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martedì 17 giugno 2014

Philip Bromberg: il sogno come esperienza dissociativa


La grande onda di Kanagawa (神奈川沖浪裏 Kanagawa Oki Nami Ura?, lett. Sotto un'onda di Kanagawa) è una xilografia, in stile ukiyo-e, del pittore giapponese Hokusai (1760-1849). E' la prima e la più celebre tra quelle che compongono la serie intitolata 36 vedute del Monte Fuji. È stata pubblicata la prima volta nel 1832.


Trauma e dissociazione sono concetti che hanno avuto un destino psicoanalitico controverso, un destino caratterizzato da flussi e riflussi di interesse teorico e clinico. Il concetto di trauma ha infatti accompagnato la nascita e lo sviluppo del pensiero psicoanalitico.
A differenza del concetto di dissociazione, esso ha continuato a restare al centro delle riflessioni teoriche di analisti diversi. Freud (1914), anche dopo aver abbandonato la teoria della seduzione – concludendo che, se era vero che le isteriche riconducevano i loro sintomi a traumi inventati, “la novità consiste appunto nel fatto che [...] creano tali scene nella loro fantasia” (p. 391) – mantenne due distinti modelli del trauma: come esito di uno stato affettivo insostenibile, e come esito dell’affiorare di un’idea o fantasia inaccettabile (Krystal, 1988). Successivamente Freud (1926), nel tentativo di conciliare queste due visioni, descrisse il trauma come uno stato in cui l’Io si trova indifeso davanti al montare di pressioni pulsionali, siano esse di natura esterna o interna.

E’ quindi grazie agli autori delle relazioni oggettuali (Winnicott, Khan, etc.) che si assiste ad un recupero dell’importanza del concetto di “trauma ambientale” e dell’idea che non sia tanto il trauma o gli affetti scatenati da esso ad avere potenzialità disturbanti, ma l’impossibilità che questi vengano gestiti e regolati nella relazione con l’oggetto.

Come scrivono Stolorow e Atwood (1992) “dolore e patologia sono due cose diverse” (p. 63). Balint (1969) sottolineava come avesse importanza non l’evento in sé, quanto l’assenza di risposte di contenimento e sollievo alle reazioni dolorose al trauma. E’ in tale assenza che si configura la fonte reale degli stati traumatici e della psicopatologia. Questo concetto veniva ribadito anche per quelle sottili “interferenze” (Winnicott, 1949), sovrastimolazioni (Greenacre, 1958), ferite narcisistiche (Kohut, 1971), vale a dire l’insieme di quei traumi “silenziosi” (Hoffer, 1952) e “cumulativi” (Khan, 1963) che possono verificarsi lungo il percorso dello sviluppo.

Diverso è stato invece il destino del tema della dissociazione. Dopo la rottura con Breuer, Freud introduce il concetto di rimozione. Da allora, gli psicoanalisti hanno trascurato lo studio degli stati di coscienza e dei fenomeni dissociativi per concentrarsi sui temi del conflitto e della rimozione.

La dissociazione ha tuttavia continuato ad attrarre l’attenzione degli analisti, fino a essere recuperata grazie al lavoro di Sullivan e di autori britannici (Fairbairn, 1952; Winnicott, 1971) e a raggiungere oggi, tra gli attuali modelli psicoanalitici un aspetto di primo piano.

La metafora della mente come entità monadica è stata così sostituita da quella di un collage di organizzazioni e prospettive molteplici che si sovrappongono, dove l’esperienza viene appiattita grazie ad un illusorio senso di continuità (Bromberg, 2006).

Sul piano evolutivo questa nuova metafora organizzatrice si traduce con l’idea che la precoce relazione madre-bambino rappresenti il “luogo” in cui vengono costruiti i “ponti” tra i diversi stati del Sé: la madre che aiuta il bambino a tollerare e negoziare la transizione degli stati e degli affetti costituisce (e forma) nella mente un’esperienza di collegamento in grado unire la molteplicità delle esperienze contraddittorie e mutevoli di Sé (e di Sé con gli altri) (Pizer, 1998). Come spiega Bromberg (1998):

Il processo evolutivo che facilita la transizione tra stati di consapevolezza deriva dalla capacità di una persona in salute di appianare la consapevolezza dei cambiamenti, una conquista enormemente facilitata dalla presenza di un caregiver che, attraverso un processo di regolazione reciproca, aiuta il bambino a conseguire delle transizioni di stato non traumatiche per mezzo di un’adeguata responsività interattiva alla sua soggettività (p. 178).

Durante lo sviluppo, in cui le precoci esperienze formano le fondamenta dei vari stati del Sé e i collegamenti tra loro, la dissociazione consente lo sviluppo di una continuità, coerenza e integrità del senso del Sé. Se però la discrepanza tra le esperienze è troppo ampia per essere tollerata, e i “paradossi” non trovano una soluzione, il suo scopo diventa allora quello di evitarne la dissoluzione traumatica (Bromberg, 1993). Interviene allora la dissociazione a trasformare la normale molteplicità in una molteplicità dissociata. La molteplicità dissociata del Sé è l’esito del crollo dei ponti che legano i diversi stati del Sé allo scopo di preservare la necessaria illusione di unitarietà (Bromberg, 1998).

Quando questa illusione di unità è minacciata in maniera traumatica da un inevitabile, precipitoso sconvolgimento, essa diviene un ostacolo poiché [l’individuo] rischia di essere sommerso da informazioni che non può elaborare simbolicamente e trattare come uno stato di conflitto. Quando l’illusione di unità è troppo pericolosa per essere mantenuta, quello che chiamiamo compulsività e pensiero ossessivo può spesso servire per sostenere il processo dissociativo riempiendo questi “spazi”, negando persino che siano mai esistiti (Bromberg, 1993, pp. 111-112).

La dissociazione interviene allora a preservare la coerenza personale, il senso di continuità e di sanità mentale “scollegando ipnoticamente gli stati di consapevolezza incompatibili, consentendogli l’accesso solo come esperienze mentali discontinue e senza nesso sul piano cognitivo”. Il problema in questo caso è che “così facendo la cura diventa per gli individui traumatizzati anche il loro problema principale” (Bromberg, 1994, p. 196). E così, quello che in precedenza era la normale capacità dissociativa della mente, una configurazione fluida di stati del Sé multipli che rendono la persona in grado di “sentirsi uno in molti”, viene irrigidita all’interno di una struttura mentale dissociata (Bromberg, 1998, p. 16). Un “sacrificio del Sé [...] al servizio della sua conservazione” (Chefetz, Bromberg, 2004, p. 437).

L’effetto del trauma è il danneggiamento delle funzioni integrative della mente. Quello che resta è una “amnesia retroattiva” una “memoria somatica” priva di rappresentazione simbolica. Ai soggetti traumatizzati, secondo Stern (1997), rimarrebbero parti di esperienze non formulate, non espresse, perchè non hanno un contesto narrativo e un’esperienza del Sé nella quale esistere. I vasti domini di sensazioni, percezioni e pensieri associati al trauma, in attesa di essere formulati e dotati di significato, vengono mantenuti non formulati dalla dissociazione: l’esperienza non formulata riguarderebbe quindi ciò che non è stato portato alla coscienza, non ciò che è stato eliminato dalla consapevolezza, ed è per questo inaccessibile alla riflessione e non esprimibile con il linguaggio (1).

La sensazione di paura determinata dall’evento traumatico continua ad essere sentita come reale, ma viene percepita come un’aspettativa di quello che potrebbe accadere o che sta accadendo, piuttosto che di quello che è accaduto. La sensazione, per il soggetto traumatizzato, è quella di dover restare sempre “all’erta” per un pericolo che – è sicuro – si sta per presentare, piuttosto che per il ricordo di un pericolo.

E’ da questa prospettiva che Bromberg si è recentemente interessato ai sogni e al loro significato, tanto da intitolare il suo penultimo lavoro Destare il sognatore (Bromberg, 2006).

Bromberg (2006) nota che talvolta un paziente può iniziare la seduta dicendo “Non ho niente di cui parlare oggi; vorrei almeno aver fatto un sogno”. Un’affermazione che, classicamente, viene letta come una forma di resistenza, come se significasse: “Se avessi un sogno potrei evitarmi di pensare al perché non ho nulla da dire oggi”. Per Bromberg (2006) invece questa affermazione può essere letta come: “Ho voglia di raccontarle un sogno, ma non ho alcun sogno” (p. 33); come cioè la voce di uno stato del Sé dissociato che sta cercando di trovare una voce e che sta dicendo “Non ho niente di cui parlare oggi, ma forse qualcun altro dentro di me sì”.

Per questo motivo, sostiene, se il “sogno” può essere concepito come “il caso particolare più noto del più generale fenomeno della dissociazione – la normale capacità autoipnotica della mente umana – l’esperienza onirica potrebbe allora essere considerata la più comune tra le attività dissociative della mente – e la sua funzione notturna uno sforzo adattivo per gestire livelli minimi di esperienze non-me affettivamente disturbanti senza compromettere l’illusione di veglia della coscienza” (Bromberg, 2006, p. 41).

In altre parole, l’uso del sogno in analisi, ad un certo livello, viene concepito come un’esperienza transizionale che rende possibile il potenziale collegamento di stati del Sé dissociati, consentendo alle voci degli altri stati del Sé di essere ascoltate e avere accesso alla struttura dinamica che il paziente definisce “me”. “Il processo attraverso cui ha luogo tutto questo non è”, scrive Bromberg (2006, p. 41) “adeguatamente descritto dall’espressione ‘interpretazione dei sogni’”. Piuttosto, l’autore tenta di descriverlo come un graduale sviluppo di un dialogo tra lo stato del Sé di veglia del paziente-come-paziente e lo stato del Sé onirico del paziente-come-sognatore. Con questa metafora Bromberg si riferisce alla necessità, per l’analista, di indirizzarsi direttamente ai processi dissociativi che determinano il funzionamento della struttura dissociativa del paziente.

L’esplorazione del sogno del paziente, quindi, non può affidarsi esclusivamente all’interpretazione. Nella prospettiva di Bromberg (1998) l’obiettivo della cura è quello di aiutare il paziente a prendere parte e collegare i diversi aspetti di sé, favorendo così una maggior coerenza dell’esperienza di “chi egli sia”, pertanto il sogno può diventare un importante alleato: “Se accettiamo che il sognatore è dentro il suo sogno (dentro una realtà psichica a sé), non solo il nostro modo di trattare i sogni in psicoanalisi cambierà, ma tutto ciò che ha luogo tra noi e il nostro paziente sarà sperimentato diversamente, compreso il modo in cui percepiamo e usiamo transfert e controtransfert” (2006, p. 41).

Molto spesso, dice Bromberg (2006), gli analisti hanno avuto la tendenza a colludere con l’esperienza vigile che i pazienti fanno del sogno, considerandolo come qualcosa di alieno all’esperienza, qualcosa che può essere conosciuto soltanto in modo indiretto, attraverso le associazioni sul sogno ricordato.

Al contrario, secondo l’autore, se si accetta che la realtà “onirica” rappresenta un diverso stato di coscienza e che, il fatto che abbia luogo durante il sonno, non rende la sua distanza dalla realtà vigile più incolmabile di quella tra due qualsiasi stati del Sé dissociati, allora è possibile pensare che si possa sognare ed essere vigili al tempo stesso.

L’esplorazione del sogno diventa così il ricorso ad uno spazio potenziale (Winnicott, 1971) in cui ciascun membro della relazione è in grado di fare esperienza della realtà vigile dell’altro come se fosse il proprio “sogno”: “In altre parole, la soggettività del paziente, per quanto conoscibile direttamente solo dal suo autore, è, di fatto, accessibile esperenzialmente all’analista come fosse un suo sogno e viceversa, aprendo uno spazio in cui le realtà vigili di paziente e analista fanno posto ai potenziali sognatori” (Bromberg, 2006, p. 43).

Sul piano tecnico, questo significa che “quando un paziente porta un sogno in seduta, il compito dell’analista è quello di permettergli di portare in seduta il sognatore” (p. 41). Si tratta, in altre parole, di invitare il paziente a rivivere il sogno come se lo stesse sperimentando in quel momento – un invito a rientrare nel proprio spazio onirico conservando, al contempo, la sua realtà vigile.

Nella prospettiva di Bromberg (2006), il sogno, più che un racconto da comprendere, è una realtà di cui fare esperienza con la maggiore profondità possibile “come se stesse avendo luogo in questo momento” (p. 45). Il principale compito psicoanalitico; “interpretare” il sogno, si trasforma così nel tentativo di far nascere e sviluppare un dialogo tra il sé della veglia del paziente-come- paziente e il sé onirico del paziente-come-sognatore. Un metodo che sta a indicare “una moltitudine di processi attraverso cui stati del Sé fluttuanti nel paziente e nell’analista appaiono sulla scena del dialogo intersoggettivo generando, da entrambe le parti, maggiore coerenza nello stato del Sé” (ibidem, p. 24).



(1) “Solitamente pensiamo alla consapevolezza come allo stato naturale dell’esperienza. Immaginiamo che, se siamo inconsapevoli di un qualcosa, sia necessario fare qualcosa per poterne diventare consapevoli. [...] Ma che succede se capovolgiamo i termini e guardiamo alla comparsa dell’esperienza nella consapevolezza non come lo stato di cose che si verifica ‘naturalmente’, ‘da solo’, o senza intervento, ma come un evento naturale? ...Che succede se la tendenza naturale delle cose è di restare al di fuori della consapevolezza? Che succede se azione e sforzo sono richiesti non per mantenere l’esperienza fuori dalla consapevolezza, ma per portarla al suo interno?” (Stern, 1997, p. 85).

Bibliografia

Balint M. (1969), Il difetto fondamentale. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1983.
Bromberg P. M. (1993), Shadow and Substance: A Relational Perspective on Clinical Process. Psychoanalytic Psychology, 10, 147-168.

Bromberg, P. M. (1993), Discussion of “Obsessions and/or Obsessionality: Perspectives on Psychoanalytic Treatment”. by Walter E. Spear. Contemporary Psychoanalysis, 29, 90-100.

Bromberg, P. M. (1994), “Speak! That I May See You”: Some Reflections on Dissociation, Reality, and Psychoanalytic Listening. Psychoanalytic Dialogues, 4, 517-547.

Bromberg, P. M. (1998), Clinica del trauma e della dissociazione. Standing in the spaces. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2007.

Bromberg, P. M. (2006), Destare il sognatore. Percorsi clinici. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2009.

Chefetz R. A., Bromberg, P. M. (2004), Talking with “Me” and “Not Me”. Contemporary Psychoanalysis, 40(3), 409-64.

Fairbairn, W. R. D. (1952), Studi psicoanalitici sulla personalità. Bollati Boringhieri, Torino 1970.

Freud, S. (1912-1914), Totem e tabù e altri scritti. Tr. it. in Opere vol. VII, Bollati Boringhieri, Torino 1985.
Freud, S. (1926), Inibizione, sintomo e angoscia, Tr. it. in Opere, vol. X, Boringhieri, Torino 1978.
Greenacre, P. (1958), Early Physical Determinants in the Development of the Sense of Identity. Journal of American Psychoanalytic Association, vol. 6.

Hoffer, W. (1952), The Mutual Influences in the Development of Ego and Id. Psychoanalytic Study of the Child, VII, 31-41.

Khan, M. (1963), “Il concetto di trauma cumulativo”. In Khan, M. (1974), Lo spazio privato del Sé. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1979.
Kohut, H. (1971), Narcisismo e analisi del Sé. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1976.

Krystal, H. (1988), Integration and Self-healing: Affect-Trauma-Alexithymia. The Analytic Press, Hillsdale, NJ.
Pizer, S. A. (1998), Building Bridges: the negotiation of paradox in psychoanalysis. Routledge, 1998.

Stern, D. (1997), L’esperienza non formulata. Tr. it. Edizioni il Cerro, Firenze 2007.
Stolorow, R. D., Atwood, G. E. (1992), I contesti dell'essere: le basi intersoggettive della vita psichica. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1995.

Winnicott, D. W. (1949), The Ordinary Devoted Mother and Her Baby. Nine Broadcast Talks., London: Private Distribution Only
Winnicott, D. W. (1949), Hate in the counter-transference. Int. J. Psychoanal., 30:69–74.

Winnicott, D. W. (1971), Gioco e realtà. Armando Editore 1974.




giovedì 15 agosto 2013

Di Jonathan Shedler - Alcuni consigli su come scegliere un terapeuta



Il Freud Museum di Londra presenta Divan: pezzo di attenzione libera fluttuante, un progetto  dell'artista messicano Santiago Borja. La proposta di Borja mira a favorire nuove letture del lavoro di Freud in relazione alle culture non europee. http://www.freud.org.uk/exhibitions/72952/divan-free-floating-attention-piece/

Dopo aver insegnato a diverse generazioni di psicologi e psichiatri come fare psicoterapia, conosco una vasta gamma di terapie e teorie - per questo non le impongo ai miei pazienti.

Fate attenzione ai terapeuti troppo identificati con un "marchio" di terapia. Hanno già deciso come trattarvi ancor prima di avervi incontrato, figuriamoci ascoltarvi. Fate anche attenzione ai terapeuti che proclamano competenze in diverse forme di psicoterapia. Si può finire con un principiante, o qualcuno che si preoccupa di più di riempire la sua agenda, che della sua integrità.

Attenzione ai terapeuti che enfatizzano una specializzazione in determinate diagnosi o disturbi.
Una diagnosi ci dice poco su come aiutare. Le cause del dolore emotivo sono generalmente intrecciate nel tessuto della nostra vita, come viviamo, come vediamo noi stessi e gli altri, come ci rapportiamo con la gente o non riusciamo a rapportarci, ciò che desideriamo e ciò di cui abbiamo paura, come far fronte alle avversità e al successo, ciò che sappiamo di noi stessi e ciò che non vogliamo sapere.
Una importante competenza del terapeuta consiste nel capire come tale tessuto è intrecciato e come può potenzialmente essere ritessuto, e non nella diagnosi o nel disturbo.

Le prime sedute dovrebbero concentrarsi sullo sviluppo di una comprensione condivisa rispetto a ciò che costituisce realmente il problema, una comprensione che abbia senso per entrambi.
"Quella che è davvero la questione" non è la vostra depressione, ansia, o disturbo alimentare. Ma quello che sta succedendo psicologicamente, sotto la superficie delle cose, che causa questi problemi. Una visione condivisa di quello che è il problema fornisce un punto di riferimento per la terapia.
Una psicoterapia efficace ha un obiettivo.

Si può sviluppare una visione condivisa nel corso della prima seduta, oppure possono essere necessarie diverse sedute. Tale visione evolverà e cambierà con il progredire della terapia. Essa potrà essere rielaborata più volte: è dinamica, e non statica.
Ci dovrebbe essere un obiettivo tuttavia, fin dall'inizio, una base su cui costruire.

Molti terapeuti parlano di "alleanza terapeutica", ma pochi sembrano capire che cosa sia realmente. Alleanza terapeutica non significa soltanto che paziente e terapeuta vanno d'accordo, o che si trovano bene insieme. Non è un'alleanza basata su una cosa qualunque.
Un'alleanza terapeutica si basa su un comune, mutuo accordo sul compito da svolgere - un'alleanza su tutto il lavoro che c'è da fare.

Una buona alleanza terapeutica riguarda tre elementi:
1) il senso di legame,
2) un reciproco accordo circa l'obiettivo o scopo della psicoterapia,
3) un reciproco accordo sui metodi che paziente e terapeuta useranno a servizio di tale obiettivo.
Tutti e tre gli elementi sono necessari. Spesso riscontro il primo elemento senza gli altri due.

Una comprensione condivisa rispetto al problema deve essere realmente condivisa.
Non può essere soltanto la comprensione del terapeuta, o soltanto la comprensione del paziente.
E' qualcosa che paziente e terapeuta devono creare insieme, e che trascende ciò che ognuno di loro  saprebbe da solo.
Se si potesse raggiungere tale comprensione da soli, probabilmente non si avrebbe bisogno della terapia.
Il compito del terapeuta è quello di aiutare a risolvere il problema in un modo che non è fattibile stando da soli. Quando si arriverà a una comprensione condivisa, si avrà la consapevolezza di aver catturato qualcosa di importante.

Un'immagine di Jonathan Shedler, PhD, tratta dalla sua pagina Facebook, in cui ha postato questo articolo.

I miei studenti mi chiedono sempre cosa fare quando i pazienti non hanno idea di quale sia il problema.
Il paziente sa che c'è qualcosa che non va, ma non sa dire che cosa.
Sente un vuoto interiore, si sente perduto o bloccato, ma non ha idea del perché.
E' in questo caso che l'aiuto del terapeuta è essenziale, perché il terapeuta è in grado di offrire una prospettiva che il paziente non potrebbe avere da solo. Ad esempio il terapeuta può offrire il proprio punto di vista, cioè che il problema potrebbe essere che il paziente è estraneo rispetto a se stesso.
In questi casi si può dire al paziente: "Sente che qualcosa va molto male, ma non trova le parole per dirlo. Forse potrebbe aiutarla riuscire a trovare delle parole per descrivere ciò che va male. Se riusciamo insieme a trovare delle parole, saremo in grado di vedere le cose in modo più chiaro. Quando vediamo le cose più chiaramente, possiamo essere in grado di trovare una via d'uscita".

Poi si può chiedere, ed è fondamentale affinchè la comprensione sia realmente condivisa: "Pensa che sarebbe utile se riuscissimo a trovare delle parole per ciò che non va?".
Se il paziente entra in risonanza con questo - se sente anche lui che la ricerca di parole lo aiuterà - allora abbiamo un focus iniziale per il nostro lavoro.
Il compito condiviso è quello di trovare le parole. Il paziente non riesce a trovare le parole giuste da solo, e anche il terapeuta non può trovare le parole giuste senza l'aiuto del paziente; ma insieme sarà possibile trovarle.
Il focus del trattamento evolverà nel tempo, ma ora si ha un punto di partenza.

Se il paziente non è in sintonia con l'idea che la ricerca di parole potrà aiutarlo, bisogna tornare indietro e continuare a esplorare finchè non si trova un obiettivo sul quale entrambi siano d'accordo, e che sia per entrambi fruttuoso, da cui poter ripartire.

Non sempre un "sì" è la vera risposta.
Se il paziente è d'accordo con una particolare visione del trattamento proposta, ma si impegna nella terapia in un modo che suggerisce accondiscendenza, non c'è una visione condivisa. E' solo una  comprensione parziale del problema, e non condivisa.
Se il paziente è d'accordo soltanto perché presume che il terapeuta ne saprà più di lui perché è l'"esperto", non c'è una comprensione condivisa.
Anche in questo caso, bisogna tornare indietro e continuare ad esplorare.
(Ma ora abbiamo anche una nuova ipotesi su ciò che potrebbe costituire il problema. Se il paziente ha l'abitudine di delegare ad altri ciò che è giusto per lui, invece di padroneggiare i propri pensieri e sentimenti, questo potrebbe essere la causa di ciò che non va e del perché non trova delle parole per dirlo. Si solleverà quindi la questione al fine di porla in considerazione).

Quando scrivo di psicoterapia, divento più consapevole della terminologia. Per questo motivo avverto la necessità di spendere qualche parola a proposito dell'utilizzo del termine 'paziente' rispetto al termine 'cliente'.
Molti terapeuti, e diversi psichiatri, definiscono i loro assistiti come "clienti".
Personalmente ho dubbi su entrambe le parole.
Le persone che vengono da me per un trattamento hanno bisogno di aiuto, a volte con urgenza. Alcuni sentono di avermi affidato letteralmente la loro vita.
Il lavoro che facciamo ha profonde conseguenze, spesso permanenti (se non non fosse così, non sarebbe psicoterapia).
Ad ogni modo dal mio punto di vista, la metafora medica ('paziente') appare più congrua con quanto  è in gioco rispetto alla metafora commerciale ('cliente').

E allora, come si fa a scegliere un terapeuta?
Evitate gli ideologi e gli esperti-di-tutto.
Non cercate in lungo e in largo qualcuno specializzato nel trattamento di persone che hanno esattamente il vostro identico problema, perché non esistono altre persone che hanno esattamente il vostro problema.
Quando incontrate il terapeuta scelto, osservate se sembra più interessato a voi o a diagnosticarvi un disturbo.
Osservate se lo psicoterapeuta vi invita a riflettere insieme su quello che è realmente il problema. Notate se insieme siete in grado di sviluppare una comprensione condivisa rispetto a ciò che costituisce il problema, una comprensione che suona vera per voi.
Questa parte di lavoro potrebbe richiedere più sedute, ma il percorso da intraprendere dovrebbe procedere fin dall'inizio in questa direzione.
Se tutti questi ingredienti sono presenti, probabilmente ne avete trovato uno buono!

Jonathan Shedler, Ph.D ( http://jonathanshedler.com/ ) è Professore Associato presso la University of Colorado School of Medicine. Insegna e conduce laboratori per il pubblico professionale nazionale e internazionale e fornisce consulenza clinica e supervisione ( http://jonathanshedler.com/consultation/ ) in teleconferenza a professionisti della salute mentale in tutto il mondo.


fonte: https://www.facebook.com/jonathan.shedler

martedì 11 giugno 2013

La ricerca del Sé. Introspezione, empatia e psicoanalisi:rapporto tra modalità di osservazione e teoria (Kohut, H., 1959)

(articolo redatto da: Alessia D'Alterio; Antonietta Madia)


Alcuni concetti chiave:
Psicologia del Sé: sottolinea che sono le relazioni esterne, le relazioni con gli altri avente origine nelle cure genitoriali a fare in modo che l’individuo acquisisca e mantenga una adeguata autostima e coesione del Sé, garantendo la sua sopravvivenza emotiva nel corso della intera vita. L’investimento libidico del Sé è il fondamento della salute psichica; è al centro dell’apparato psichico primitivo e la sua coesione risulta fondamentale per lo sviluppo successivo dell’Io. Il Sé è anche il centro della personalità e consente all’individuo di viversi come un polo autonomo. Il Sé è alimentato dalla relazione con gli altri, dalla relazione materna. Pertanto una inadeguata relazione madre-bambino conduce il Sé a ripiegarsi su se stesso e a fissarsi su una posizione narcisistica; in tal modo l’esperienza del Sé si disintegra ed origina un Sé “grandioso”. C’è un fisiologico sviluppo narcisistico della personalità a partire da una grandiosità arcaica che sfocia in un narcisismo sano e costruttivo, base dell’autostima. Qualità del narcisismo evoluto sono la creatività, la produttività, l’umorismo e la saggezza.

Metodo Introspettivo: “Assumere utilmente un vertice di osservazione di tipo empatico significa tentare di cogliere, nel modo più coerente possibile, l’esperienza soggettiva del paziente, inclusi i sentimenti che egli prova nei confronti dell’analista, dalla prospettiva propria del paziente stesso. Una delle conseguenze più importanti di questo cambiamento del metodo di osservazione è il fatto che il focus analitico principale non è più costituito dalla sottolineatura della discrepanza tra l’esperienza interna del paziente e la realtà, ma dalla necessità di catturare (cioè di comprendere e spiegare) la logica arcaica dell’esperienza interna, senza giudicarla dalla prospettiva di realtà propria dell’analista” (Ornstein, 1998, p. 135).

Nell'introduzione al volume La ricerca del Sé Franco Paparo mette in evidenza sostanzialmente due aspetti: il primo aspetto riguarda la descrizione del suo incontro e confronto, nel 1971, come psichiatra e psicoanalista impegnato nella pratica con pazienti gravi - sia essi psicotici, sia affetti da organizzazione a limite - con il contributo teorico di Kohut. Paparo spiega quindi che la teoria di Kohut riguarda nello specifico la formulazione della patologia del Sé; i costrutti riguardanti l'empatia (1959); le forme e le trasformazioni del Narcisismo (1966); la rabbia narcisistica (1972). La portata innovativa dei contributi teorici sollecitarono Paparo a promuovere una raccolta dei saggi da tradurre in italiano; quindi a conoscere ed avviare la collaborazione con Kohut. Da questo lavoro emergeranno contenuti volti a bonificare il concetto di Narcisismo. Tali contenuti, se inizialmente venivano riferiti sottovoce, troveranno nel 1977 una piena affermazione. Per definire cos’è che porta alla cura della patologia del Sé, si rende necessario riesaminare criticamente un ampio spettro di contenuti teorici già stabiliti in precedenza dalla psicoanalisi (Kohut, 1977). Kohut evidenzia subito il carattere introspettivo-empatico dell'esperienza del Sé iscrivendolo nel registro della psicologia del profondo e differenziandolo sia dalle strutture dell'Io, Es e Super-io - con diversa elaborazione concettuale -, sia dai concetti di Personalità e Identità che come dice Kohut (1971) non originano dal registro Psicoanalitico; accanto ad una psicologia del Sé in senso stretto, nel quale il Sé rappresenta un semplice contenuto della mente, va considerata una psicologia del Sé in senso lato, nel quale il Sé costituisce un centro indipendente d'iniziativa.
Il secondo aspetto che viene preso in esame, riguarda la presentazione dei sei capitoli del libro La ricerca del Sé. In questo lavoro, tratteremo il primo capitolo: “Introspezione, empatia e psicoanalisi”. Questo punto di partenza nel pensiero di Kohut, sancisce una prima nozione fondamentale: l’indagine sul mondo esterno attraverso i nostri organi di senso corrisponde all’indagine nel mondo interno attraverso l’introspezione e l’empatia, definita anche introspezione vicariante.


Introspezione, empatia e psicoanalisi

Kohut implementa una definizione circa i fenomeni fisici e psicologici: quando operiamo un’osservazione attraverso gli organi di senso, abbiamo semplicemente un fenomeno fisico. Quando l'osservazione è condotta attraverso l’empatia e l’introspezione abbiamo un fenomeno psicologico. Questa affermazione va intesa in senso ampio: così come vi sono pianeti invisibili a influenzare pianeti direttamente osservabili, così nella Psicoanalisi, le strutture psicologiche dell'inconscio e del preconscio possono essere considerate in un quadro di esperienze di introspezione, vissute o potenziali. Ora la domanda è la seguente: l’introspezione e l’empatia fanno sempre parte di ogni osservazione psicologica? A tale riguardo Kohut porta un esempio: la visione di una persona eccezionalmente alta. Osservare l’attributo fisico dell’altezza da un punto di vista privo di empatia ed introspezione, significa osservare un attributo squisitamente fisico! Ma se proviamo a metterci al posto della persona alta - cioè rivisitiamo nostre esperienze interne nelle quali ci siamo fatti notare per qualche attributo - accadono in noi due cose: una è quella di riconoscere il significato che può avere quella statura, e l'altra è quella di aver osservato un fatto psicologico. Conseguenza di quest'ultimo punto, è che quando osserviamo solo gli aspetti fisici in assenza di empatia ed introspezione non osserviamo il fatto psicologico di un’azione, ma solamente il fatto fisico dei movimenti. Ma cos’è un atto psicologico? La domanda è necessaria perché uno schema di movimenti con un suo fine preciso non basta a definire un atto psicologico.
Possiamo osservare un fenomeno “somatico”, “comportamentale” o “sociale” quando il nostro metodo di osservazione non include in modo prevalente introspezione ed empatia. Quindi possiamo definire i fenomeni come Mentali, Psichici o Psicologici, se la nostra modalità di osservazione include introspezione ed empatia come costituenti essenziali. Il termine essenziale sta a significare che introspezione ed empatia non possono mai mancare ma al contempo possono essere mescolate con altri metodi di osservazione; anche se poi il risultato finale è quello di un atto introspettivo o empatico. L'uso dell'empatia entra nella nostra vita di tutti i giorni e la nostra sensibilità psicologica è facilitata quando osserviamo persone con cui abbiamo qualche radice culturale comune; ma anche quando incontriamo persone che ci sembrano lontane da noi, confidiamo di capirle da un punto di vista Psicologico, attraverso la scoperta di una esperienza comune con la quale empatizzare! I pionieri dell’introspezione e dell’empatia per eccellenza sono stati già Freud e Breuer; tuttavia, altri aspetti dell’inconscio, dei fenomeni psicologici normali e patologici; le libere associazioni, l’analisi delle resistenze etc. hanno oscurato il fatto che il primo passo di questa scienza fosse l’introspezione e l’empatia. L’analisi delle libere associazioni e l’analisi delle resistenze sono da considerarsi strumenti ausiliari a servizio del metodo di osservazione introspettivo ed empatico. Ora la dimostrazione importante è quella di definire come questo metodo di osservazione determini il contenuto e i limiti del campo osservato; ma ancor di più la connessione fra introspezione e teoria psicoanalitica, e come il misconoscimento di quelle aeree ha portato ad omissioni ed errori.


Resistenze all’introspezione

La resistenza alla libera associazione è una funzione difensiva della mente, come una sorta di paura da parte del paziente di conoscere contenuti inconsci e i loro derivati. Ci sono altresì ragioni recondite che potrebbero essere ricondotte alla paura di rimanere “sguarniti e nudi” di fronte a tensioni emergenti. Di fatti, è come se fossimo più attrezzati ad un pensiero finalizzato ad un’azione.  L’introspezione si “oppone” a tale dinamica, in quanto la terapia analitica prepara “in toto” alla libertà di azione, e la libera associazione in se stessa prepara ad un rimaneggiamento strutturale attraverso una aumentata capacità a tollerare la tensione. Le apprensioni circa il dispendio di energie sia psichiche sia materiali nel senso di costi economici, sembrerebbero nascondere la paura dell’inattività di fronte al flusso di energia derivante dall’introspezione; come una sorta di evasione dalla realtà (questa può essere presente nelle forme patologiche). Tuttavia, il fatto che se ne possa fare un uso sbagliato, non ci deve distogliere dalla realtà che nei casi migliori essa è attiva, investigativa e intraprendente. Nella sua massima potenza, essa è animata ad ampliare ed approfondire il nostro campo di conoscenza.

Organizzazione mentale precoce
E’ fuori di dubbio che l’attendibilità dell’empatia diminuisca tanto più l’osservatore sia diverso dall’osservato, e in tal senso, gli stati mentali primitivi diventano una sfida alla capacità di empatizzare con una persona (o meglio con un assetto mentale passato). Nelle concettualizzazioni di Freud sulle “nevrosi attuali” l’introspezione non ha portato nessun risultato psicologico, se non angoscia e dolore. Tant’è vero che questi risultati portarono Freud a considerare tale tipo di nevrosi come il risultato di disturbi organici; da indagare pertanto con strumenti biochimici. Di fronte a stati psicopatologici gravi vennero messi in atto degli espedienti operativi. Invece di estendere una forma rudimentale di empatia agli stati primitivi, si confusero le osservazioni ottenute con il metodo introspettivo, con le teorie basate sul metodo dell’osservazione della psicologia sociale (relazione madre-bambino). Questo tipo di processi aldilà dell’empatia e dell’adattamento che ne deriva, sono simili al movimento dell’acqua del ruscello che incontra, i massi prima di confluire nel fiume. All’estremo opposto di questi processi, troviamo gli stati psicologici più vicini alla nostra empatia, al nostro processo logico e alla facoltà di scelta e di decisione.

Conflitto endopsichico e conflitto interpersonale
Kohut mette in evidenza una differenza tra diversi tipi di conflitti, in relazione alla gravità della psicopatologia: essi riguardano le strutture Es, Io e Super-Io per i pazienti nevrotici, mentre l’ambito interpersonale per pazienti più gravi (psicotici o disturbi al limite). I conflitti interpersonali sono relativi alle relazioni arcaiche (il Sé non adeguatamente formato nella relazione oggettuale risulta carente e bisognoso di appoggio per formare la propria identità e il carattere). 
Kohut, che nel 1959 non ha ancora formulato una teoria sistematica per i disturbi narcisistici, parte da una critica opposta alla psicoanalisi: esaminando la convinzione che la psicoanalisi non sia “sufficientemente interpersonale”, rivolge la sua attenzione ai termini “relazione interpersonale”, “interazione”, “transazione”, di solito prese in esame dagli psicologi sociali. In realtà agli occhi del lettore moderno appare già evidente che ciò che l’autore sta proponendo per semplice giustapposizione, è in realtà un radicale cambio di paradigma (Strozier, 2001). Kohut tuttavia cita il modello strutturale di Freud del 1922, facendo riferimento all’autonomia dell’Io (Hartmann, 1939), come modello della mente. Che significato psicoanalitico ha il termine “interpersonale”?  
Conflitto strutturale, nevrosi di traslazione, traslazione.  
Lo stesso Freud si occupò di investigare le psiconevrosi usando l’introspezione e l’empatia. Tuttavia il risultato di questa ricerca si focalizzò principalmente sulla scoperta dell’inconscio e del fenomeno della traslazione. Freud (1899) definì la traslazione come influenza dell’inconscio sul preconscio, al di là della barriera della rimozione. Manifestazioni principali della traslazione sono sogni, sintomi, aspetti del modo in cui l’analizzando percepisce l’analista. La Traslazione indica come l’inconscio influisce sulla parte più accessibile all’introspezione della psiche (vedi cap. 2 Concetti e teorie della psicoanalisi § “il concetto di traslazione”, p. 57). Mediante l’uso dell'introspezione emerse ciò che Freud chiamò conflitto strutturale (endopsichico). Esso riguarda la lotta tra le pulsioni infantili e le forze interne che vi si oppongono. In questa circostanza l’analista come figura di traslazione, non è sperimentato nell’ottica di un rapporto interpersonale, bensì come portatore di strutture endopsichiche inconsce (ricordi inconsci) dell’analizzando (nevrosi di traslazione). (Es.: un paziente racconta di non aver pagato il biglietto dell’autobus per arrivare in seduta. Egli nota che il volto dell’analista è serio mentre lo saluta. In questo caso l’analista come figura di traslazione è un’espressione del Super-io[1] inconscio dell’analizzando). 
Conflitto interpersonale, psicosi e disturbi al limite, metodo introspettivo. 
La psicoanalisi ha ampliato il proprio campo di indagine fino ad includere la psicosi. Le due prime e più importanti scoperte nel campo della psicosi furono quelle di Freud nel 1914(b) - parla di ipocondria psicotica mediante il riconoscimento empatico o introspettivo - e Tausk che nel 1919 parla del delirio schizofrenico di essere influenzato da una macchina (delirio di riferimento); esso riguarda la riesumazione di una parte primitiva del Sé, ovvero una regressione a esperienze somatiche penose ed angosciose dopo la perdita di contatto con l’esperienza del “Tu”.
I disturbi narcisistici[2] e gli stati limite a differenza delle nevrosi, rivelano mediante l'introspezione prolungata, una psiche non strutturata ovvero una psiche il cui principale sforzo è quello di mantenere un contatto con l’oggetto arcaico, o una tenue separazione da esso (conflitto interpersonale). L’analista in questo caso non funge da schermo per la proiezione della struttura interna dell’analizzando come per le nevrosi, bensì diventa una “continuazione diretta di una realtà primitiva che era troppo distante, troppo rifiutante o troppo instabile per essere trasformata in una solida struttura psicologica” (p. 17). L'analista è sperimentato introspettivamente nel quadro di una relazione interpersonale arcaia: egli è il vecchio oggetto con il quale l'analizzando cerca di mantenere un contatto, separare la propria identità o trarre un minimo di struttura interna. 
In tal senso il fulcro del conflitto è la relazione, nello specifico la relazione arcaica con i genitori, che non ha permesso un corretto sviluppo delle strutture psichiche e del Sé. Es.: un paziente schizofrenico arriva in seduta in uno stato di freddezza e riserbo. La notte precedente ha sognato un campo innevato e sterile, in cui una donna gli offre il seno, ma lui scopre che il seno era di gomma. La freddezza del paziente e il suo sogno si scoprono essere la reazione ad un rifiuto minimo ma significativo dell’analista (conflitto interpersonale). Traslazione e controtraslazione, afferma inoltre Kohut, denotano nient’altro che relazioni interpersonali nel senso della psicologia sociale. 
I due approcci teorici (strutture/nevrosi e relazione/disturbi narcisistici) possono essere combinati mediante il ricorso al concetto-ponte di osservatore partecipante. Il concetto di osservatore partecipante permette di far svanire la distinzione tra oggetto traslativo delle nevrosi strutturali e oggetto interpersonale arcaico dei disturbi narcisistici. Ma, senza questa differenziazione, afferma Kohut, la psicopatologia potrebbe contenere i più differenti fenomeni clinici come varietà o gradi della schizofrenia (Sullivan, 1940).  
Nelle psicosi e nei disturbi limite, i conflitti interpersonali arcaici occupano una posizione centrale; così come nelle nevrosi, è il conflitto strutturale ad avere importanza strategica. La stessa cosa si applica ai conflitti strutturali nelle psicosi. La scelta è determinata solo in parte dal passato. Mentre è vero che tutte le traslazioni sono ripetizioni, non tutte le ripetizioni sono traslazioni. 
Mediante l'introspezione scientifica prolungata possiamo differenziare: scelte oggettuali non traslative strutturate secondo modelli infantili (es. parte di quanto definito traslazione positiva); dalle vere traslazioni.Le vere traslazioni possono essere risolte da un'introspezione prolungata, le scelte oggettuali non traslative invece, sono al di fuori del conflitto strutturale e non possono essere influenzate dall'introspezione psicoanalitica. 
Kohut riprenderà questo argomento nell’ultimo paragrafo dello scritto, in cui farà più esplicito riferimento al problema del libero arbitrio e del determinismo psichico nella psicoanalisi classica.

Dipendenza 
Una ulteriore importante differenza introdotta da Kohut riguarda la dicotomia biologia/relazione. Tale genere di differenza determina il metodo di osservazione: alcuni concetti teorici derivano dall’osservazione psicoanalitica, ovverosia dalla considerazione biologica della realtà da cui traiamo per astrazione un modello teorico (teoria dello sviluppo psicosessuale); mentre altri concetti derivano da un altro metodo di osservazione: l’introspezione vicariante (o empatia)
Kohut prende come esempio per spiegare questa differenza la sessualità infantile. 
Quindi domanda se ad es. la dipendenza orale (come astrazione teorica psicoanalitica) potrebbe essere connessa all’osservazione interpersonale della dipendenza prolungata, biologicamente inevitabile dell’infante. 
Secondo Kohut, la risposta è affermativa. Questa è un’ipotesi psicoanalitica? Si può dire di si, perché tale ipotesi non sarebbe neppure esistita, senza la premessa della dipendenza biologicamente determinata. Dunque tutto ciò che è psicoanalisi ha una radice nella biologia (come anche il modello pulsionale di Freud). 
Kohut prende quindi in esame il concetto di dipendenza, e ne analizza l’etimologia individuando tre aspetti; biologico, sociologico, psicologico.
Biologico come rapporto tra due organismi. Il neonato è dipendente dalle cure che riceve dall’adulto. Sociologico come rapporto tra due unità sociali. L’adulto, sviluppa solo certe qualità in quanto membro della società ed è quindi dipendente da essa per la sua sopravvivenza. 
Psicologico:diciamo che alcuni pazienti hanno problemi di dipendenza o che li sviluppano nel corso dell’analisi. Cosa intendiamo con dipendenza psicologica?
Dal punto di vista psicoanalitico, le personalità oralmente dipendenti desiderano perpetuare il rapporto con l’analista. Il termine dipendenza orale deriva dall’osservazione psicoanalitica del paziente e costituisce un’astrazione sul suo stato mentale. Ciò combacia con il concetto di regressione ovvero ritorno ad uno stato psicologico pregresso. Ma non si discute il fatto che il lattante è dipendente dalla madre, bensì se lo stato mentale del lattante corrisponde a quanto troviamo nell'analisi dei desideri rimossi di dipendenza di un analizzando adulto! Ovvero: lo stato mentale del lattante corrisponde allo stato mentale di un analizzando adulto con desideri rimossi di dipendenza? 
Secondo Kohut no, e per dimostrarlo fa l’esempio inverso: lo stato mentale ed emotivo dell’analizzando dipendente non è quello del lattante al seno, in quanto un corrispettivo adulto di tale stato riguarderebbe la situazione di una persona totalmente assorta in un’attività di massima importanza per lei (ad es. lo scatto finale di una corsa di 100 mt., il solista nel punto culminante della sua melodia, l’amante nell’acme dell’unione sessuale). 
Se ipotizziamo che la dipendenza dell’adulto è un ritorno ad una primitiva gestalt psicologica, non abbiamo capito la psicologia dei bambini sani. Dunque per Kohut è solo l’osservazione psicologica (empatia circa lo stato reale) che fornisce la prova finale per qualsiasi scoperta: il principio biologico (teorizzazione psicoanalitica) può solo fornire utili indizi. 
E’ quindi sbagliato estrapolare l’interpretazione di uno specifico stato mentale da principi biologici, specialmente se questi contraddicono le osservazioni psicologiche; ad esempio è inutile effettuare un’interpretazione circa la dipendenza orale del paziente senza capire come sta realmente!
La dipendenza descritta come: tendenza di alcuni pazienti adulti a essere timorosi, aggrapparsi ostinatamente, tenersi stretti, avere resistenze a lasciarsi andare, può quindi essere definita secondo Kohut in quattro modi:
Come regressione alla situazione infantile. In questo caso essa non costituisce una replica di una fase normale dello sviluppo psicologico ovvero la regressione allo stato mentale di un bambino normale di genitori normali, ma è ascrivibile alla patologia infantile; nello specifico a fasi successive dell'infanzia in cui il bambino ha avuto esperienze specifiche di rifiuto (intricati miscugli di rabbia, paura e ritorsione). 
Come reazione del paziente per proteggersi dall'angoscia e dal senso di colpa derivati da conflitti strutturali mediante l’attaccamento al terapeuta, portatore mediante proiezione di fantasie narcisistiche benigne e onnipotenti. Quindi: la dipendenza psicologica non riguarda esclusivamente l’oralità. In taluni casi, questo è vero, ma l’osservazione empatica libera da aspettative di ordine biologico, può essere aperta al riconoscimento che una grande varietà di pulsioni, in stato di inappagamento può creare una sottomissione (Hörigkeit) al terapeuta. E’ dunque l’attaccamento ostinato e non l’associazione ad una pulsione a caratterizzare lo stato mentale in questione. 
Come resistenza al cambiamento o adesività della libido. Ci si dovrebbe rivolgere a questa ipotesi solo dopo aver esaurito le precedenti possibilità o in caso di evidenza psicologica. Es.: uno dei trenta superstiti di un campo di concentramento che aveva visto la morte di centomila persone, non riesce a lasciare il campo prima del trascorrere di quattro lunghi giorni, sebbene le guardie naziste fossero fuggite in seguito all’avanzata russa.
Come bisogno, da parte del paziente, del terapeuta per ottenere consolazione e sostegno. Analizzandi con insufficiente struttura psicologica hanno bisogno del terapeuta in quanto hanno realmente necessità di essere consolati e sostenuti. La loro dipendenza non può essere analizzata o ulteriormente ridotta per la comprensione globale: deve essere riconosciuta e accettata. In realtà in questi casi, il compito psicoanalitico maggiore è l’analisi della negazione del bisogno reale: il paziente deve imparare a sostituire le fantasie grandiose mantenute grazie all’isolamento sociale, con l’accettazione per lui penosa, della realtà della sua dipendenza. Ad es.: alcuni tossicodipendenti non hanno acquisito la capacità consolarsi da soli o addormentarsi - non hanno trasformato le antiche esperienze di consolazione e addormentamento in strutture endopsichiche -, pertanto la droga non è il sostituto delle relazioni oggettuali, bensì è un sostituto della struttura psicologica. In psicoterapia questi pazienti presentano la stessa dipendenza che hanno per la droga, per lo psicoterapeuta o la psicoterapia. Tale dipendenza non va confusa con la traslazione: il terapeuta non è uno schermo per la proiezione di strutture psicologiche esistenti, ma un sostituto di esse  
Sessualità, aggressività, pulsioni
In questo caso Kohut prende direttamente in esame il problema della sessualità nella teoria psicoanalitica per darne una definizione. La teorizzazione sulla sessualità ha prodotto una grande quantità di dispute. Secondo Kohut la qualità sessuale di un’esperienza non può essere ben definita né dal contenuto, né dalla zona corporea (rifiuto del modello psicoanalitico classico di sviluppo psicosessuale).  
Una prova dell’effettiva esistenza di desideri sessuali può provenire soltanto da una loro scoperta introspettiva ed empatica. La qualità sessuale dell’esperienza non può essere ulteriormente definita.
Tuttavia gli analisti intendono con il termine sessuale qualcosa di più ampio della sessualità genitale. La sessualità è il residuo di un’esperienza che era nell’infanzia più diffusa (sensualità). Freud (1921a) ha scelto il termine sessuale “a potiori” ovvero dalle più note di questo tipo di esperienze, ha insistito sull’aspetto biologico del termine sessuale per poterne salvaguardare l’aspetto psicologico: usando i termini forza vitale ed energia mentale si creano quindi dei malintesi nel riconoscimento della modalità primaria dell’esperienza, che è stata rifiutata (come per il polo ostilità-aggressività). 
Ciò che noi oggi chiamiamo pulsione, non denota un’energia che funge da motore, ma un’esperienza soggettiva interna con carattere di urgenza, che appare più chiara se messa in relazione alla corrispettiva esperienza interna in termini di investigazione introspettiva. L’esperienza può avere qualità pulsionale (volere, desiderare, tendere) ed è un’astrazione tra innumerevoli esperienze interne; connota una determinata qualità psicologica che non può essere ulteriormente analizzata mediante l’introspezione. 
Pulsione di vita e pulsione di morte pertanto, sono astrazioni teoriche, mentre la psicoanalisi deve concentrarsi sul vissuto reale, e non sulla teoria! Eros e Thanatos non appartengono a una teoria psicologica basata su osservazione introspettiva ed empatica, ma a una teoria biologica basata su un metodo di osservazione diverso. 
Narcisismo e Masochismo primario invece, costituiscono secondo Freud un ritorno a primitive forme di esperienze sessuali e aggressive alle quali corrispondono le forme più recenti (Narcisismo clinico e Masochismo clinico) reattive rispetto alla tensione proveniente dall’ambiente; ciò è coerente ed accettabile per Kohut, in quanto tale concetti trovano espressione nella comprensione psicologica. 
Kohut cita quindi Hartmann, Kris e Loewenstein, (1949) i quali suggeriscono che il biologo trova indizi utili nella psicologia; tuttavia le sue teorie si basano su osservazioni e prove biologiche, e afferma che d’altra parte l’applicazione dell’introspezione a ogni cosa animata non è scientificamente valida (vedi Ferenczi, 1924[3]). 
Kohut ammira l’audacia delle teorie biologiche freudiane, ma i concetti di Eros e Thanatos restano fuori dal quadro della psicologia psicoanalitica. Tuttavia, afferma anche Kohut, Freud rigettava le teorie biologiche se non poteva confermarle mediante l’osservazione psicoanalitica introspettiva. Un esempio lampante di questa posizione è ad es. la concezione freudiana della sessualità femminile (intesa come ritiro da una maschilità delusa) che ha scatenato la questione dell’antifemminismo di Freud. E’ evidente a livello biologico la donna possiede una femminilità primaria[4] e che tale femminilità non si esaurisce nel confronto con la sessualità maschile; tuttavia Freud non cambiò idea sulle sue teorie, in quanto esse trovavano corrispondenza nell’osservazione psicoanalitica: non volle quindi accettare una congettura biologica come un fatto psicologico. La concezione freudiana della sessualità femminile è un esempio della sua adesione al metodo di osservazione introspettiva ed empatica; tuttavia taluni altri concetti rimasero privi di una specificazione basata sulla comprensione empatica. Per quanto riguarda questi ultimi concetti, “accettare il punto di vista dinamico e la concezione di pulsione non è più giustificabile dell’accettare il punto di vista strutturale a livello anatomico”.

Il libero arbitrio e i limiti dell’introspezione
La nostra facoltà di fare una scelta o prendere una decisione è compatibile con la legge del determinismo psichico[5]? (Knight, 1946; Lipton, 1955). Secondo la psicoanalisi non esiste una libera scelta: siamo tutti spinti da forze irrazionali (inconscio) che possiamo solo razionalizzare (tentare di capire); inoltre, tendiamo a ipervalutare narcisisticamente le nostre funzioni psichiche.
Freud sostituisce quanto in precedenza affermato circa l’esistenza di un’area di libertà psichica. Tale esitazione emerge nella nota a piè di pagina in L’Io e L’Es (1922, p. 512) in cui afferma che la psicoanalisi si propone “di creare per l’Io del malato la libertà di optare per una soluzione o per l’altra”. Inoltre, il concetto di Ichtriebe (pulsioni dell’Io), l’affermazione che l’Io si sviluppa dall’Es o che il principio di realtà non è che una modificazione del principio di piacere sono tutte tesi a dimostrazione dell’esitazione di Freud. Le successive teorizzazioni freudiane incorporeranno in maniera implicita il convincimento di una qualche libertà di scelta: l’enfasi sull’Io, i commenti sulla genesi indipendente dell’Io in Analisi terminabile e interminabile (Freud, 1937) sono precursori di quanto noi conosciamo come autonomia dell’Io (Hartmann, 1939). 
Kohut si domanda quindi se in base allo strumento di osservazione introspettivo è possibile operare una riformulazione della questione, per chiarire come avviene la libera scelta. Secondo Kohut l'esperienza di essere obbligati e l'esperienza di indecisione e dubbio possono essere dipanate dall'introspezione. Quando mediante l'introspezione ristabiliamo le motivazioni alla base delle nostre scelte, diventiamo nuovamente consapevoli e ripristiniamo la libera scelta e la capacità di decisione. Possiamo allora risolvere l'esperienza di coazione. Inoltre, l'introspezione non può ulteriormente indagare lo stato della libera scelta, in quanto essa non è scomponibile. 
Ogni scienza ha un numero ottimale di concetti basilari: i limiti della psicoanalisi sono dati dai limiti della possibilità di introspezione e di empatia. Nel campo osservato regna il determinismo psichico. L'introspezione sottoforma di libere associazioni e analisi delle resistenze è potenzialmente capace di rivelare motivazioni e desideri, decisioni, scelte, atti. Tuttavia è necessario riconoscere i limiti oltre i quali lo strumento di osservazione non arriva, e bisogna accettare il fatto che certe esperienze non possono essere allo stato attuale delle conoscenze, ulteriormente chiarite. Ciò che sperimentiamo come libera scelta è l'esperienza dell'Io che non può essere divisa in ulteriori componenti mediante il metodo introspettivo (vedi p. 17).


Bibliografia
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Freud, S., (1914b), Introduzione al narcisismo. In Opere. Vol. VII, Bollati Boringhieri, Torino
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Freud, S., (1921a), Psicologia delle masse e analisi dell’Io. In Opere. Vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino
Freud, S., (1922), L’Io e l’Es. In Opere. Vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino
Freud, S., (1937), Analisi terminabile e interminabile, In Opere, Vol. XI Bollati Boringhieri, Torino
Hartmann, H., (1939), Psicologia dell’Io e il problema dell’adattamento. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1966.
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Kohut, H., (1959-1981), Introspezione ed empatia. Raccolta di scritti. Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
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Kohut, H., (1972), “Pensieri sul narcisismo e sulla rabbia narcisistica”. Tr. it. in La ricerca del Sé. Bollati Boringhieri, Torino, 1982.
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Kohut, H., (1984), La cura psicoanalitica. Bollati Boringhieri, Torino, 1986.
Lipton, S. D., (1955), A note on the Compatibility of Psychic Determinism and Freedom of Will. Int. J. Psycho-Analysis, vol. 36, 355-56.
Ornstein, P. H., (1998), “Psicoanalisi dei pazienti con un disturbo primario del Sé. Una prospettiva basata sulla psicologia del Sé”. In I disturbi del narcisismo. Diagnosi, clinica, ricerca. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001.
Strozier, C. B., (2001), Heinz Kohut. Biografia di uno psicoanalista. Astrolabio Ubaldini, 2005.
Sullivan, H. S., (1940), La moderna concezione della psichiatria. Feltrinelli, Milano, 1961.
Tausk, V., (1919), “Origine della “macchina influenzatrice” nella schizofrenia”. Tr. it. in W. Reich e altri, Letture di Psicoanalisi a cura di R. Fliess Boringhieri, Torino, 1972.


[1] Imago inconscia del padre. Nella nevrosi, a differenza dei disturbi più gravi ciò avviene in quanto il paziente ha già formato la struttura Superegoica sulla base delle relazioni reali vissute con i genitori.
[2] Kohut fa riferimento alle psicosi e agli stati limite, in quanto all’epoca dello scritto non si era ancora giunti alla classificazione concettuale e clinica dei disturbi narcisistici della personalità analizzabili (p. 16).
[3] Nello scritto Thalassa, Ferenczi affronta il tema dell’ontogenesi e filogenesi, collegando sessualità e psicologia.
[4] Freud osservava nelle sue pazienti una lotta incentrata su desideri fallici e mentre accettava la bisessualità biologica, rifiutava l’idea di una precedente fase psicologica di femminilità senza una conferma a livello psicologico.
[5] Ogni avvenimento psicologico è determinato dal fattore inconscio.

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