La grande onda di Kanagawa (神奈川沖浪裏 Kanagawa Oki Nami Ura?, lett. Sotto un'onda di Kanagawa) è una xilografia, in stile ukiyo-e, del pittore giapponese Hokusai (1760-1849). E' la prima e la più celebre tra quelle che compongono la serie intitolata 36 vedute del Monte Fuji. È stata pubblicata la prima volta nel 1832. |
Trauma e dissociazione sono concetti che hanno avuto un destino psicoanalitico controverso, un destino caratterizzato da flussi e riflussi di interesse teorico e clinico. Il concetto di trauma ha infatti accompagnato la nascita e lo sviluppo del pensiero psicoanalitico.
A differenza del concetto di dissociazione, esso ha continuato a restare al centro delle riflessioni
teoriche di analisti diversi. Freud (1914), anche dopo aver abbandonato la teoria
della seduzione – concludendo che, se era vero che le isteriche riconducevano i
loro sintomi a traumi inventati, “la novità consiste appunto nel fatto che
[...] creano tali scene nella loro fantasia” (p. 391) – mantenne due distinti modelli del trauma: come
esito di uno stato affettivo insostenibile, e come esito dell’affiorare di
un’idea o fantasia inaccettabile (Krystal, 1988). Successivamente Freud (1926),
nel tentativo di conciliare queste due visioni, descrisse il trauma come uno
stato in cui l’Io si trova
indifeso davanti al montare di pressioni pulsionali, siano esse di natura
esterna o interna.
E’ quindi grazie agli autori delle relazioni oggettuali
(Winnicott, Khan, etc.) che si assiste ad un recupero dell’importanza del
concetto di “trauma ambientale”
e dell’idea che non sia tanto il trauma o gli affetti scatenati da esso ad
avere potenzialità disturbanti, ma l’impossibilità che questi vengano gestiti e
regolati nella relazione con l’oggetto.
Come scrivono Stolorow e Atwood (1992) “dolore e patologia
sono due cose diverse” (p. 63). Balint (1969) sottolineava come avesse
importanza non l’evento in sé, quanto l’assenza di risposte di contenimento e
sollievo alle reazioni dolorose al trauma. E’ in tale assenza che si configura
la fonte reale degli stati traumatici e della psicopatologia. Questo concetto
veniva ribadito anche per quelle sottili “interferenze” (Winnicott, 1949),
sovrastimolazioni (Greenacre, 1958), ferite narcisistiche (Kohut, 1971), vale a
dire l’insieme di quei traumi “silenziosi” (Hoffer, 1952) e “cumulativi” (Khan,
1963) che possono verificarsi lungo il percorso dello sviluppo.
Diverso è stato invece il destino del tema della dissociazione. Dopo la rottura con Breuer, Freud introduce il concetto di
rimozione. Da allora, gli psicoanalisti hanno
trascurato lo studio degli stati di coscienza e dei fenomeni dissociativi per
concentrarsi sui temi del conflitto e
della rimozione.
La dissociazione ha tuttavia continuato ad attrarre
l’attenzione degli analisti, fino a essere recuperata grazie al lavoro di
Sullivan e di autori britannici (Fairbairn, 1952; Winnicott, 1971) e a
raggiungere oggi, tra gli attuali modelli psicoanalitici un aspetto di primo
piano.
La metafora della mente come entità monadica è stata così
sostituita da quella di un collage di organizzazioni e prospettive molteplici
che si sovrappongono, dove l’esperienza viene appiattita grazie ad un illusorio
senso di continuità (Bromberg, 2006).
Sul piano evolutivo questa nuova metafora organizzatrice si
traduce con l’idea che la precoce relazione madre-bambino rappresenti il
“luogo” in cui vengono costruiti i “ponti” tra i diversi stati del Sé: la madre
che aiuta il bambino a tollerare e negoziare la transizione degli stati e degli
affetti costituisce (e forma) nella mente un’esperienza di collegamento in
grado unire la molteplicità delle esperienze contraddittorie e mutevoli di Sé
(e di Sé con gli altri) (Pizer, 1998). Come spiega Bromberg (1998):
Il processo evolutivo che facilita la transizione tra stati
di consapevolezza deriva dalla capacità di una persona in salute di appianare
la consapevolezza dei cambiamenti, una conquista enormemente
facilitata dalla presenza di un caregiver che, attraverso un processo di
regolazione reciproca, aiuta il bambino a conseguire delle transizioni di stato
non traumatiche per mezzo di un’adeguata responsività interattiva alla sua
soggettività (p. 178).
Durante lo sviluppo, in cui le precoci esperienze formano le
fondamenta dei vari stati del Sé e i collegamenti tra loro, la dissociazione
consente lo sviluppo di una continuità, coerenza e integrità del senso del Sé.
Se però la discrepanza tra le esperienze è troppo ampia per essere tollerata, e
i “paradossi” non trovano una soluzione, il suo scopo diventa allora quello di
evitarne la dissoluzione traumatica (Bromberg, 1993). Interviene allora la
dissociazione a trasformare la normale molteplicità in una molteplicità
dissociata. La molteplicità dissociata del Sé è l’esito del crollo dei ponti che legano i diversi stati
del Sé allo scopo di preservare la necessaria illusione di unitarietà
(Bromberg, 1998).
Quando questa illusione di unità è minacciata in maniera
traumatica da un inevitabile, precipitoso sconvolgimento, essa diviene un
ostacolo poiché [l’individuo] rischia di essere sommerso da informazioni che
non può elaborare simbolicamente e trattare come uno stato di conflitto. Quando
l’illusione di unità è troppo pericolosa per essere mantenuta, quello che
chiamiamo compulsività e pensiero ossessivo può spesso servire per sostenere il
processo dissociativo riempiendo questi “spazi”, negando persino che siano mai
esistiti (Bromberg, 1993, pp. 111-112).
La dissociazione interviene allora a preservare la coerenza
personale, il senso di continuità e di sanità mentale “scollegando
ipnoticamente gli stati di consapevolezza incompatibili, consentendogli
l’accesso solo come esperienze mentali discontinue e senza nesso sul piano
cognitivo”. Il problema in questo caso è che “così facendo la cura diventa per
gli individui traumatizzati anche il loro problema principale” (Bromberg, 1994,
p. 196). E così, quello che in precedenza era la normale capacità dissociativa
della mente, una configurazione fluida di stati del Sé multipli che rendono la
persona in grado di “sentirsi uno in molti”, viene irrigidita all’interno di
una struttura mentale dissociata (Bromberg, 1998, p. 16). Un “sacrificio del Sé
[...] al servizio della sua conservazione” (Chefetz, Bromberg, 2004, p. 437).
L’effetto del trauma è il danneggiamento delle funzioni
integrative della mente. Quello che resta è una “amnesia retroattiva” una
“memoria somatica” priva di rappresentazione simbolica. Ai soggetti
traumatizzati, secondo Stern (1997), rimarrebbero parti di esperienze non
formulate, non espresse, perchè non hanno un contesto narrativo e un’esperienza
del Sé nella quale esistere. I vasti domini di sensazioni, percezioni e
pensieri associati al trauma, in attesa di essere formulati e dotati di
significato, vengono mantenuti non formulati dalla dissociazione: l’esperienza
non formulata riguarderebbe quindi ciò che non è stato portato alla coscienza,
non ciò che è stato eliminato dalla consapevolezza, ed è per questo inaccessibile alla riflessione e non
esprimibile con il linguaggio (1).
La sensazione di paura determinata dall’evento traumatico
continua ad essere sentita come reale, ma viene percepita
come un’aspettativa di quello che potrebbe accadere o che sta accadendo,
piuttosto che di quello che è accaduto. La sensazione, per il soggetto
traumatizzato, è quella di dover restare sempre “all’erta” per un pericolo che
– è sicuro – si sta per presentare, piuttosto che per il ricordo di un pericolo.
E’ da questa prospettiva che Bromberg si è recentemente
interessato ai sogni e al loro significato, tanto da intitolare il suo
penultimo lavoro Destare il sognatore (Bromberg, 2006).
Bromberg (2006) nota che talvolta un paziente può iniziare
la seduta dicendo “Non ho niente di cui parlare oggi; vorrei almeno aver fatto
un sogno”. Un’affermazione che, classicamente, viene letta come una forma di
resistenza, come se significasse: “Se avessi un sogno potrei evitarmi di
pensare al perché non ho nulla da dire oggi”. Per Bromberg (2006) invece questa
affermazione può essere letta come: “Ho voglia di raccontarle un sogno, ma non
ho alcun sogno” (p. 33); come cioè la voce di uno stato del Sé dissociato che
sta cercando di trovare una voce e che sta dicendo “Non ho niente di cui
parlare oggi, ma forse qualcun altro dentro di me sì”.
Per questo motivo, sostiene, se il “sogno” può essere
concepito come “il caso particolare più noto del più generale fenomeno della
dissociazione – la normale capacità autoipnotica della mente umana –
l’esperienza onirica potrebbe allora essere considerata la più comune tra le
attività dissociative della mente – e la sua funzione notturna uno sforzo adattivo
per gestire livelli minimi di esperienze non-me affettivamente disturbanti
senza compromettere l’illusione di veglia della coscienza” (Bromberg, 2006, p.
41).
In altre parole, l’uso del sogno in analisi, ad un certo
livello, viene concepito come un’esperienza transizionale che rende possibile
il potenziale collegamento di stati del Sé dissociati, consentendo alle voci
degli altri stati del Sé di essere ascoltate e avere accesso alla struttura
dinamica che il paziente definisce “me”. “Il processo attraverso cui ha luogo
tutto questo non è”, scrive Bromberg (2006, p. 41) “adeguatamente descritto
dall’espressione ‘interpretazione dei sogni’”. Piuttosto, l’autore tenta di
descriverlo come un graduale sviluppo di un dialogo tra lo stato del Sé di
veglia del paziente-come-paziente e lo stato del Sé onirico del
paziente-come-sognatore. Con questa metafora Bromberg si riferisce alla
necessità, per l’analista, di indirizzarsi direttamente ai processi
dissociativi che determinano il funzionamento della struttura dissociativa del
paziente.
L’esplorazione del sogno del paziente, quindi, non può
affidarsi esclusivamente all’interpretazione. Nella prospettiva di Bromberg
(1998) l’obiettivo della cura è quello di aiutare il paziente a prendere parte
e collegare i diversi aspetti di sé, favorendo così una maggior coerenza
dell’esperienza di “chi egli sia”, pertanto il sogno può diventare un
importante alleato: “Se accettiamo che il sognatore è dentro il suo sogno
(dentro una realtà psichica a sé), non solo il nostro modo di trattare i sogni
in psicoanalisi cambierà, ma tutto ciò che ha luogo tra noi e il nostro
paziente sarà sperimentato diversamente, compreso il modo in cui percepiamo e
usiamo transfert e controtransfert” (2006, p. 41).
Molto spesso, dice Bromberg (2006), gli analisti hanno avuto
la tendenza a colludere con l’esperienza vigile che i pazienti fanno del sogno,
considerandolo come qualcosa di alieno all’esperienza, qualcosa che può essere
conosciuto soltanto in modo indiretto, attraverso le associazioni sul sogno ricordato.
Al contrario, secondo l’autore, se si accetta che la realtà
“onirica” rappresenta un diverso stato di coscienza e che, il fatto che abbia
luogo durante il sonno, non rende la sua distanza dalla realtà vigile più
incolmabile di quella tra due qualsiasi stati del Sé
dissociati, allora è possibile pensare che si possa sognare ed essere vigili al
tempo stesso.
L’esplorazione del sogno diventa così il ricorso ad uno
spazio potenziale (Winnicott, 1971) in cui ciascun membro della relazione è in
grado di fare esperienza della realtà vigile dell’altro come se fosse il
proprio “sogno”: “In altre parole, la soggettività del paziente, per quanto
conoscibile direttamente solo dal suo autore, è, di fatto, accessibile
esperenzialmente all’analista come fosse un suo sogno e viceversa, aprendo uno
spazio in cui le realtà vigili di paziente e analista fanno posto ai potenziali
sognatori” (Bromberg, 2006, p. 43).
Sul piano tecnico, questo significa che “quando un paziente
porta un sogno in seduta, il compito dell’analista è quello di permettergli di
portare in seduta il sognatore” (p. 41). Si tratta, in altre parole, di
invitare il paziente a rivivere il sogno come se lo stesse sperimentando in
quel momento – un invito a rientrare nel proprio spazio onirico conservando, al
contempo, la sua realtà vigile.
Nella prospettiva di Bromberg (2006), il sogno, più che un
racconto da comprendere, è una realtà di cui fare esperienza con la maggiore
profondità possibile “come se stesse avendo luogo in questo momento” (p. 45).
Il principale compito psicoanalitico; “interpretare” il sogno, si trasforma
così nel tentativo di far nascere e sviluppare un dialogo tra il sé della
veglia del paziente-come- paziente e il sé onirico del paziente-come-sognatore.
Un metodo che sta a indicare “una moltitudine di processi attraverso cui stati
del Sé fluttuanti nel paziente e nell’analista appaiono sulla scena del dialogo
intersoggettivo generando, da entrambe le parti, maggiore coerenza nello stato
del Sé” (ibidem, p. 24).
(1) “Solitamente pensiamo alla consapevolezza come allo stato
naturale dell’esperienza. Immaginiamo che, se siamo inconsapevoli di un
qualcosa, sia necessario fare qualcosa per poterne diventare consapevoli. [...]
Ma che succede se capovolgiamo i termini e guardiamo alla comparsa
dell’esperienza nella consapevolezza non come lo stato di cose che si verifica
‘naturalmente’, ‘da solo’, o senza intervento, ma come un evento naturale?
...Che succede se la tendenza naturale delle cose è di restare al di
fuori della consapevolezza? Che succede se
azione e sforzo sono richiesti non per mantenere l’esperienza fuori dalla consapevolezza, ma per portarla al suo
interno?” (Stern, 1997, p. 85).
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