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martedì 17 giugno 2014

Philip Bromberg: il sogno come esperienza dissociativa


La grande onda di Kanagawa (神奈川沖浪裏 Kanagawa Oki Nami Ura?, lett. Sotto un'onda di Kanagawa) è una xilografia, in stile ukiyo-e, del pittore giapponese Hokusai (1760-1849). E' la prima e la più celebre tra quelle che compongono la serie intitolata 36 vedute del Monte Fuji. È stata pubblicata la prima volta nel 1832.


Trauma e dissociazione sono concetti che hanno avuto un destino psicoanalitico controverso, un destino caratterizzato da flussi e riflussi di interesse teorico e clinico. Il concetto di trauma ha infatti accompagnato la nascita e lo sviluppo del pensiero psicoanalitico.
A differenza del concetto di dissociazione, esso ha continuato a restare al centro delle riflessioni teoriche di analisti diversi. Freud (1914), anche dopo aver abbandonato la teoria della seduzione – concludendo che, se era vero che le isteriche riconducevano i loro sintomi a traumi inventati, “la novità consiste appunto nel fatto che [...] creano tali scene nella loro fantasia” (p. 391) – mantenne due distinti modelli del trauma: come esito di uno stato affettivo insostenibile, e come esito dell’affiorare di un’idea o fantasia inaccettabile (Krystal, 1988). Successivamente Freud (1926), nel tentativo di conciliare queste due visioni, descrisse il trauma come uno stato in cui l’Io si trova indifeso davanti al montare di pressioni pulsionali, siano esse di natura esterna o interna.

E’ quindi grazie agli autori delle relazioni oggettuali (Winnicott, Khan, etc.) che si assiste ad un recupero dell’importanza del concetto di “trauma ambientale” e dell’idea che non sia tanto il trauma o gli affetti scatenati da esso ad avere potenzialità disturbanti, ma l’impossibilità che questi vengano gestiti e regolati nella relazione con l’oggetto.

Come scrivono Stolorow e Atwood (1992) “dolore e patologia sono due cose diverse” (p. 63). Balint (1969) sottolineava come avesse importanza non l’evento in sé, quanto l’assenza di risposte di contenimento e sollievo alle reazioni dolorose al trauma. E’ in tale assenza che si configura la fonte reale degli stati traumatici e della psicopatologia. Questo concetto veniva ribadito anche per quelle sottili “interferenze” (Winnicott, 1949), sovrastimolazioni (Greenacre, 1958), ferite narcisistiche (Kohut, 1971), vale a dire l’insieme di quei traumi “silenziosi” (Hoffer, 1952) e “cumulativi” (Khan, 1963) che possono verificarsi lungo il percorso dello sviluppo.

Diverso è stato invece il destino del tema della dissociazione. Dopo la rottura con Breuer, Freud introduce il concetto di rimozione. Da allora, gli psicoanalisti hanno trascurato lo studio degli stati di coscienza e dei fenomeni dissociativi per concentrarsi sui temi del conflitto e della rimozione.

La dissociazione ha tuttavia continuato ad attrarre l’attenzione degli analisti, fino a essere recuperata grazie al lavoro di Sullivan e di autori britannici (Fairbairn, 1952; Winnicott, 1971) e a raggiungere oggi, tra gli attuali modelli psicoanalitici un aspetto di primo piano.

La metafora della mente come entità monadica è stata così sostituita da quella di un collage di organizzazioni e prospettive molteplici che si sovrappongono, dove l’esperienza viene appiattita grazie ad un illusorio senso di continuità (Bromberg, 2006).

Sul piano evolutivo questa nuova metafora organizzatrice si traduce con l’idea che la precoce relazione madre-bambino rappresenti il “luogo” in cui vengono costruiti i “ponti” tra i diversi stati del Sé: la madre che aiuta il bambino a tollerare e negoziare la transizione degli stati e degli affetti costituisce (e forma) nella mente un’esperienza di collegamento in grado unire la molteplicità delle esperienze contraddittorie e mutevoli di Sé (e di Sé con gli altri) (Pizer, 1998). Come spiega Bromberg (1998):

Il processo evolutivo che facilita la transizione tra stati di consapevolezza deriva dalla capacità di una persona in salute di appianare la consapevolezza dei cambiamenti, una conquista enormemente facilitata dalla presenza di un caregiver che, attraverso un processo di regolazione reciproca, aiuta il bambino a conseguire delle transizioni di stato non traumatiche per mezzo di un’adeguata responsività interattiva alla sua soggettività (p. 178).

Durante lo sviluppo, in cui le precoci esperienze formano le fondamenta dei vari stati del Sé e i collegamenti tra loro, la dissociazione consente lo sviluppo di una continuità, coerenza e integrità del senso del Sé. Se però la discrepanza tra le esperienze è troppo ampia per essere tollerata, e i “paradossi” non trovano una soluzione, il suo scopo diventa allora quello di evitarne la dissoluzione traumatica (Bromberg, 1993). Interviene allora la dissociazione a trasformare la normale molteplicità in una molteplicità dissociata. La molteplicità dissociata del Sé è l’esito del crollo dei ponti che legano i diversi stati del Sé allo scopo di preservare la necessaria illusione di unitarietà (Bromberg, 1998).

Quando questa illusione di unità è minacciata in maniera traumatica da un inevitabile, precipitoso sconvolgimento, essa diviene un ostacolo poiché [l’individuo] rischia di essere sommerso da informazioni che non può elaborare simbolicamente e trattare come uno stato di conflitto. Quando l’illusione di unità è troppo pericolosa per essere mantenuta, quello che chiamiamo compulsività e pensiero ossessivo può spesso servire per sostenere il processo dissociativo riempiendo questi “spazi”, negando persino che siano mai esistiti (Bromberg, 1993, pp. 111-112).

La dissociazione interviene allora a preservare la coerenza personale, il senso di continuità e di sanità mentale “scollegando ipnoticamente gli stati di consapevolezza incompatibili, consentendogli l’accesso solo come esperienze mentali discontinue e senza nesso sul piano cognitivo”. Il problema in questo caso è che “così facendo la cura diventa per gli individui traumatizzati anche il loro problema principale” (Bromberg, 1994, p. 196). E così, quello che in precedenza era la normale capacità dissociativa della mente, una configurazione fluida di stati del Sé multipli che rendono la persona in grado di “sentirsi uno in molti”, viene irrigidita all’interno di una struttura mentale dissociata (Bromberg, 1998, p. 16). Un “sacrificio del Sé [...] al servizio della sua conservazione” (Chefetz, Bromberg, 2004, p. 437).

L’effetto del trauma è il danneggiamento delle funzioni integrative della mente. Quello che resta è una “amnesia retroattiva” una “memoria somatica” priva di rappresentazione simbolica. Ai soggetti traumatizzati, secondo Stern (1997), rimarrebbero parti di esperienze non formulate, non espresse, perchè non hanno un contesto narrativo e un’esperienza del Sé nella quale esistere. I vasti domini di sensazioni, percezioni e pensieri associati al trauma, in attesa di essere formulati e dotati di significato, vengono mantenuti non formulati dalla dissociazione: l’esperienza non formulata riguarderebbe quindi ciò che non è stato portato alla coscienza, non ciò che è stato eliminato dalla consapevolezza, ed è per questo inaccessibile alla riflessione e non esprimibile con il linguaggio (1).

La sensazione di paura determinata dall’evento traumatico continua ad essere sentita come reale, ma viene percepita come un’aspettativa di quello che potrebbe accadere o che sta accadendo, piuttosto che di quello che è accaduto. La sensazione, per il soggetto traumatizzato, è quella di dover restare sempre “all’erta” per un pericolo che – è sicuro – si sta per presentare, piuttosto che per il ricordo di un pericolo.

E’ da questa prospettiva che Bromberg si è recentemente interessato ai sogni e al loro significato, tanto da intitolare il suo penultimo lavoro Destare il sognatore (Bromberg, 2006).

Bromberg (2006) nota che talvolta un paziente può iniziare la seduta dicendo “Non ho niente di cui parlare oggi; vorrei almeno aver fatto un sogno”. Un’affermazione che, classicamente, viene letta come una forma di resistenza, come se significasse: “Se avessi un sogno potrei evitarmi di pensare al perché non ho nulla da dire oggi”. Per Bromberg (2006) invece questa affermazione può essere letta come: “Ho voglia di raccontarle un sogno, ma non ho alcun sogno” (p. 33); come cioè la voce di uno stato del Sé dissociato che sta cercando di trovare una voce e che sta dicendo “Non ho niente di cui parlare oggi, ma forse qualcun altro dentro di me sì”.

Per questo motivo, sostiene, se il “sogno” può essere concepito come “il caso particolare più noto del più generale fenomeno della dissociazione – la normale capacità autoipnotica della mente umana – l’esperienza onirica potrebbe allora essere considerata la più comune tra le attività dissociative della mente – e la sua funzione notturna uno sforzo adattivo per gestire livelli minimi di esperienze non-me affettivamente disturbanti senza compromettere l’illusione di veglia della coscienza” (Bromberg, 2006, p. 41).

In altre parole, l’uso del sogno in analisi, ad un certo livello, viene concepito come un’esperienza transizionale che rende possibile il potenziale collegamento di stati del Sé dissociati, consentendo alle voci degli altri stati del Sé di essere ascoltate e avere accesso alla struttura dinamica che il paziente definisce “me”. “Il processo attraverso cui ha luogo tutto questo non è”, scrive Bromberg (2006, p. 41) “adeguatamente descritto dall’espressione ‘interpretazione dei sogni’”. Piuttosto, l’autore tenta di descriverlo come un graduale sviluppo di un dialogo tra lo stato del Sé di veglia del paziente-come-paziente e lo stato del Sé onirico del paziente-come-sognatore. Con questa metafora Bromberg si riferisce alla necessità, per l’analista, di indirizzarsi direttamente ai processi dissociativi che determinano il funzionamento della struttura dissociativa del paziente.

L’esplorazione del sogno del paziente, quindi, non può affidarsi esclusivamente all’interpretazione. Nella prospettiva di Bromberg (1998) l’obiettivo della cura è quello di aiutare il paziente a prendere parte e collegare i diversi aspetti di sé, favorendo così una maggior coerenza dell’esperienza di “chi egli sia”, pertanto il sogno può diventare un importante alleato: “Se accettiamo che il sognatore è dentro il suo sogno (dentro una realtà psichica a sé), non solo il nostro modo di trattare i sogni in psicoanalisi cambierà, ma tutto ciò che ha luogo tra noi e il nostro paziente sarà sperimentato diversamente, compreso il modo in cui percepiamo e usiamo transfert e controtransfert” (2006, p. 41).

Molto spesso, dice Bromberg (2006), gli analisti hanno avuto la tendenza a colludere con l’esperienza vigile che i pazienti fanno del sogno, considerandolo come qualcosa di alieno all’esperienza, qualcosa che può essere conosciuto soltanto in modo indiretto, attraverso le associazioni sul sogno ricordato.

Al contrario, secondo l’autore, se si accetta che la realtà “onirica” rappresenta un diverso stato di coscienza e che, il fatto che abbia luogo durante il sonno, non rende la sua distanza dalla realtà vigile più incolmabile di quella tra due qualsiasi stati del Sé dissociati, allora è possibile pensare che si possa sognare ed essere vigili al tempo stesso.

L’esplorazione del sogno diventa così il ricorso ad uno spazio potenziale (Winnicott, 1971) in cui ciascun membro della relazione è in grado di fare esperienza della realtà vigile dell’altro come se fosse il proprio “sogno”: “In altre parole, la soggettività del paziente, per quanto conoscibile direttamente solo dal suo autore, è, di fatto, accessibile esperenzialmente all’analista come fosse un suo sogno e viceversa, aprendo uno spazio in cui le realtà vigili di paziente e analista fanno posto ai potenziali sognatori” (Bromberg, 2006, p. 43).

Sul piano tecnico, questo significa che “quando un paziente porta un sogno in seduta, il compito dell’analista è quello di permettergli di portare in seduta il sognatore” (p. 41). Si tratta, in altre parole, di invitare il paziente a rivivere il sogno come se lo stesse sperimentando in quel momento – un invito a rientrare nel proprio spazio onirico conservando, al contempo, la sua realtà vigile.

Nella prospettiva di Bromberg (2006), il sogno, più che un racconto da comprendere, è una realtà di cui fare esperienza con la maggiore profondità possibile “come se stesse avendo luogo in questo momento” (p. 45). Il principale compito psicoanalitico; “interpretare” il sogno, si trasforma così nel tentativo di far nascere e sviluppare un dialogo tra il sé della veglia del paziente-come- paziente e il sé onirico del paziente-come-sognatore. Un metodo che sta a indicare “una moltitudine di processi attraverso cui stati del Sé fluttuanti nel paziente e nell’analista appaiono sulla scena del dialogo intersoggettivo generando, da entrambe le parti, maggiore coerenza nello stato del Sé” (ibidem, p. 24).



(1) “Solitamente pensiamo alla consapevolezza come allo stato naturale dell’esperienza. Immaginiamo che, se siamo inconsapevoli di un qualcosa, sia necessario fare qualcosa per poterne diventare consapevoli. [...] Ma che succede se capovolgiamo i termini e guardiamo alla comparsa dell’esperienza nella consapevolezza non come lo stato di cose che si verifica ‘naturalmente’, ‘da solo’, o senza intervento, ma come un evento naturale? ...Che succede se la tendenza naturale delle cose è di restare al di fuori della consapevolezza? Che succede se azione e sforzo sono richiesti non per mantenere l’esperienza fuori dalla consapevolezza, ma per portarla al suo interno?” (Stern, 1997, p. 85).

Bibliografia

Balint M. (1969), Il difetto fondamentale. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1983.
Bromberg P. M. (1993), Shadow and Substance: A Relational Perspective on Clinical Process. Psychoanalytic Psychology, 10, 147-168.

Bromberg, P. M. (1993), Discussion of “Obsessions and/or Obsessionality: Perspectives on Psychoanalytic Treatment”. by Walter E. Spear. Contemporary Psychoanalysis, 29, 90-100.

Bromberg, P. M. (1994), “Speak! That I May See You”: Some Reflections on Dissociation, Reality, and Psychoanalytic Listening. Psychoanalytic Dialogues, 4, 517-547.

Bromberg, P. M. (1998), Clinica del trauma e della dissociazione. Standing in the spaces. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2007.

Bromberg, P. M. (2006), Destare il sognatore. Percorsi clinici. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2009.

Chefetz R. A., Bromberg, P. M. (2004), Talking with “Me” and “Not Me”. Contemporary Psychoanalysis, 40(3), 409-64.

Fairbairn, W. R. D. (1952), Studi psicoanalitici sulla personalità. Bollati Boringhieri, Torino 1970.

Freud, S. (1912-1914), Totem e tabù e altri scritti. Tr. it. in Opere vol. VII, Bollati Boringhieri, Torino 1985.
Freud, S. (1926), Inibizione, sintomo e angoscia, Tr. it. in Opere, vol. X, Boringhieri, Torino 1978.
Greenacre, P. (1958), Early Physical Determinants in the Development of the Sense of Identity. Journal of American Psychoanalytic Association, vol. 6.

Hoffer, W. (1952), The Mutual Influences in the Development of Ego and Id. Psychoanalytic Study of the Child, VII, 31-41.

Khan, M. (1963), “Il concetto di trauma cumulativo”. In Khan, M. (1974), Lo spazio privato del Sé. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1979.
Kohut, H. (1971), Narcisismo e analisi del Sé. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1976.

Krystal, H. (1988), Integration and Self-healing: Affect-Trauma-Alexithymia. The Analytic Press, Hillsdale, NJ.
Pizer, S. A. (1998), Building Bridges: the negotiation of paradox in psychoanalysis. Routledge, 1998.

Stern, D. (1997), L’esperienza non formulata. Tr. it. Edizioni il Cerro, Firenze 2007.
Stolorow, R. D., Atwood, G. E. (1992), I contesti dell'essere: le basi intersoggettive della vita psichica. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1995.

Winnicott, D. W. (1949), The Ordinary Devoted Mother and Her Baby. Nine Broadcast Talks., London: Private Distribution Only
Winnicott, D. W. (1949), Hate in the counter-transference. Int. J. Psychoanal., 30:69–74.

Winnicott, D. W. (1971), Gioco e realtà. Armando Editore 1974.




venerdì 13 dicembre 2013

Sul sentimento di vergogna


E tuttavia io lo sono,
non lo respingo mai come un’immagine estranea,
 ma mi è presente come un me che io sono senza conoscerlo[1],
perché lo scopro solo nella vergogna
(in certi casi, nell’orgo­glio).
Sono la vergogna o la fierezza
che mi rivelano lo sguardo altrui
e me stesso al limi­te dello sguardo;
che mi fanno vivere, non conoscere,
la situazione di guardato.
Sartre (1943)

Freud
Io mi rimprovero qualche cosa
– ho paura che altre persone lo sappiano
mi vergogno quindi di fronte agli altri.
Freud (1895, p. 53).

In psicoanalisi, il tema della vergogna è stato spesso trascurato in favore della maggiore attenzione rivolta alla colpa. La vergogna riferendosi sia alla morale, che al Sé, era più difficile da identificare a livello psicodinamico (Frølund, 1997).  La concezione originaria sulla vergogna, a partire da Freud offre alcuni spunti di approfondimento e riguarda perlopiù un affetto con potenzialità di difesa[2]; così come la moralità. Nella Minuta K Freud (1895) elenca tre tipi di nevrosi[3] da difesa: isteria, nevrosi ossessiva e paranoia. In tutti questi tipi di nevrosi: “la vergogna e la moralità sono le forze rimoventi (…) l’insorgere della vergogna [è connessa] con l’esperienza sessuale mediante legami (…) profondi” pp. 50-51). I diversi tipi di nevrosi, si definiscono secondo Freud, proprio in base alla modalità di esecuzione della rimozione: “la nevrosi è il negativo della perversione” ovvero della manifestazione sessuale grezza, priva di rimozione (Laplanche, Pontalis, 1967).
Freud (1895) dedica una particolare attenzione al tema della vergogna nella descrizione eziologica della nevrosi ossessiva. In questo caso, l’esperienza primaria infantile (definita anche trauma[4]) è talmente precoce da non poter essere che accompagnata da piacere, tuttavia quando questa esperienza viene richiamata alla memoria sorge l’autoaccusa (in tedesco Vorwuf, rimprovero) che genera vergogna “ovvero paura che la gente sappia” (p. 53) e rimozione. Al posto del ricordo e dell’autoaccusa, si formerà – mediante spostamento lungo catene associative – un sintomo di contrasto: ovvero “una certa sfumata scrupolosità” (Freud, 1895, p. 52). Nel 1896, ne “Le nuove osservazioni sulle neuropsicosi da difesa”, Freud si riferisce alla vergogna non solo come forza che rimuove, ma anche come risultato della difesa riuscita: “Scrupolosità, vergogna, sfiducia in sé stessi sono i sintomi con i quali comincia il terzo periodo, quello dell’apparente sanità o, più propriamente, quello della difesa riuscita” (p. 313).
Ne “L’interpretazione dei sogni, Freud (1899) parla della vergogna descrivendo tra i sogni tipici, il “sogno di imbarazzo per la propria nudità”. Esso riguarda un desiderio esibizionistico proibito, che nel sogno trova soddisfacimento, ma che proprio per essere giunto a trovare una rappresentazione crea anche la sensazione penosa della vergogna. “Il contesto nel quale tali sogni si presentano in soggetti nevrotici, nel corso delle mie analisi, non lascia (…) alcun dubbio sull’esistenza alla base del sogno, di un ricordo della primissima infanzia. Soltanto nella nostra infanzia è esistito un periodo in cui eravamo visti seminudi (…) e non ci vergognavamo della nostra nudità (…). Questa infanzia che non conosce vergogna appare più tardi al nostro sguardo retrospettivo come un paradiso, e il paradiso stesso non è altro che la fantasia collettiva dell’infanzia del singolo. Ecco perché anche in paradiso gli uomini sono nudi e non si vergognano l’uno di fronte all’altro, finché giunge un momento in cui la vergogna e l’angoscia si destano, avviene la cacciata, cominciano la vita sessuale e il lavoro della civiltà” (pp. 227-228). L’esibizionismo ha a che fare con una rappresentazione di sé del soggetto che si pensa osservato dall’altro. L’Io diviene pensabile in quanto guardato dall’altro, ovvero esposto agli sguardi dell’altro. Anche questa concezione classica sembra un’impronta che si può adattare sia al modello relazionale, che alla teoria di Kohut della psicologia del Sé.
In “Lutto e melanconia” (1917), Freud afferma che il melanconico, manca di vergogna: “Il senso di vergogna di fronte agli altri (…) manca nel melanconico, o quanto meno non è appariscente. Si potrebbe mettere in rilievo nel melanconico la caratteristica opposta di un assillante bisogno di comunicare che trova soddisfacimento nel mettere a nudo il proprio Io. Non è dunque essenziale stabilire se il melanconico nel suo autodenigrarsi, abbia ragione, nel senso che la sua critica converge con il giudizio degli altri (…) Ha perduto il rispetto di sé e certamente per un buon motivo (…) L’analogia con il lutto ci induce a concludere che il melanconico ha subito una perdita che riguarda l’oggetto, da ciò che egli dichiara risulta invece una perdita che riguarda il suo Io” (p. 106).
Freud (1933) considera l’origine della vergogna non nella paura bensì nel senso di inadeguatezza: “Shame, which is considered to be a feminine characteristic par excellence but is far more a matter of convention than might be supposed, has as its purpose, we believe, concealment of genital deficiency. We are not forgetting that at a later time shame takes on other functions” (p. 132). Dunque la vergogna per Freud ha una duplice valenza: sia di meccanismo di difesa, che affetto e sintomo, e riguarda un fenomeno che coinvolge “gli altri che osservano”.
Ferenczi
Il ritiro dell’amore e il fatto di essere completamente soli
con la propria esigenza d’amore
di fronte a una maggioranza compatta e schiacciante
provocano nei bambini cosiddetti normali
la vergogna e la rimozione (nevrosi)
Ferenczi (1921, p. 257)

Uno sguardo al passato, rispetto al tema della vergogna, risulta proficuo rivolgendosi alla concezione di Ferenczi di mutua analisi. Essa può essere – almeno in parte secondo Kilborne (1998) – considerata una reazione rispetto alla vergogna dell’autore nei confronti del rifiuto da parte di Freud di accoglierlo come analizzando. Ferenczi cercava un analista che non indulgesse nella “confusione delle lingue”[5]. Ferenczi scrisse infatti che la sua stessa analisi non proseguì abbastanza a fondo a causa di motivazioni narcisistiche del suo analista, ovvero per “la sua ferma determinazione ad essere sano, e per la sua antipatia verso ogni debolezza e anormalità (…) introdusse la fase “educativa” troppo presto”. Ferenczi scrisse questa critica a Freud in data 1 Maggio 1932 del suo diario, commentando che dalla sua scoperta Freud non amava più i suoi pazienti, bensì era tornato all’amore del suo ben organizzato e coltivato Super Io (un’ulteriore prova della sua antipatia per psicotici, pervertiti e ogni cosa in generale “troppo anormale”). Il modello terapeutico di Freud, secondo Ferenczi stava diventando più interessato all’ordine, carattere e rimpiazzo di un cattivo superio con uno migliore, e stava diventando pedagogico. Poiché Freud non era disposto ad ammettere errori, Ferenczi, sensibile alla vergogna e alla ferita narcisistica, scrisse a proposito del bisogno dell’analista di ammettere debolezze ed esperienze traumatiche. Queste ammissioni, secondo Ferenczi, hanno l’effetto di ridurre e abolire la distanza e il senso di inferiorità del paziente. Significativamente il 21 Luglio 1932, dopo aver declinato l’offerta di presidenza dell’International Psychoanalytical Association (21 Agosto 1932), marcando irrevocabilmente la sua rottura con Freud, Ferenczi scrisse un lavoro “On feeling of shame” nel suo Diario clinico: “Così si comportano gli adulti, quando proiettano sui bambini la loro passionalità, ed è quanto anche noi, analisti, abbiamo fatto presentando le nostre distorsioni sessuali imposte ai bamini come teorie sessuali infantili”. Tre giorni dopo, il 27 Agosto 1932, Freud scrisse a Eitingon che “il rifiuto di Ferenczi è un’azione nevrotica di ostilità verso il padre e i fratelli, per mantenere il piacere regressivo di svolgere il ruolo di madre verso i propri pazienti”. L’approccio di Ferenczi, rigettato infine da parte di Freud, conteneva in germe molte delle più recenti considerazioni in ambito psicoanalitico. La concezione di self disclosure o di parità tra paziente e analista della psicoanalisi relazionale, così come la concezione dei meccanismi di scissione e dissociazione derivanti da un evento traumatico, nonché l’origine della psicopatologia da ricercare nella relazione madre bambino, piuttosto che nella sessualità infantile, fanno tutte capo al lavoro innovativo e lungimirante di Ferenczi. Egli si interrogava sull’autenticità dell’esperienza affettiva in analisi sia per il paziente che per l’analista, credendo che solo l’amore autentico potesse avere un valore riparativo e terapeutico[6] (Ciocca, 2003).
Winnicott
Non sarebbe tremendo
se il bambino guardasse nello specchio
e non vedesse niente?
Paziente citato da Winnicott, (1967, p.136)

Dagli albori della psicoanalisi fino agli anni 50, il tema della vergogna passa in secondo piano. E’ Winnicott, nella sua descrizione dello sviluppo del bambino in relazione alla madre a riportare l’attenzione sull’importanza dell’essere riconosciuti come soggetti nella propria unicità, da un altro significativo e soprattutto “reale[7]“. Winnicott (1967) parla del ruolo di specchio svolto dalla madre, come colei che permette al bambino di vedere se stesso (Mollon, 2002). La madre sufficientemente buona[8] (Winnicott, 1952, p. 88) è in grado di adattarsi ai bisogni del bambino creando un’illusione di onnipotenza che getterà le basi per lo sviluppo sano. L’esperienza del Sé del bambino si basa infatti sul principio “sono veduto, quindi esisto”. L’emergere del Sé sano – Vero Sé – rappresenta la realizzazione di un potenziale che viene alla luce grazie ai gesti creativi del bambino e può essere compromesso da fattori ambientali. Nel Falso Sé infatti la madre non riesce a comprendere il bambino attraverso i suoi gesti ed egli sarà obbligato ad un’accondiscendenza estranea al suo vero Sé finendo per imitare l’ambiente e rassegnandosi ad abbandonare i gesti creativi ponendo così le basi per un senso di sé basato su sentimenti di vulnerabilità, vergogna, estraniamento, irrealtà.

Kohut

The struggle of the patient who suffers from a narcissistic personality disorder to reassemble himself, the despair—the guiltless despair, I stress, of those who in late middle age discover that the basic patterns of their self as laid down in their nuclear ambitions and ideals have not been realized... This is the time of utter hopelessness for some, of utter lethargy, of that depression without guilt and self-directed aggression, which overtakes those who feel that they have failed and cannot remedy the failure in the time and with the energies still at their disposal.
The suicides of this period are not the expression of a punitive superego, but a remedial act—the wish to wipe out the unbearable sense of mortification and nameless shame imposed by the ultimate recognition of a failure of all-encompassing magnitude
Kohut (1977) citato da Morrison (1983)

L’approccio di Kohut al narcisismo ha consentito di rivalutare il ruolo della vergogna nella teoria psicoanalitica, tanto da meritare successivamente la definizione di Broucek (1982) “shame is to self-psychology what anxiety is to ego psychology – the keystone affect” (p. 369). Il lavoro di Kohut segna un primo passo nel cambiamento definitivo del paradigma psicoanalitico verso le relazioni oggettuali, anche se il suo inserimento all’interno delle teorie definite come tali, è controversa (Greenberg, Mitchell, 1983). L’attenzione alla condizione “psicotica” – narcisistica e borderline – precedentemente ritenuta difficilmente trattabile, viene reinterpretata da Kohut (1959) come struttura di personalità fortemente connotata da un deficit nel senso del Sé. Questo tipo di condizione, è caratterizzata da forti bisogni di dipendenza; una dipendenza che non è manifestazione di una fissazione orale come erroneamente concepito da Freud (1905), bensì di un bisogno concreto di appoggio che si manifesta chiaramente nel transfert. Kohut (1959) riconosce pertanto che le dinamiche di transfert non riguardano soltanto una ripetizione del passato, ma anche la necessità del paziente di un oggetto-sé in grado di sostenere i suoi bisogni relativi soprattutto alla possibilità di essere visto da un Altro, ad es. il terapeuta, per poter raggiungere un senso di stabilità (Kohut, 1971).  
Nel modello dello sviluppo kohutiano, i genitori fungono da oggetto-sé. Il compito principale dell’oggetto-sé è quello di svolgere una funzione speculare, ovvero fornire risposte empatiche che permettono il dispiegarsi dell’esibizionismo e della grandiosità del bambino. Il bambino in questo modo è in grado di elaborare il proprio Sé grandioso (2-4 anni) ovvero la sua iniziale onnipotenza (Kohut, 1966). Mediante l’idealizzazione dell’immagine parentale (imago parentale idealizzata) il bambino ricava (interiorizzazione trasmutante) un senso di uguaglianza al genitore forte e potente, cosiché è consentita la formazione dell’ideale dell’Io. La frustrazione adeguata alla fase di sviluppo permette di elaborare, in modo graduale, l’iniziale onnipotenza del bambino e di interiorizzare la funzione speculare dell’oggetto-sé (ovvero la sua modalità relazionale) ed il senso di essere uguale ad un ideale, consentendo la formazione del Sé nucleare. Tra i 4 e i 6 anni il bambino potrà procedere all’elaborazione del Sé bipolare – costituito dall’ideale dell’Io ricavato dagli oggetti-sé idealizzabili e dalle ambizioni realistiche, ciò che realmente si è in grado di fare – ovverosia il senso di avere delle risorse e delle intenzioni. Agendo in questo modo, il genitore rende possibile al bambino vivere l’esperienza dell’individualità (Kohut, 1971).
Quando invece i genitori falliscono nel loro ruolo di oggetto-sé si genera l’angoscia di disintegrazione (Kohut, 1977); ovvero una minaccia al proprio senso di identità. Il Sé grandioso viene scisso – dando origine al senso di vanagloria, orgoglio, arroganza – oppure rimosso – dando luogo a sentimenti di impoverimento (Self depletion), bassa autostima, vergogna, depressione (Kohut, 1971). Ne deriva un disturbo narcisistico in quanto il Sé grandioso non può essere neutralizzato poichè non ha ricevuto sufficiente rispecchiamento (Kohut, 1972, 1977).
L’incontro tra il bisogno del paziente e la funzione rappresentata dal rapporto affettivo del terapeuta oggetto-Sé, diventa quindi un’unità primaria nello sviluppo psichico. Kohut (1971) teorizzerà a tale proposito tre tipi di transfert di oggetto-sé: speculare, idealizzante e gemellare.
Kohut (1971) nota come le specifiche esperienze patologiche del narcisismo cadono nello spettro che va dall’ansia grandiosa e dall’eccitamento da una parte, al mite imbarazzo e consapevolezza di sé o estrema vergogna, ipocondria e depressione dall’altra (p. 200). Similarmente, come definizione della depressione, Kohut (1977) parla di una depressione “senza colpa”, definita dal fallimento a raggiungere ambizioni e ideali, che può essere considerata una sostituta della vergogna. Di fatto colpa e vergogna sembrano correlare tra loro, ed è possibile distinguere manifestazioni depressive caratterizzate da colpa, o manifestazioni depressive caratterizzate da vergogna. A seconda se predomina la perdita o l’aggressività, o il fallimento nel vivere un ideale. Inoltre, è messo in evidenza come la vergogna e il conflitto predominano spesso nei suicidi portati a termine. Kohut (1977) parla di una tremenda hopelessness, o letargia, di quelle depressioni senza colpa e autodirette, che sovrastano quelli che sentono di aver fallito e non possono rimediare, con energie ancora a loro disposizione. Il suicidio in questo caso non è un’espressione di un superio punitivo, ma un atto di rimedio, per scacciare il senso soverchiante di mortificazione e vergogna senza nome imposta dal riconoscimento del fallimento di grandezza onnicomprensiva.
Pertanto Kohut (1971, p. 181) non riconosce la vergogna come dovuta al confronto con un ideale dell’Io, bensì all’esibizionismo “costituzionale” del Sé non neutralizzato (Morrison, 1984).
I disturbi del Sé possono essere differenziati, secondo Morrison (1984) in primari e secondari, i disturbi secondari riguardano la reazione “acuta e cronica” di un sé consolidato alle esperienze dell’infanzia, dell’adolescenza e della maturità che implicano un sé sufficientemente coeso, mentre nei disturbi primari la
la vergogna non ha lo spazio necessario ad emergere, in quanto il sé non è in grado di registrare tale sentimento poiché sovrastato dal carico del panico e della diffusione dei confini (p. 83). Secondo Morrison (1984), l’antidoto alla vergogna riguarda l’accettazione. Nel trattamento psicoanalitico dei pazienti depressi, è necessario non trascurare la rabbia narcisistica che deriva esattamente dalla mancanza di consapevolezza riguardo il senso di vuoto e fallimento dovuto agli obiettivi non conseguiti del Sé grandioso, che rendono il Sé non accettabile.

La concezione di Kohut (1972) di rabbia narcisistica, riguarda infatti in maniera complementare la vergogna: l’Uomo Tragico è colui che non è in grado di riconoscere sé stesso, in quanto soffre di un vuoto che risulta dal mancato rispecchiamento ricevuto dall’ambiente. Ciò causa una vulnerabilità primaria alla rabbia, in quanto la persona stessa è drammaticamente incapace di riconoscere chi è; parafrasando la citazione di Winnicott (1967), “non trova sé stesso”. 


Schema dell’approccio terapeutico secondo Kohut (1971).


La vergogna sperimentata come evento relazionale può attivare difese molto rigide, come il diniego, la dissociazione e la costruzione di strategie protettive come “i rifugi della mente” (Steiner 1993), utili a preservare il sé da sentimenti di impotenza, abbandono e vergogna. Queste difese, se non riconosciute, possono impedire sia la comunicazione, sia la simbolizzazione dell’esperienza traumatica stessa nella forma di un linguaggio comunicabile. La dissociazione può presentarsi sottoforma di “scissione verticale”[9] così come indicato da Kohut (1971), in cui è possibile osservare due rappresentazioni del sé distinte; una di tipo maniacale, l’altra di tipo depressivo con relativi sentimenti di autosvalutazione e vergogna, che possono portare nei casi estremi al suicidio. 
Broucek
It is important to distinguish between
shame stress,
the narcissistic affect shame,
and the process which regulates this affect,
 shame regulation.
Broucek (1982)
Broucek (1982) ha studiato la vergogna e le sue connessioni con lo sviluppo narcisistico. Secondo l’autore “significant shame experiences may occur in the first one and a half years of life” (p. 372); e riguardano in essenza lo sviluppo del senso di sé. Broucek considera indici di una risposta di vergogna la postura, come ad es. il capo chino o l’allontanamento dello sguardo dei bambini il cui intento non è riuscito mentre un loro interesse era stato attivato. Broucek (1991) respinge l’ipotesi di una barriera innata per gli affetti di eccitazione o di gioia, citando casi in cui l’eccitazione o la gioia vengono interrotti, mentre sorge la vergogna. La proposta di Broucek è che queste prime fonti di vergogna o senso di colpa sono il risultato delle esperienze del bambino d’inefficacia interpersonale. In questo modo Broucek lega lo sviluppo positivo del senso di sé all’efficacia, in particolare nelle relazioni interpersonali, mentre la vergogna emerge quando si verificano degli errori. Secondo Broucek (1982) la vergogna emerge quando il contatto con la madre si interrompe:  
[I]n the infant’s contacts with mother at those moments when mother becomes a stranger to her infant. This happens when the infant is disappointed in his excited expectation that certain communicative and interactional behavior will be forthcoming in response to his communicative readiness ... shame arises from a disturbance of recognition, producing familiar responses to an unfamiliar person, as long as we understand the “different” mother to be the unfamiliar person. That a mother (even a “good enough” mother) can be a stranger to her own infant at times is not really surprising since the mother’s moods, preoccupations, conflicts and defences will disturb her physiognomy and at times alter her established communication patterns [p. 370].
L’autore afferma che la vergogna è l’esperienza affettiva di base di dispiacere e dolore psichico associata con i disturbi del narcisismo. La “Nameless shame” di Kohut (1977), ha origine nel periodo sensomotorio e nonverbale, quando sia la componente dell’ideale dell’Io che il Superio sono operativi. La colpa emerge solo nel periodo verbale, che riguarda lo sviluppo della coscienza e l’interiorizzazione dei valori morali. La vergogna inoltre secondo l’autore è intimamente connessa alla sessualità; egli ipotizza che la vergogna è una fonte primaria d’inibizione, che limita la forza della vita erotica. Al contrario di Freud, tuttavia, Broucek afferma che non è la civiltà che si è sviluppata intorno alla possibilità di inibire il desiderio sessuale, ma sono i vincoli innati della sessualità con la vergogna ad aver svolto un ruolo fondamentale nella costruzione della civiltà. A sostegno di questa ipotesi afferma che l’aumento dell’incidenza della depressione, insieme al diffuso senso di disperazione, riguarda la sensazione che la vita ha perso significato, e ciò è riconducibile alle violazioni della funzione di protezione che deriva dalla vergogna nel garantire ad esempio all’individuo psichicamente ancora immaturo, come un adolescente, di essere coinvolto in un livello di intimità fisica maggiore di quanto sia psicologicamente preparato a gestire. Un interessante concetto esposto da Broucek (1991) è quello di oggettivazione: i bambini diventano consapevoli che sono oggetto di controllo sia degli altri che di se stessi. Secondo Broucek questa esperienza frantuma la relazionalità con caregivers che il bambino aveva precedentemente dato per scontata. I bambini diventano così in grado di distinguere tra le esperienze in cui la loro soggettività viene rispettata, e quelle in cui vengono trattati soprattutto come “oggetti”. Essere trattati senza considerazione verso i propri sentimenti e interessi può assumere molte forme, tra cui la vergogna. La vergogna verrà da quel momento in poi attivata quindi ogni volta che i bambini saranno trattati come oggetti, e soprattutto quando sperano o si aspettano di ottenere uno scambio soggettivo. Secondo Broucek (1991) per tutta la vita sperimentiamo momenti in cui “esistiamo con l’altro in un campo di esperienza affettiva condivisa e in sovrapposizione di coscienza” e momenti di 'coscienza disgiuntiva', in cui c’è un godimento reciproco come meri oggetti” (p. 46). “Nello stato di improvvisa, non cercata, o indesiderata auto-oggettivazione l’esperienza immediata di un individuo di realtà dell’essere può essere persa, con conseguente vergogna e trasformazione del mondo interpersonale e fenomenale come disorientante. In quei momenti il mondo può sembrare in pericolo di collasso ... e di conseguenza, in una sorta di vertigine” (p. 40).
Broucek (1991) propone quindi che l’esperienza della vergogna di sentirsi un mero “oggetto” possa essere una fonte di derealizzazione, depersonalizzazione, e la frammentazione del senso di Sé coeso; questa concezione è stata definita da Lichtenberg (1994) un importante contributo alla comprensione degli stati traumatici.
Dal punto di vista della situazione analitica, Broucek (1991) afferma che un certo grado di oggettivazione del paziente avviene sempre quando si legge il suo comportamento alla luce di una teoria, e ciò rischia di mettere il paziente nella condizione di provare vergogna (p. 101). D’altra parte l’uso del lettino in analisi consente di ridurre al minimo la possibilità che il paziente provi vergogna, ma bisogna anche considerare il rischio che ciò si traduca in una manchevolezza nell’analisi di tale aspetto del paziente (p. 86).

Thrane
I am ashamed of what I am.
Shame therefore realizes an intimate relation of myself to myself.
Through shame I have discovered an aspect of my being
Sartre (1943, p. 221).

The guilty person focuses on the act;
 a man ashamed, on himself.
A man who is ashamed
is ashamed of what he is.
Thrane (1979)

Secondo Thrane (1979), non è un caso che gli adolescenti siano particolarmente inclini alla vergogna: essa, è strettamente connessa all’identità. Per l’adolescente, l’obbedienza agli ammonimenti dei genitori assume il significato di essere all’altezza degli ideali degli adulti.
La vergogna consta, secondo l’autore di due aspetti: uno è personale, ovvero relativo agli ideali di sé – come ad esempio la forma del proprio corpo; definito dall’autore “l’oggetto primordiale della vergogna”–, mentre l’altro riguarda l’aspetto sociale. In questo caso la vergogna riguarda gli altri: in particolare “essere di fronte agli altri”. Ad esempio, arrossire o sudare sono risposte sociali alla vergogna, così come il desiderio di non essere visibili agli altri può essere tale da suicidarsi. La vergogna è vissuta come un colpo all’immagine di sé, mentre la colpa riguarda un senso di “aver preso più di quanto sia giustamente proprio”. Mentre nella vergogna si cerca il segreto, nella colpa si cerca la confessione. Il colpevole si concentra sul gesto, un uomo che prova vergogna, su se stesso.
Un antidoto alla vergogna è l’umorismo: coloro che sono in grado di ridere di se stessi si sentono superiori alle loro debolezze e mancanze, e la vergogna viene pertanto dissipata. Ciò che cambia secondo Thrane (1979) è il senso di essere attivi rispetto a tale sensazione: “Il clown che fa ridere gli altri di se stesso non si sente umiliato, poiché è egli stesso ad averli fatti ridere “ (Piers, 1953 p. 42).
Citando Walsh (1970) Thrane afferma che una fonte importante di vergogna o orgoglio riguarda le origini, le istituzioni di cui si fa parte, la cultura e le persone associate allo sviluppo in quanto esse definiscono considerevolmente l’identità dell’individuo.
La vergogna dipende infatti dai processi di identificazione, così come suggerito anche da Erikson nel modello dello sviluppo dell’identità (1950). Tuttavia solo alcune identificazioni possono essere scelte, infatti quelle più importanti come ad esempio quelle infantili o inconsce, non vengono scelte.
La vergogna inoltre è relativa agli ideali. Per vergognarsi è necessario sentire che si è privi di valore, spregevoli invece che ammirevoli, perdere l’autostima e l’amore di sé, allontanarsi da sé stessi con disgusto, e aspettarsi che gli altri facciano altrettanto, temere i loro sguardi di disprezzo, e desiderare di essere invisibile.
In tal senso mentre la vergogna è orientata all’esterno, il senso di colpa è orientato internamente. La vergogna implica un pubblico, anche se solo nella fantasia. Tale esperienza diventa condivisibile solo dopo che si è superata attraverso un riadattamento di ideali, o dell’umore. Ma ciò che si cerca non è il perdono, bensì l’accettazione che diventa una conferma della propria identità.
La vergogna a quel punto diventa una responsabilità dell’individuo in quanto ha in precedenza svolto un ruolo di protezione nei confronti dell’identità; nel momento in cui era in atto una costruzione amorevole di sé.
Secondo Thrane (1979), il paziente arriva in analisi insoddisfatto della sua identità, tale vergogna circa il suo essere produce migliori potenzialità di cambiamento. La vergogna, come afferma anche Kohut manca soltanto in presenza di un sé completamente disintegrato, in quanto relativo ai disturbi primari del Sé.
La stessa intrusione del terapeuta nel regno privato del sé, può indurre nel paziente molta vergogna. Il transfert di idealizzazione e identificazione può essere utilizzato come un modo per scongiurare la vergogna.
Thrane inoltre considera la vergogna dell’analista una protezione della propria integrità psichica riguardo all’osservazione del mondo privato del paziente: tale vergogna riguarda il riconoscimento che il paziente è qualcun altro e non un semplice oggetto di tecnica. In questo modo il senso di  vergogna dell’analista, produce l’ideale di riservatezza come una certezza evidente, invece che come un’esternazione imbarazzante imposta da considerazioni di prudenza. La pratica della psicoterapia è un mestiere solitario in molti modi e pertanto il senso di vergogna è sicuramente una causa parziale di solitudine; tuttavia afferma Thrane, il terapeuta che non prova vergogna per i suoi pazienti potrebbe perdersi nel mondo privato dei suoi “casi”. L’aiuto di altri colleghi diventa una costellazione narcisistica di pezzi di un puzzle, pertanto il senso di vergogna dell’analista è un riconoscimento dell’alterità irrevocabile e della naturale dignità del paziente.

Amati Sas
 
Da uno studio sistematico sulla vergogna, l’autrice Amati Sas (1992) percorre come via d’unione alle differenti teorie sul tema, quello dell’ambiguità. Ciò è dovuto principalmente al fatto che le teorie degli autori incrociate, non corrispondono tra loro, a maggior ragione con gli esempi che vengono riportati. Tuttavia differenti approcci teorici messi insieme consentono una visione unitaria sul tema.
L’esperienza clinica dell’autrice riguarda soprattutto il lavoro con pazienti che riportano eventi traumatici importanti. Elementi di vergogna emergono chiaramente in questo tipo di pazienti che combattono con sentimenti di alienazione e conflitto (Amati Sas, 1989). Bettelheim (1943) ha notato che una persona esposta a condizioni estreme si comporta in un modo che essa stessa non approva. La persona rimane con differenti immagini di sé che corrispondono a contesti diversi e non possono essere introdotti in un unico registro.
In queste situazioni, l’elaborazione della vergogna presuppone la capacità di accettare la sfida di scoprire molteplici varianti della propria immagine a seconda delle circostanze, e il placare il conflitto interno che ne deriva, così come  la continua necessità di ristabilire la propria continuità e coerenza, cioè il senso della propria identità.
L’ambiguità è caratterizzata dalla possibilità di adattamento, malleabilità, permeabilità e non conflittualità all’interno della personalità.
La parte più dipendente della personalità diventa particolarmente evidente nelle circostanze in cui una persona esposta a condizioni estreme sente di aver perso la sua continuità. In queste circostanze traumatiche, gli aspetti ambigui della personalità − i residui dell’indifferenziazione primaria (di solito scissi, proiettati e depositati nel quadro stabile degli oggetti esterni), invadono l’Io più maturo, integrato e differenziato. Questa regressione all’ambiguità corrisponde a quello che Winnicott chiama 'fear of breakdown’, Anna Freud ‘fear of surrender’ e Masud Khan ‘dread of resourceless dependance’. Essa è vissuta dalle vittime di situazioni estreme come un cambiamento, una nuova verità’, in cui, inaspettatamente devono ‘adattarsi e familiarizzare con qualsiasi cosa(Amati Sas, 1985).
La vergogna può essere facilmente definita come una sensibilità propria del campo narcisistico’, relativa ai legami simbiotici che si accompagnano sempre alle relazioni oggettuali.
Per comprendere la vergogna, è importante notare la reciprocità del legame simbiotico, in cui ognuno è il potenziale depositario di ansie e incertezze altrui. Il legame simbiotico, che è mutuo e tacito, comporta la capacità di essere il depositario dell’ambiguità di un altro.
Quando si è nella posizione dell’oggetto ausiliario, ci si assume la responsabilità per la propria ambivalenza verso gli aspetti ambigui dell’altro (ciò è particolarmente evidente nella posizione dello psicoanalista).
Vergogna e ambiguità possono essere pertanto connesse. Quando l’ambiguità predomina nella personalità, non si manifesta la vergogna. Tuttavia, se il senso di vergogna diventa troppo angosciante, il soggetto può difendersi contro di essa diventando indefinito o confuso.
Nel momento in cui emerge la vergogna, l’Io può essere spinto a intraprendere un lavoro di conoscenza e simbolizzazione, perché è costretto a funzionare’, al fine di recuperare l’equilibrio perduto nel suo senso di continuità e coerenza. In questi casi si può ricorrere a un intervento preventivo (gesti o comportamenti), oppure si può intraprendere uno sforzo più complesso di rappresentazione e simbolizzazione, inducendolo mediante un diverso registro. Nei casi di vergogna catastrofica che travolge il senso di continuità del sé, è necessario un periodo di elaborazione e contestualizzazione’ più lungo; un maggiore sforzo per recuperare i propri punti di riferimento interni ed esterni (come si può osservare nel processo terapeutico dei superstiti).

[1] L’essere per altri non è una relazione oggettiva, conoscitiva, tra me e l’altro, ma una relazione d’essere, che si coglie immedia­tamente negli stati o affetti psicologici come la vergogna.
[2] La difesa è definita da Freud (1895): “un’avversione a dirigere l’energia psichica in modo da produrre dispiacere” (p. 49).
[3] Ricordiamo che Freud suddivise le nevrosi in attuali (derivanti da disfunzione somatica sessuale) e psiconevrosi (relative a un conflitto). La nevrosi narcisistica ad esempio, figura tra le psiconevrosi, ovvero tra le patologie più vicine alla psicosi che alla nevrosi. In tal senso questa classificazione verrà poi accolta significativamente da Kohut (1959) per mettere in evidenza il diverso ambito d’azione per la psicoanalisi quando essa riguarda un paziente nevrotico o psicotico.
[4] Negli “Studi sull’isteria” (1892-95) Freud fornisce una definizione di trauma psichico come “qualsiasi esperienza provochi gli affetti penosi del terrore, dell’angoscia, della vergogna, del dolore psichico” (p. 177).
[5]La confusione delle lingue tra l’adulto e il bambino. Il linguaggio della tenerezza e della passione”, lavoro presentato al Congresso di Wiesbaden dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale.
[6]Elasticità della tecnica psicoanalitica” (1928).
[7] Gli indipendenti inglesi hanno definito il bambino come un essere programmato per ottenere un’interazione armoniosa e uno sviluppo non traumatico, che può incorrere in cure genitoriali inadeguate (Mitchell e Black, 1995): “Bowlby citava come una pietra miliare nel sorgere della sua linea di pensiero indipendente il momento in cui si alzò con aria di sfida per affermare nel mezzo di una di queste discussioni: “Ma le cattive madri esistono davvero” (p. 140). Tale espressione segnò lo sviluppo delle teorie inglesi postkleiniane.
[8] Lettera a Money Kyrle.

[9] I concetti di scissione orizzontale e verticale in Kohut (1971) riguardano nel primo caso una rimozione del nutrimento narcisistico proveniente da determinate fonti;  mentre nel secondo caso dalla negazione completa di un intero aspetto della realtà psichica del soggetto dal Sé centrale (p. 176; p. 195). Il compito dell’analista è quello di abolire entrambe le barriere.

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