E tuttavia io lo sono,
non lo respingo mai come un’immagine
estranea,
perché lo scopro solo nella
vergogna
(in certi casi, nell’orgoglio).
Sono la vergogna o la
fierezza
che mi rivelano lo sguardo
altrui
e me stesso al limite
dello sguardo;
che mi fanno vivere, non
conoscere,
la situazione di guardato.
Sartre (1943)
Freud
Io
mi rimprovero qualche cosa
–
ho paura che altre persone lo sappiano
mi
vergogno quindi di fronte agli altri.
Freud (1895, p. 53).
In psicoanalisi, il tema
della vergogna è stato spesso trascurato in favore della maggiore attenzione
rivolta alla colpa. La vergogna riferendosi sia alla morale, che al Sé, era più
difficile da identificare a livello psicodinamico (Frølund, 1997). La
concezione originaria sulla vergogna, a partire da Freud offre alcuni spunti di
approfondimento e riguarda perlopiù un affetto con potenzialità di difesa[2]; così
come la moralità. Nella Minuta K
Freud (1895) elenca tre tipi di nevrosi[3] da
difesa: isteria, nevrosi ossessiva e paranoia. In tutti questi tipi di nevrosi:
“la vergogna e la moralità sono le forze rimoventi (…) l’insorgere della
vergogna [è
connessa] con l’esperienza sessuale mediante legami (…) profondi” pp.
50-51). I diversi tipi di nevrosi, si definiscono secondo Freud, proprio in
base alla modalità di esecuzione della rimozione: “la nevrosi è il negativo
della perversione” ovvero della manifestazione sessuale grezza, priva di
rimozione (Laplanche, Pontalis, 1967).
Freud
(1895) dedica una particolare attenzione al tema della vergogna nella descrizione
eziologica della nevrosi ossessiva. In questo caso, l’esperienza primaria
infantile (definita anche trauma[4]) è
talmente precoce da non poter essere che accompagnata da piacere, tuttavia
quando questa esperienza viene richiamata alla memoria sorge l’autoaccusa (in
tedesco Vorwuf, rimprovero) che
genera vergogna “ovvero paura che la gente sappia” (p. 53) e rimozione. Al
posto del ricordo e dell’autoaccusa, si formerà – mediante spostamento lungo
catene associative – un sintomo di contrasto: ovvero “una certa sfumata
scrupolosità” (Freud, 1895, p. 52). Nel 1896, ne “Le nuove osservazioni sulle neuropsicosi da difesa”, Freud si
riferisce alla vergogna non solo come forza che rimuove, ma anche come
risultato della difesa riuscita: “Scrupolosità, vergogna, sfiducia in sé stessi
sono i sintomi con i quali comincia il terzo periodo, quello dell’apparente
sanità o, più propriamente, quello della difesa riuscita” (p. 313).
Ne
“L’interpretazione dei
sogni”, Freud (1899) parla
della vergogna descrivendo tra i sogni tipici, il “sogno di imbarazzo per la
propria nudità”. Esso riguarda un desiderio esibizionistico proibito, che nel
sogno trova soddisfacimento, ma che proprio per essere giunto a trovare una
rappresentazione crea anche la sensazione penosa della vergogna. “Il contesto
nel quale tali sogni si presentano in soggetti nevrotici, nel corso delle mie
analisi, non lascia (…) alcun dubbio sull’esistenza alla base del sogno, di un
ricordo della primissima infanzia. Soltanto nella nostra infanzia è esistito un
periodo in cui eravamo visti seminudi (…) e non ci vergognavamo della nostra
nudità (…). Questa infanzia che non conosce vergogna appare più tardi al nostro
sguardo retrospettivo come un paradiso, e il paradiso stesso non è altro che la
fantasia collettiva dell’infanzia del singolo. Ecco perché anche in paradiso
gli uomini sono nudi e non si vergognano l’uno di fronte all’altro, finché
giunge un momento in cui la vergogna e l’angoscia si destano, avviene la
cacciata, cominciano la vita sessuale e il lavoro della civiltà” (pp. 227-228).
L’esibizionismo ha a che fare con una rappresentazione di sé del soggetto che
si pensa osservato dall’altro. L’Io diviene pensabile in quanto guardato dall’altro,
ovvero esposto agli sguardi dell’altro. Anche questa concezione classica sembra
un’impronta che si può adattare sia al modello relazionale, che alla teoria di
Kohut della psicologia del Sé.
In
“Lutto e melanconia” (1917), Freud afferma
che il melanconico, manca di vergogna: “Il senso di vergogna di fronte agli
altri (…) manca nel melanconico, o quanto meno non è appariscente. Si potrebbe
mettere in rilievo nel melanconico la caratteristica opposta di un assillante
bisogno di comunicare che trova soddisfacimento nel mettere a nudo il proprio
Io. Non è dunque essenziale stabilire se il melanconico nel suo autodenigrarsi,
abbia ragione, nel senso che la sua critica converge con il giudizio degli
altri (…) Ha perduto il rispetto di sé e certamente per un buon motivo (…) L’analogia
con il lutto ci induce a concludere che il melanconico ha subito una perdita
che riguarda l’oggetto, da ciò che egli dichiara risulta invece una perdita che
riguarda il suo Io” (p. 106).
Freud (1933) considera l’origine
della vergogna non nella paura bensì nel senso di inadeguatezza: “Shame, which
is considered to be a feminine characteristic par excellence but is far
more a matter of convention than might be supposed, has as its purpose, we
believe, concealment of genital deficiency. We are not forgetting that at a
later time shame takes on other functions” (p. 132). Dunque la vergogna per
Freud ha una duplice valenza: sia di meccanismo di difesa, che affetto e
sintomo, e riguarda un fenomeno che coinvolge “gli altri che osservano”.
Ferenczi
Il
ritiro dell’amore e il fatto di essere completamente soli
con
la propria esigenza d’amore
di
fronte a una maggioranza compatta e schiacciante
provocano
nei bambini cosiddetti normali
la
vergogna e la rimozione (nevrosi)
Ferenczi (1921, p.
257)
Uno
sguardo al passato, rispetto al tema della vergogna, risulta proficuo
rivolgendosi alla concezione di Ferenczi di mutua analisi. Essa può essere – almeno
in parte secondo Kilborne (1998) – considerata una reazione rispetto alla
vergogna dell’autore nei confronti del rifiuto da parte di Freud di accoglierlo
come analizzando. Ferenczi cercava un analista che non indulgesse nella “confusione
delle lingue”[5].
Ferenczi scrisse infatti che la sua stessa analisi non proseguì abbastanza a
fondo a causa di motivazioni narcisistiche del suo analista, ovvero per “la sua
ferma determinazione ad essere sano, e per la sua antipatia verso ogni
debolezza e anormalità (…) introdusse la fase “educativa” troppo presto”. Ferenczi scrisse questa
critica a Freud in data 1 Maggio 1932 del suo diario, commentando che dalla sua
scoperta Freud non amava più i suoi pazienti, bensì era tornato all’amore del
suo ben organizzato e coltivato Super Io (un’ulteriore prova della sua
antipatia per psicotici, pervertiti e ogni cosa in generale “troppo anormale”).
Il modello terapeutico di Freud, secondo Ferenczi stava diventando più
interessato all’ordine, carattere e rimpiazzo di un cattivo superio con uno
migliore, e stava diventando pedagogico. Poiché Freud non era disposto ad
ammettere errori, Ferenczi, sensibile alla vergogna e alla ferita narcisistica,
scrisse a proposito del bisogno dell’analista di ammettere debolezze ed
esperienze traumatiche. Queste ammissioni, secondo Ferenczi, hanno l’effetto di
ridurre e abolire la distanza e il senso di inferiorità del paziente. Significativamente
il 21 Luglio 1932, dopo aver declinato l’offerta di presidenza dell’International Psychoanalytical Association (21 Agosto 1932), marcando
irrevocabilmente la sua rottura con Freud, Ferenczi scrisse un lavoro “On feeling of shame” nel suo Diario clinico: “Così si comportano gli adulti, quando proiettano sui bambini la
loro passionalità, ed è quanto anche noi, analisti, abbiamo fatto presentando le
nostre distorsioni sessuali imposte ai bamini come teorie sessuali infantili”.
Tre giorni dopo, il 27 Agosto 1932, Freud scrisse a Eitingon che “il rifiuto di
Ferenczi è un’azione nevrotica di ostilità verso il padre e i fratelli, per
mantenere il piacere regressivo di svolgere il ruolo di madre verso i propri
pazienti”. L’approccio di Ferenczi,
rigettato infine da parte di Freud, conteneva in germe molte delle più recenti
considerazioni in ambito psicoanalitico. La concezione di self disclosure o di parità
tra paziente e analista della psicoanalisi relazionale, così come la concezione
dei meccanismi di scissione e dissociazione derivanti da un evento traumatico,
nonché l’origine della psicopatologia da ricercare nella relazione madre
bambino, piuttosto che nella sessualità infantile, fanno tutte capo al lavoro
innovativo e lungimirante di Ferenczi. Egli si interrogava sull’autenticità
dell’esperienza affettiva in analisi sia per il paziente che per l’analista,
credendo che solo l’amore autentico potesse avere un valore riparativo e
terapeutico[6]
(Ciocca, 2003).
Winnicott
Non
sarebbe tremendo
se
il bambino guardasse nello specchio
e
non vedesse niente?
Paziente citato da
Winnicott, (1967, p.136)
Dagli
albori della psicoanalisi fino agli anni 50, il tema della vergogna passa in
secondo piano. E’ Winnicott, nella sua descrizione dello sviluppo del bambino
in relazione alla madre a riportare l’attenzione sull’importanza dell’essere
riconosciuti come soggetti nella propria unicità, da un altro significativo e
soprattutto “reale[7]“.
Winnicott (1967) parla del ruolo di specchio svolto dalla madre, come colei che
permette al bambino di vedere se stesso (Mollon, 2002). La madre sufficientemente buona[8]
(Winnicott, 1952, p. 88) è in grado di adattarsi ai bisogni del bambino creando
un’illusione di onnipotenza che getterà le basi per lo sviluppo sano. L’esperienza
del Sé del bambino si basa infatti sul principio “sono veduto, quindi esisto”.
L’emergere del Sé sano – Vero Sé – rappresenta
la realizzazione di un potenziale che viene alla luce grazie ai gesti creativi
del bambino e può essere compromesso da fattori ambientali. Nel Falso Sé infatti la madre non riesce a
comprendere il bambino attraverso i suoi gesti ed egli sarà obbligato ad un’accondiscendenza
estranea al suo vero Sé finendo per imitare l’ambiente e rassegnandosi ad
abbandonare i gesti creativi ponendo così le basi per un senso di sé basato su
sentimenti di vulnerabilità, vergogna, estraniamento, irrealtà.
Kohut
The
struggle of the patient who suffers from a narcissistic personality disorder to
reassemble himself, the despair—the guiltless despair, I
stress, of those who in late middle age discover that the basic patterns of
their self as laid down in their nuclear ambitions and ideals have not been
realized... This is the time of utter hopelessness for some, of utter lethargy,
of that depression without guilt and self-directed aggression, which overtakes
those who feel that they have failed and cannot remedy the failure in the time
and with the energies still at their disposal.
The
suicides of this period are not the expression of a punitive superego, but a
remedial act—the wish to wipe out the unbearable sense of mortification and nameless shame imposed by the ultimate recognition of a failure of
all-encompassing magnitude
Kohut (1977) citato
da Morrison (1983)
L’approccio di Kohut al
narcisismo ha consentito di rivalutare il ruolo della vergogna nella teoria
psicoanalitica, tanto da meritare successivamente la definizione di Broucek (1982) “shame
is to self-psychology what anxiety is to ego psychology – the keystone
affect”
(p. 369). Il lavoro di Kohut segna un primo passo nel cambiamento definitivo del paradigma
psicoanalitico verso le relazioni oggettuali, anche se il suo inserimento all’interno
delle teorie definite come tali, è controversa (Greenberg, Mitchell, 1983). L’attenzione
alla condizione “psicotica” – narcisistica e borderline – precedentemente ritenuta
difficilmente trattabile, viene reinterpretata da Kohut (1959) come struttura
di personalità fortemente connotata da un deficit nel senso del Sé. Questo tipo
di condizione, è caratterizzata da forti bisogni di dipendenza; una dipendenza
che non è manifestazione di una fissazione orale come erroneamente concepito da
Freud (1905), bensì di un bisogno concreto di appoggio che si manifesta
chiaramente nel transfert. Kohut (1959) riconosce pertanto che le dinamiche di
transfert non riguardano soltanto una ripetizione del passato, ma anche la
necessità del paziente di un oggetto-sé in grado di sostenere i suoi bisogni
relativi soprattutto alla possibilità di essere visto da un Altro, ad es. il
terapeuta, per poter raggiungere un senso di stabilità (Kohut, 1971).
Nel modello dello sviluppo
kohutiano, i genitori fungono da oggetto-sé. Il compito principale dell’oggetto-sé
è quello di svolgere una funzione speculare, ovvero fornire risposte empatiche
che permettono il dispiegarsi dell’esibizionismo e della grandiosità del
bambino. Il bambino in questo modo è in grado di elaborare il proprio Sé
grandioso (2-4 anni) ovvero la sua iniziale onnipotenza (Kohut, 1966).
Mediante l’idealizzazione dell’immagine parentale (imago parentale
idealizzata) il bambino ricava (interiorizzazione trasmutante) un
senso di uguaglianza al genitore forte e potente, cosiché è consentita la
formazione dell’ideale dell’Io. La frustrazione adeguata alla fase di sviluppo
permette di elaborare, in modo graduale, l’iniziale onnipotenza del bambino e di
interiorizzare la funzione speculare dell’oggetto-sé (ovvero la sua modalità
relazionale) ed il senso di essere uguale ad un ideale, consentendo la
formazione del Sé nucleare. Tra i 4 e i 6 anni il bambino potrà procedere
all’elaborazione del Sé bipolare – costituito dall’ideale dell’Io
ricavato dagli oggetti-sé idealizzabili e dalle ambizioni realistiche, ciò che
realmente si è in grado di fare – ovverosia il senso di avere delle risorse e
delle intenzioni. Agendo in questo modo, il genitore rende possibile al bambino
vivere l’esperienza dell’individualità (Kohut, 1971).
Quando invece i genitori
falliscono nel loro ruolo di oggetto-sé si genera l’angoscia di disintegrazione
(Kohut, 1977); ovvero una minaccia al proprio senso di identità. Il Sé
grandioso viene scisso – dando origine al senso di vanagloria, orgoglio,
arroganza – oppure rimosso – dando luogo a sentimenti di impoverimento (Self
depletion), bassa autostima, vergogna, depressione (Kohut, 1971). Ne deriva
un disturbo narcisistico in quanto il Sé grandioso non può essere neutralizzato
poichè non ha ricevuto sufficiente rispecchiamento
(Kohut, 1972, 1977).
L’incontro
tra il bisogno del paziente e la funzione rappresentata dal rapporto affettivo
del terapeuta oggetto-Sé, diventa quindi un’unità primaria nello sviluppo
psichico. Kohut (1971) teorizzerà a tale proposito tre tipi di transfert di
oggetto-sé: speculare, idealizzante e gemellare.
Kohut
(1971) nota come le specifiche
esperienze patologiche del narcisismo cadono nello spettro che va dall’ansia
grandiosa e dall’eccitamento da una parte, al mite imbarazzo e consapevolezza
di sé o estrema vergogna, ipocondria e depressione dall’altra (p. 200). Similarmente,
come definizione della depressione, Kohut (1977) parla di una depressione “senza
colpa”, definita dal fallimento a raggiungere ambizioni e ideali, che può
essere considerata una sostituta della vergogna. Di fatto colpa e vergogna
sembrano correlare tra loro, ed è possibile distinguere manifestazioni
depressive caratterizzate da colpa, o manifestazioni depressive caratterizzate
da vergogna. A seconda se predomina la perdita o l’aggressività, o il
fallimento nel vivere un ideale. Inoltre, è messo in evidenza come la vergogna e il conflitto predominano
spesso nei suicidi portati a termine. Kohut (1977) parla di una tremenda hopelessness,
o letargia, di quelle depressioni senza colpa e autodirette, che sovrastano
quelli che sentono di aver fallito e non possono rimediare, con energie ancora
a loro disposizione. Il suicidio in questo caso non è un’espressione di un
superio punitivo, ma un atto di rimedio, per scacciare il senso soverchiante di
mortificazione e vergogna senza nome imposta dal riconoscimento del fallimento
di grandezza onnicomprensiva.
Pertanto
Kohut (1971, p. 181) non riconosce la vergogna come dovuta al confronto con un
ideale dell’Io, bensì all’esibizionismo “costituzionale” del Sé non
neutralizzato (Morrison, 1984).
I
disturbi del Sé possono essere differenziati, secondo Morrison (1984) in
primari e secondari, i disturbi secondari riguardano la reazione “acuta e
cronica” di un sé consolidato alle esperienze dell’infanzia, dell’adolescenza e
della maturità che implicano un sé sufficientemente coeso, mentre nei disturbi
primari la
la
vergogna non ha lo spazio necessario ad emergere, in quanto il sé non è in
grado di registrare tale sentimento poiché sovrastato dal carico del panico e
della diffusione dei confini (p. 83). Secondo Morrison (1984), l’antidoto alla
vergogna riguarda l’accettazione. Nel
trattamento psicoanalitico dei pazienti depressi, è necessario non trascurare
la rabbia narcisistica che deriva esattamente dalla mancanza di consapevolezza
riguardo il senso di vuoto e fallimento dovuto agli obiettivi non conseguiti
del Sé grandioso, che rendono il Sé non accettabile.
La
concezione di Kohut (1972) di rabbia narcisistica, riguarda infatti in maniera
complementare la vergogna: l’Uomo Tragico
è colui che non è in grado di riconoscere sé stesso, in quanto soffre di un
vuoto che risulta dal mancato rispecchiamento ricevuto dall’ambiente. Ciò causa
una vulnerabilità primaria alla rabbia, in quanto la persona stessa è
drammaticamente incapace di riconoscere chi è; parafrasando la citazione di
Winnicott (1967), “non trova sé stesso”.
![]() |
Schema dell’approccio
terapeutico secondo Kohut (1971).
|
La vergogna sperimentata come
evento relazionale può attivare difese molto rigide, come il diniego, la
dissociazione e la costruzione di strategie protettive come “i rifugi della
mente” (Steiner 1993), utili a preservare il sé da sentimenti di impotenza,
abbandono e vergogna. Queste difese, se non riconosciute, possono impedire
sia la comunicazione, sia la simbolizzazione dell’esperienza traumatica
stessa nella forma di un linguaggio comunicabile. La dissociazione può
presentarsi sottoforma di “scissione verticale”[9]
così come indicato da Kohut (1971), in cui è possibile osservare due
rappresentazioni del sé distinte; una di tipo maniacale, l’altra di tipo
depressivo con relativi sentimenti di autosvalutazione e vergogna, che possono
portare nei casi estremi al suicidio.
Broucek
It
is important to distinguish between
shame
stress,
the
narcissistic affect shame,
and
the process which regulates this affect,
shame regulation.
Broucek
(1982)
Broucek (1982) ha studiato la vergogna e le sue connessioni
con lo sviluppo narcisistico. Secondo l’autore “significant shame experiences
may occur in the first one and a half years of life” (p. 372); e riguardano in
essenza lo sviluppo del senso di sé. Broucek considera indici di una risposta
di vergogna la postura, come ad es.
il capo chino o l’allontanamento dello sguardo dei bambini il cui intento
non è riuscito mentre un loro interesse era stato attivato. Broucek (1991) respinge l’ipotesi di una barriera innata per
gli affetti di eccitazione o di gioia, citando casi
in cui l’eccitazione o la gioia
vengono interrotti, mentre sorge la vergogna. La proposta di Broucek è
che queste prime fonti di vergogna o senso di colpa sono il risultato delle esperienze del bambino d’inefficacia interpersonale. In questo
modo Broucek lega
lo sviluppo positivo del senso di
sé all’efficacia, in particolare
nelle relazioni interpersonali, mentre la vergogna emerge quando si verificano degli
errori. Secondo Broucek (1982)
la vergogna emerge quando il contatto con la madre si interrompe:
[I]n the infant’s contacts with mother
at those moments when mother becomes a stranger to her infant. This happens
when the infant is disappointed in his excited expectation that certain
communicative and interactional behavior will be forthcoming in response to his
communicative readiness ... shame arises from a disturbance of recognition,
producing familiar responses to an unfamiliar person, as long as we understand
the “different” mother to be the unfamiliar person. That a mother (even a “good
enough” mother) can be a stranger to her own infant at times is not really
surprising since the mother’s moods, preoccupations, conflicts and defences
will disturb her physiognomy and at times alter her established communication
patterns [p. 370].
L’autore
afferma che la vergogna è l’esperienza affettiva di base di dispiacere e dolore
psichico associata con i disturbi del narcisismo. La “Nameless shame” di Kohut (1977),
ha origine nel periodo sensomotorio e nonverbale, quando sia la componente dell’ideale
dell’Io che il Superio sono operativi. La colpa emerge solo nel periodo
verbale, che riguarda lo sviluppo della coscienza e l’interiorizzazione dei
valori morali. La vergogna inoltre secondo l’autore è intimamente connessa alla
sessualità; egli ipotizza che la vergogna è una fonte primaria d’inibizione,
che limita la forza della vita erotica. Al contrario di Freud, tuttavia,
Broucek afferma che non è la civiltà che si è sviluppata intorno alla
possibilità di inibire il desiderio sessuale, ma sono i vincoli innati della
sessualità con la vergogna ad aver svolto un ruolo fondamentale nella
costruzione della civiltà. A sostegno di questa ipotesi afferma che l’aumento
dell’incidenza della depressione, insieme al diffuso senso di disperazione,
riguarda la sensazione che la vita ha perso significato, e ciò è riconducibile
alle violazioni della funzione di protezione che deriva dalla vergogna nel
garantire ad esempio all’individuo psichicamente ancora immaturo, come un
adolescente, di essere coinvolto in un livello di intimità fisica maggiore di
quanto sia psicologicamente preparato a gestire. Un
interessante concetto esposto da Broucek (1991) è quello di oggettivazione: i bambini diventano
consapevoli che sono oggetto di controllo sia degli altri che di se stessi.
Secondo Broucek questa esperienza frantuma la relazionalità con caregivers che
il bambino aveva precedentemente dato per scontata. I bambini diventano così in
grado di distinguere tra le esperienze in cui la loro soggettività viene
rispettata, e quelle in cui vengono trattati soprattutto come “oggetti”. Essere
trattati senza considerazione verso i propri sentimenti e interessi può
assumere molte forme, tra cui la vergogna. La vergogna verrà da quel momento in
poi attivata quindi ogni volta che i bambini saranno trattati come oggetti, e
soprattutto quando sperano o si aspettano di ottenere uno scambio soggettivo. Secondo
Broucek (1991) per tutta la vita sperimentiamo momenti in cui “esistiamo con l’altro
in un campo di esperienza affettiva condivisa e in sovrapposizione di coscienza”
e momenti di 'coscienza disgiuntiva', in cui c’è un godimento reciproco come
meri oggetti” (p. 46). “Nello stato di improvvisa, non cercata, o indesiderata
auto-oggettivazione l’esperienza immediata di un individuo di realtà dell’essere
può essere persa, con conseguente vergogna e trasformazione del mondo
interpersonale e fenomenale come disorientante. In quei momenti il mondo può
sembrare in pericolo di collasso ... e di conseguenza, in una sorta di
vertigine” (p. 40).
Broucek
(1991) propone quindi che l’esperienza della vergogna di sentirsi un mero “oggetto” possa essere una fonte di derealizzazione, depersonalizzazione, e la frammentazione del
senso di Sé coeso; questa concezione è stata definita da Lichtenberg (1994) un
importante contributo alla comprensione degli stati traumatici.
Dal
punto di vista della situazione analitica, Broucek (1991) afferma che un certo
grado di oggettivazione del paziente avviene sempre quando si legge il suo
comportamento alla luce di una teoria, e ciò rischia di mettere il paziente
nella condizione di provare vergogna (p. 101). D’altra parte l’uso del lettino
in analisi consente di ridurre al minimo la possibilità che il paziente provi
vergogna, ma bisogna anche considerare il rischio che ciò si traduca in una
manchevolezza nell’analisi di tale aspetto del paziente (p. 86).
Thrane
I am ashamed of what I
am.
Shame therefore
realizes an intimate relation of myself to myself.
Through shame I have
discovered an aspect of my being
Sartre (1943, p. 221).
The guilty person focuses on the act;
a man ashamed, on himself.
A
man who is ashamed
is
ashamed of what he is.
Thrane (1979)
Secondo Thrane (1979), non è un caso
che gli adolescenti siano particolarmente inclini alla vergogna: essa, è strettamente
connessa all’identità. Per l’adolescente, l’obbedienza agli ammonimenti dei
genitori assume il significato di essere all’altezza degli ideali degli adulti.
La vergogna consta, secondo l’autore di
due aspetti: uno è personale, ovvero relativo agli ideali di sé – come
ad esempio la forma del proprio corpo; definito dall’autore “l’oggetto
primordiale della vergogna”–, mentre l’altro riguarda l’aspetto sociale. In
questo caso la vergogna riguarda gli altri: in particolare “essere di fronte
agli altri”. Ad esempio, arrossire o sudare sono risposte sociali alla vergogna,
così come il desiderio di non essere visibili agli altri può essere tale da
suicidarsi. La vergogna è vissuta come un colpo all’immagine di sé, mentre la
colpa riguarda un senso di “aver preso più di quanto sia giustamente proprio”.
Mentre nella vergogna si cerca il segreto, nella colpa si cerca la confessione.
Il colpevole si concentra sul gesto, un uomo che prova vergogna, su se stesso.
Un antidoto alla vergogna è l’umorismo:
coloro che sono in grado di ridere di se stessi si sentono superiori alle loro
debolezze e mancanze, e la vergogna viene pertanto dissipata. Ciò che cambia
secondo Thrane (1979) è il senso di essere attivi rispetto a tale sensazione: “Il
clown che fa ridere gli altri di se stesso non si sente umiliato, poiché è egli
stesso ad averli fatti ridere “ (Piers, 1953 p. 42).
Citando Walsh (1970) Thrane afferma che
una fonte importante di vergogna o orgoglio riguarda le origini, le
istituzioni di cui si fa parte, la cultura e le persone associate allo sviluppo
in quanto esse definiscono considerevolmente l’identità dell’individuo.
La vergogna dipende infatti dai
processi di identificazione, così come suggerito anche da Erikson nel modello
dello sviluppo dell’identità (1950). Tuttavia solo alcune identificazioni
possono essere scelte, infatti quelle più importanti come ad esempio quelle infantili o inconsce, non vengono scelte.
La vergogna inoltre è relativa agli ideali. Per vergognarsi è necessario sentire che si è privi di valore,
spregevoli invece che ammirevoli, perdere l’autostima e l’amore di sé,
allontanarsi da sé stessi con disgusto, e aspettarsi che gli altri facciano
altrettanto, temere i loro sguardi di disprezzo, e desiderare di essere
invisibile.
In tal senso mentre la vergogna è
orientata all’esterno, il senso di colpa è orientato internamente. La
vergogna implica un pubblico, anche se solo nella fantasia. Tale esperienza
diventa condivisibile solo dopo che si è superata attraverso un riadattamento
di ideali, o dell’umore. Ma ciò che si cerca non è il perdono, bensì l’accettazione
che diventa una conferma della propria identità.
La vergogna a quel punto diventa una
responsabilità dell’individuo in quanto ha in precedenza svolto un ruolo di
protezione nei confronti dell’identità; nel momento in cui era in atto una
costruzione amorevole di sé.
Secondo Thrane (1979), il paziente
arriva in analisi insoddisfatto della sua identità, tale vergogna circa il suo
essere produce migliori potenzialità di cambiamento. La vergogna, come afferma
anche Kohut manca soltanto in presenza di un sé completamente disintegrato, in
quanto relativo ai disturbi primari del Sé.
La stessa intrusione del terapeuta nel
regno privato del sé, può indurre nel paziente molta vergogna. Il transfert di
idealizzazione e identificazione può essere utilizzato come un modo per
scongiurare la vergogna.
Thrane inoltre considera la vergogna
dell’analista una protezione della propria integrità psichica riguardo all’osservazione
del mondo privato del paziente: tale vergogna riguarda il riconoscimento che il
paziente è qualcun altro e non un semplice oggetto di tecnica. In questo modo
il senso di vergogna dell’analista, produce
l’ideale di riservatezza come una certezza evidente, invece che come un’esternazione
imbarazzante imposta da considerazioni di prudenza. La pratica della
psicoterapia è un mestiere solitario in molti modi e pertanto il senso di
vergogna è sicuramente una causa parziale di solitudine; tuttavia afferma
Thrane, il terapeuta che non prova vergogna per i suoi pazienti potrebbe perdersi
nel mondo privato dei suoi “casi”. L’aiuto di altri colleghi diventa una
costellazione narcisistica di pezzi di un puzzle, pertanto il senso di vergogna
dell’analista è un riconoscimento dell’alterità irrevocabile e della naturale
dignità del paziente.
Amati Sas
Da
uno studio sistematico sulla vergogna, l’autrice Amati Sas (1992) percorre come
via d’unione alle differenti teorie sul tema, quello dell’ambiguità. Ciò è
dovuto principalmente al fatto che le teorie degli autori incrociate, non
corrispondono tra loro, a maggior ragione con gli esempi che vengono riportati.
Tuttavia differenti approcci teorici messi insieme consentono una visione
unitaria sul tema.
L’esperienza
clinica dell’autrice riguarda soprattutto il lavoro con pazienti che riportano
eventi traumatici importanti. Elementi di vergogna emergono chiaramente in
questo tipo di pazienti che combattono con sentimenti di alienazione e
conflitto (Amati Sas, 1989). Bettelheim
(1943) ha notato che una persona esposta a condizioni estreme
si comporta in un
modo che essa stessa non approva.
La persona rimane con differenti immagini di sé che corrispondono a contesti diversi e non possono essere introdotti in un unico
registro.
In queste situazioni, l’elaborazione
della vergogna presuppone la capacità di accettare la sfida di scoprire
molteplici varianti della propria immagine a seconda delle circostanze, e il
placare il conflitto interno che ne deriva, così come la continua necessità di ristabilire la
propria continuità e coerenza, cioè il senso della propria identità.
L’ambiguità è caratterizzata dalla
possibilità di adattamento, malleabilità, permeabilità e non conflittualità all’interno
della personalità.
La parte più dipendente della personalità diventa particolarmente
evidente nelle circostanze in cui
una persona esposta a condizioni estreme sente di aver perso la sua continuità.
In queste circostanze traumatiche,
gli aspetti ambigui della personalità − i residui dell’indifferenziazione primaria (di solito scissi, proiettati
e depositati nel quadro stabile
degli oggetti esterni), invadono
l’Io più maturo, integrato
e differenziato. Questa ‘regressione all’ambiguità’
corrisponde a quello che Winnicott
chiama 'fear of breakdown’, Anna Freud ‘fear of surrender’ e Masud Khan ‘dread of resourceless dependance’. Essa è vissuta dalle vittime di situazioni estreme come un cambiamento, una ‘nuova verità’, in cui,
inaspettatamente devono ‘adattarsi e familiarizzare
con qualsiasi cosa’ (Amati
Sas, 1985).
La vergogna può
essere facilmente
definita come una sensibilità propria del ‘campo narcisistico’,
relativa ai legami simbiotici che
si accompagnano sempre alle relazioni oggettuali.
Per comprendere la vergogna, è importante notare la reciprocità del legame simbiotico, in cui ognuno è il potenziale depositario di ansie e incertezze altrui. Il legame simbiotico, che è mutuo e tacito, comporta la capacità di essere il depositario dell’ambiguità di un altro.
Per comprendere la vergogna, è importante notare la reciprocità del legame simbiotico, in cui ognuno è il potenziale depositario di ansie e incertezze altrui. Il legame simbiotico, che è mutuo e tacito, comporta la capacità di essere il depositario dell’ambiguità di un altro.
Quando si è nella posizione dell’oggetto ausiliario, ci si assume la responsabilità per la propria ambivalenza verso gli aspetti ambigui dell’altro (ciò è particolarmente evidente
nella posizione dello psicoanalista).
Vergogna e ambiguità possono essere pertanto connesse. Quando l’ambiguità predomina nella personalità, non si manifesta la vergogna. Tuttavia, se il senso di vergogna diventa troppo angosciante, il soggetto può difendersi contro di essa diventando indefinito o confuso.
Vergogna e ambiguità possono essere pertanto connesse. Quando l’ambiguità predomina nella personalità, non si manifesta la vergogna. Tuttavia, se il senso di vergogna diventa troppo angosciante, il soggetto può difendersi contro di essa diventando indefinito o confuso.
Nel momento in cui emerge la
vergogna, l’Io può essere spinto a intraprendere un lavoro di conoscenza e simbolizzazione,
perché è costretto a ‘funzionare’, al fine di recuperare l’equilibrio
perduto nel suo senso di continuità e
coerenza. In questi casi si può ricorrere a un intervento
preventivo (gesti o comportamenti),
oppure si può intraprendere uno sforzo più complesso di rappresentazione e simbolizzazione, inducendolo mediante un diverso registro. Nei
casi di vergogna catastrofica
che travolge il
senso di continuità del sé,
è necessario un periodo di elaborazione e ‘contestualizzazione’ più lungo; un maggiore sforzo per recuperare i propri punti
di riferimento interni ed esterni (come si può osservare nel processo
terapeutico dei superstiti).
[1] L’essere per altri non è una relazione oggettiva,
conoscitiva, tra me e l’altro, ma una relazione d’essere, che si coglie immediatamente
negli stati o affetti psicologici come la vergogna.
[2] La difesa è definita da Freud (1895): “un’avversione a
dirigere l’energia psichica in modo da produrre dispiacere” (p. 49).
[3] Ricordiamo che Freud suddivise le nevrosi in attuali (derivanti da disfunzione
somatica sessuale) e psiconevrosi
(relative a un conflitto). La nevrosi narcisistica ad esempio, figura tra le
psiconevrosi, ovvero tra le patologie più vicine alla psicosi che alla nevrosi.
In tal senso questa classificazione verrà poi accolta significativamente da
Kohut (1959) per mettere in evidenza il diverso ambito d’azione per la
psicoanalisi quando essa riguarda un paziente nevrotico o psicotico.
[4] Negli “Studi sull’isteria”
(1892-95) Freud fornisce una definizione di trauma psichico come “qualsiasi
esperienza provochi gli affetti penosi del terrore, dell’angoscia, della
vergogna, del dolore psichico” (p. 177).
[6] “Elasticità della
tecnica psicoanalitica” (1928).
[7] Gli indipendenti inglesi hanno definito il bambino come un
essere programmato per ottenere un’interazione armoniosa e uno sviluppo non
traumatico, che può incorrere in cure genitoriali inadeguate (Mitchell e Black,
1995): “Bowlby citava come una pietra miliare nel sorgere della sua linea di
pensiero indipendente il momento in cui si alzò con aria di sfida per affermare
nel mezzo di una di queste discussioni: “Ma le cattive madri esistono davvero”
(p. 140). Tale espressione segnò lo sviluppo delle teorie inglesi
postkleiniane.
[9] I concetti di scissione orizzontale e verticale in Kohut
(1971) riguardano nel primo caso una rimozione del nutrimento narcisistico
proveniente da determinate fonti; mentre
nel secondo caso dalla negazione completa di un intero aspetto della realtà
psichica del soggetto dal Sé centrale (p. 176; p. 195). Il compito
dell’analista è quello di abolire entrambe le barriere.
Amati Sas, S. A. (1988), Rcuprer la honte In Violence d’tat et Psychanalyse ed. J. Puget, R. Kas. et al. Paris: Dunod,1989.
Amati Sas, S. A. (1992), Ambiguity as the Route to Shame. Int. J. Psycho-Anal., 73:329-341.
Bettelheim, B. (1943), Individual and mass behaviour in extreme situations J. Abnormal Social Psychology. 38, 417-452
Broucek, F. J. (1982), Shame and its Relationship to Early Narcissistic Developments. Int. J. Psycho-Anal. 63:369-378
Broucek, F. J. (1991). Shame and the Self. New York: The Guilford Press.
Ciocca, A. (2003), Appunti di psicoanalisi. La Biblioteca by ASPPI collana Strumenti
Erikson, E. (1950), Infanzia e società. Armando Editore
Ferenczi, Sándor (1933). The Confusion of tongues. In M. Balint (ed.), Selected Papers of Sándor Ferenczi, vol. 3. New York: Basic Books, 1955
Ferenczi, S. (1911), Opere. Raffaello Cortina, Milano
Ferenczi S. (1932), The clinical diaries. Dupont J, ed. Cambridge: Harvard University Press, 1988
Freud, S. (1892-1895), Studi sull’isteria. Tr. it. in Opere vol. I, Bollati Boringhieri, Torino
Freud, S. (1899), L’interpretazione dei sogni. Tr. it. in Opere, vol. III, Bollati Boringhieri, Torino, 1968
Freud, S. (1915-1917), Introduzione alla psicoanalisi. Tr. It. in Opere vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino 1978
Freud, S. (1926), Inhibitions, Symptoms, and Anxiety. Standard Edition 20 77-175 London: Hogarth Press, 1959
Frølund, L. (1997). Early shame and mirroring. Scand. Psychoanal. Rev., 20:35-57
Greenberg, J. R., Mitchell S. A. (1983), Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica. Tr. it. Il Mulino, Bologna 1986
Kilborne, B. (1998). Ferenczi, Regression and Shame. Int. Forum Psychoanal., 7:225-228
Kohut, H., (1959-1981), Introspezione ed empatia. Raccolta di scritti. Bollati Boringhieri, Torino, 2003
Kohut H. (1966), Forme e trasformazioni del narcisismo. In Kohut H. (1978), La ricerca del Sé. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1982
Kohut, H. (1971), Narcisismo e analisi del Sé. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1976
Kohut, H., (1972), “Pensieri sul narcisismo e sulla rabbia narcisistica”. Tr. it. in La ricerca del Sé. Bollati Boringhieri, Torino, 1982
Kohut, H. (1977), La guarigione del Sé. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2002
Laplanche, J. e Pontalis, J.B. (1967), Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari, 1981
Lichtenberg, J. W. (1983), Psychoanalysis and Infant Research, Lawrence Erlbaum Associates, New Jersey
Lichtenberg, J (1994), Shame and the self. Psychoanal. Q., 63:124-129
Mitchell S. A., Black M. J. (1995), L'esperienza della psicoanalisi: Storia del pensiero psicoanalitico moderno. Bollati Boringhieri, Torino 1996
Morrison, N. K. (1987), The rôle of shame in schizophrenia. In: The Rôle of Shame in Symptom Formation, pp. 51-87, ed. H.B. Lewis, New Jersey: Lawrence Erlbaum Ass
Morrison, A. P. (1983), Shame, the ideal self, and narcissism. Contemp. Psychoanal., 19, 295-318
Morrison, A. P. (1984), Shame and the Psychology of the Self. In Kohut's Legacy: Contributions to Self Psychology. Edited by Paul E. Stepansky and Arnold Goldberg. The Analytic Press, Hillsdale, N. J.
Sartre, J.-P. (1943), Being and Nothingness. New York: Philosophical Library, 1956
Steiner S., (1993), I rifugi della mente, Boringhieri, Torino, 1996
Thrane, G. (1979). Shame and the Construction of the Self. Annu. Psychoanal., 7:321-341
Winnicott, D.W. (1967). The location of cultural experience., Int. J. Psychoanal., 48:368–372