate in quanto rivelano un Freud paradossalmente “relazionale”.

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