Il soggetto che sogna
è l’intero soggetto.
Khan, 1975, p. 50
Masud Khan, psicoanalista inglese di origine indiana, fu paziente e allievo di
Ella Freeman Sharpe e di Donald Winnicott.
Tra i suoi principali contributi teorici ricordiamo il concetto di trauma
cumulativo; Khan (1963) partendo dai concetti espressi da Ferenczi, Winnicott,
Spitz e Bowlby, offre una prospettiva sul tema del trauma a cavallo tra la
tradizione delle relazioni oggettuali inglesi e una nuova prospettiva, più
francamente relazionale.
Il trauma cumulativo riguarda l’esperienza quotidiana e protratta di piccole
defaillànce nelle cure materne, che generano nel bambino delle microfratture
nella coesione del Sé. Tale genere di trauma non è riconoscibile come evento
scatenante che è possibile isolare, ma al contrario come una serie di circostanze
di distress e mancata sintonizzazione nella relazione con la madre, che appaiono
fattori secondari nella valutazione dello stato di salute mentale del bambino, ma
che tuttavia a lungo termine generano una situazione di frammentazione (Khan,
1963).
Nello specifico, il trauma cumulativo può caratterizzarsi per una serie di
abbandoni, rifiuti, intrusioni, silenzi, mancata assoluzione delle necessità
primarie del bambino di cure materne, che generano un vissuto di perdita ed
inerzia e che può portare ad uno stato di alienazione.
Khan che risente dell’influsso dell’opera della Klein, nonostante sia schierato
con il gruppo di mezzo degli indipendenti inglesi; indica nell’oggetto interno
idoleggiato e composito un ultimo residuo della concezione kleiniana di oggetto
interno.
L’oggetto composito riguarda l’introiezione di oggetti discordanti con il
proprio Sé in una sorta di precoce dissociazione a partire dall’infanzia; mentre
l’oggetto idoleggiato riguarda la possibilità di esteriorizzare gli aspetti
discondarnti del Sé verso l’esterno mediante degli agiti perversi. Secondo Khan
le perversioni sono un tentativo di autocura (Gazzillo, Silvestri, 2008).
Khan (1970) riflettendo sulla teoria freudiana elogia le scoperte del fondatore
della psicoanalisi, in particolare relativamente alle sue capacità autoanalitiche e
alla relazione amicale-transferale intrattenuta con l’amico Fliess. Secondo Khan,
un amico è colui che consente di sperimentare vicinanza e distanza, sentimenti di
ambivalenza nel processo autoconoscitivo (Gazzillo, Silvestri, 2008).
L’autore rivela le radici della sua formazione psicoanalitica riferendosi spesso
a Winnicott: “Ho incominciato a scoprire nel mio lavoro clinico con gli adulti,
che questi possono servirsi dello spazio onirico esattamente nello stesso modo in
cui il bambino usa lo spazio transizionale che gli offre il foglio di carta per i suoi
scarabocchi” (Khan, 1972).
Nello scritto Uso e abuso del sogno nell’esperienza psichica l’autore
approfondisce il tema della capacità ed incapacità di sognare, per spiegare come
nel primo caso ciò consenta la creazione di uno spazio immaginativo in cui il
sogno trova la possibilità di attualizzarsi; mentre nel secondo caso, di come
l’incapacità di simbolizzare interferisca nella formazione del sogno. Winnicott (1971) in Gioco e realtà indica nelle personalità schizoidi – in contrapposizione con
quelle caratterizzate da una più marcata impulsività – un opposto funzionamento in relazione al
sogno: mentre lo schizoide cerca di “uscire dal sogno” per avvicinarsi maggiormente ai fatti
della realtà esterna; le personalità impulsive al contrario, ricercano nel sogno la possibilità di
entrare in maggiore contatto con il proprio mondo interno.
Khan (1972) illustra quindi come sia una caratteristica essenziale e allo stesso tempo comune, quella del momento in cui il paziente fa uno shift nel corso dell’analisi nella qualità e nell’uso dei sogni. Il sogno – secondo Khan – contiene materiale preconscio altamente descrittivo che viene represso nell’attività intrapsichica del paziente.
E’ il concetto di transfert secondo l’autore ad aver adombrato quello dell’interpretazione dei sogni; ma di fatto essi sono argomenti affini (Khan, 1972, p. 71).
Il lavoro di Khan sul sogno viene influenzato in particolare da due capitoli di Gioco e realtà (Winnicott, 1971): “Sogno, fantasia e vita reale”, e “L’uso di un oggetto ed entrare in rapporto mediante identificazioni”.
Nel volume, Winnicott presenta il caso clinico di una donna di mezz’età afflitta dal continuo tormento della fantasia o “daydreaming”. Il caso viene riportato da Winnicott (1971) come dissociazione primaria. La donna distingueva tra il vivere reale entrando in contatto con gli oggetti, e la fantasia onirica. Winnicott scrive: “tuttavia il fantasticare rimane un fenomeno isolato, che assorbe energia ma che non contribuisce né al sogno né alla vita reale. In qualche misura, il modo di fantasticare è rimasto statico per tutta la vita di questa paziente; vale a dire che esso datava dai primissimi anni, poiché il modello era già stabilito nel tempo in cui la paziente aveva due o tre anni. Ma era presente già da allora, e probabilmente aveva avuto inizio con una “cura” per farle smettere di succhiare il pollice” (p. 56).
Winnicott individua la differenza tra sogno e fantasia mediante i meccanismi difensivi che ognuno dei due processi psichici utilizza: per il primo è caratteristica la rimozione, mentre per il secondo la dissociazione. Attraverso il processo analitico, la donna riesce a guadagnare l’integrazione e le sue fantasie diventano più ancorate alla realtà. La differenza tra fantasia e stato dissociativo è molto sottile, maggiormente qualitativa che quantitava. Spiega Winnicott:
La mia paziente è nella mia stanza per il suo trattamento ed un piccolo pezzo di cielo è accessibile alla sua vista. E’ sera. Dice: “Io sono su quelle nuvole rosa dove posso camminare”. Questo, naturalmente, potrebbe essere un volo dell’immaginazione. Potrebbe essere un modo in cui l’immaginazione arricchisce la vita, così come potrebbe essere materia per un sogno. Al tempo stesso per la mia paziente, questa cosa medesima può essere qualche cosa che appartiene ad uno stato di dissociazione e non può diventare conscio, nel senso che lì non c’è mai una persona intera per essere consapevole dei due o più stati dissociati che sono presenti ogni volta nello stesso momento. La paziente può stare seduta nella sua stanza, e pure senza fare assolutamente nulla tranne che respirare, ha (nella sua fantasia) dipinto un quadro, oppure fatto qualcosa di interessante nel suo lavoro, oppure ha fatto una passeggiata in campagna; ma dal punto di vista dell’osservatore nulla di tutto questo è accaduto. In realtà niente è probabile che accada, a causa del fatto che nello stato dissociato tante cose accadono. D’altra parte, essa può stare seduta nella sua stanza pensando al lavoro di domani e facendo programmi o pensando alle sue vacanze, e questo può essere una esplorazione immaginativa del mondo e del luogo in cui sogno e vita sono la stessa cosa. In questo
Khan (1972) illustra quindi come sia una caratteristica essenziale e allo stesso tempo comune, quella del momento in cui il paziente fa uno shift nel corso dell’analisi nella qualità e nell’uso dei sogni. Il sogno – secondo Khan – contiene materiale preconscio altamente descrittivo che viene represso nell’attività intrapsichica del paziente.
E’ il concetto di transfert secondo l’autore ad aver adombrato quello dell’interpretazione dei sogni; ma di fatto essi sono argomenti affini (Khan, 1972, p. 71).
Il lavoro di Khan sul sogno viene influenzato in particolare da due capitoli di Gioco e realtà (Winnicott, 1971): “Sogno, fantasia e vita reale”, e “L’uso di un oggetto ed entrare in rapporto mediante identificazioni”.
Nel volume, Winnicott presenta il caso clinico di una donna di mezz’età afflitta dal continuo tormento della fantasia o “daydreaming”. Il caso viene riportato da Winnicott (1971) come dissociazione primaria. La donna distingueva tra il vivere reale entrando in contatto con gli oggetti, e la fantasia onirica. Winnicott scrive: “tuttavia il fantasticare rimane un fenomeno isolato, che assorbe energia ma che non contribuisce né al sogno né alla vita reale. In qualche misura, il modo di fantasticare è rimasto statico per tutta la vita di questa paziente; vale a dire che esso datava dai primissimi anni, poiché il modello era già stabilito nel tempo in cui la paziente aveva due o tre anni. Ma era presente già da allora, e probabilmente aveva avuto inizio con una “cura” per farle smettere di succhiare il pollice” (p. 56).
Winnicott individua la differenza tra sogno e fantasia mediante i meccanismi difensivi che ognuno dei due processi psichici utilizza: per il primo è caratteristica la rimozione, mentre per il secondo la dissociazione. Attraverso il processo analitico, la donna riesce a guadagnare l’integrazione e le sue fantasie diventano più ancorate alla realtà. La differenza tra fantasia e stato dissociativo è molto sottile, maggiormente qualitativa che quantitava. Spiega Winnicott:
La mia paziente è nella mia stanza per il suo trattamento ed un piccolo pezzo di cielo è accessibile alla sua vista. E’ sera. Dice: “Io sono su quelle nuvole rosa dove posso camminare”. Questo, naturalmente, potrebbe essere un volo dell’immaginazione. Potrebbe essere un modo in cui l’immaginazione arricchisce la vita, così come potrebbe essere materia per un sogno. Al tempo stesso per la mia paziente, questa cosa medesima può essere qualche cosa che appartiene ad uno stato di dissociazione e non può diventare conscio, nel senso che lì non c’è mai una persona intera per essere consapevole dei due o più stati dissociati che sono presenti ogni volta nello stesso momento. La paziente può stare seduta nella sua stanza, e pure senza fare assolutamente nulla tranne che respirare, ha (nella sua fantasia) dipinto un quadro, oppure fatto qualcosa di interessante nel suo lavoro, oppure ha fatto una passeggiata in campagna; ma dal punto di vista dell’osservatore nulla di tutto questo è accaduto. In realtà niente è probabile che accada, a causa del fatto che nello stato dissociato tante cose accadono. D’altra parte, essa può stare seduta nella sua stanza pensando al lavoro di domani e facendo programmi o pensando alle sue vacanze, e questo può essere una esplorazione immaginativa del mondo e del luogo in cui sogno e vita sono la stessa cosa. In questo
modo oscilla dallo star bene alla malattia e di nuovo allo star bene [...] Questa
particolare donna ha talenti e potenzialità piuttosto eccezionali per varie forme di
espressione artistica di sé, e conosce abbastanza della vita in genere e del vivere, nonchè
della propria potenzialità, per riconoscere che, in termini di vita, lei sta perdendo
l’autobus, e che ha sempre perduto l’autobus (quasi fin dall’inizio della sua vita).
Inevitabilmente essa è una delusione per se stessa e per tutti quei parenti e amici che
nutrono speranza su di lei. Essa sente, quando la gente spera in lei, che gli altri
aspettano qualcosa di lei o da lei, e questo la porta a scontrarsi con la propria essenziale
inadeguatezza. Tutto ciò è motivo di intensa sofferenza e di risentimento nella paziente
ed è del tutto evidente che senza aiuto essa correva il rischio di suicidarsi, ciò che per lei
sarebbe stato semplicemente la cosa da raggiungere più vicina all’omicidio. Quando
giunge vicino all’omicidio comincia a proteggere il suo oggetto, così a quel punto ha
l’impulso di uccidere se stessa e in tal modo porre fine alle proprie difficoltà mediante
la propria morte e la loro cessazione. Il suicidio non porta soluzioni, soltanto la fine
della lotta.
(Winnicott, 1971, pp. 57-58).
Nel secondo capitolo citato da Khan (1972) di Gioco e realtà, l’autore indica come Winnicott fa differenza tra il relazionarsi con l’oggetto e il fare uso dell’oggetto: “Per usare un oggetto, il soggetto deve aver sviluppato una capacità di usare gli oggetti” (p. 143). Questa capacità è un’altra conseguenza della bontà dello sviluppo data dall’ambiente in cui il bambino cresce.
Tra l’uso dell’oggetto e la relazione con l’oggetto c’è uno spazio in cui il bambino avrebbe dovuto poter sperimentare l’onnipotenza. Questi fenomeni sono palesementi collegati alla realtà delle relazioni esterne, e non riguardano la semplice proiezione.
Queste idee di Winnicott sono ricondotte da Khan al modo in cui il paziente sogna in seduta.
L’autore racconta quindi il caso clinico di un paziente che nel pieno della sua analisi racconta un sogno molto lungo e complesso, di cui tuttavia riesce a ricordare sono una parte, nonostante esso occupi tutta la notte. Khan risponde al paziente chiedendogli se egli abbia effettivamente dormito durante la notte. Il paziente imbarazzato spiega che tale genere di sogni gli capitano sin dall’adolescenza lasciandogli un senso di depersonalizzazione e sfinimento.
Il paziente in realtà non dorme, piuttosto finisce in un macabro e strano stato di coscienza in cui rincorre episodi sempre più complessi del sogno rimanendo impantanato in tale processo. Si tratta – anche in questo caso – di un stato mentale dissociato in cui il paziente si rifugia per isolarsi dalla realtà circostante.
All’origine di questi episodi, il paziente associò degli incubi terrifici avuti durante l’infanzia. I traumi infantili del paziente hanno impedito la sua capacità di usare il sogno in modo maturo; ovvero come luogo in cui riporre i propri desideri e modo per preservare il sonno. Il paziente non aveva i requisiti esposti da Kahn (1962) nel precedente lavoro sulla capacità di sognare; per questo motivo egli poteva fare soltanto incubi.
Ciò che Khan (1972) vuole mettere in evidenza e ribadire rispetto al lavoro di Winnicott, è che la dissociazione può manifestarsi come uno stato onirico spaventoso e terrificante in cui il paziente si rinchiude per affrontare il trauma e per negare i suoi istinti libidici. Il paziente arriva al punto di scambiare il sogno con sé stesso, tanto che emerge sin dalle prime battute dell’analisi il racconto di un sogno che sembra “non finire mai”. L’analisi riesce quindi a porre fine a questo stato dissociativo strettamente collegato al sogno perchè, come affermato da Winnicott (1971), il paziente riesce a distinguere tra fantasia e realtà, sogno e realtà, dissociazione e realtà, riacquistando la connessione con il mondo esterno.
Il secondo argomento che Kahn discute è quello dell’attualizzazione dello
Nel secondo capitolo citato da Khan (1972) di Gioco e realtà, l’autore indica come Winnicott fa differenza tra il relazionarsi con l’oggetto e il fare uso dell’oggetto: “Per usare un oggetto, il soggetto deve aver sviluppato una capacità di usare gli oggetti” (p. 143). Questa capacità è un’altra conseguenza della bontà dello sviluppo data dall’ambiente in cui il bambino cresce.
Tra l’uso dell’oggetto e la relazione con l’oggetto c’è uno spazio in cui il bambino avrebbe dovuto poter sperimentare l’onnipotenza. Questi fenomeni sono palesementi collegati alla realtà delle relazioni esterne, e non riguardano la semplice proiezione.
Queste idee di Winnicott sono ricondotte da Khan al modo in cui il paziente sogna in seduta.
L’autore racconta quindi il caso clinico di un paziente che nel pieno della sua analisi racconta un sogno molto lungo e complesso, di cui tuttavia riesce a ricordare sono una parte, nonostante esso occupi tutta la notte. Khan risponde al paziente chiedendogli se egli abbia effettivamente dormito durante la notte. Il paziente imbarazzato spiega che tale genere di sogni gli capitano sin dall’adolescenza lasciandogli un senso di depersonalizzazione e sfinimento.
Il paziente in realtà non dorme, piuttosto finisce in un macabro e strano stato di coscienza in cui rincorre episodi sempre più complessi del sogno rimanendo impantanato in tale processo. Si tratta – anche in questo caso – di un stato mentale dissociato in cui il paziente si rifugia per isolarsi dalla realtà circostante.
All’origine di questi episodi, il paziente associò degli incubi terrifici avuti durante l’infanzia. I traumi infantili del paziente hanno impedito la sua capacità di usare il sogno in modo maturo; ovvero come luogo in cui riporre i propri desideri e modo per preservare il sonno. Il paziente non aveva i requisiti esposti da Kahn (1962) nel precedente lavoro sulla capacità di sognare; per questo motivo egli poteva fare soltanto incubi.
Ciò che Khan (1972) vuole mettere in evidenza e ribadire rispetto al lavoro di Winnicott, è che la dissociazione può manifestarsi come uno stato onirico spaventoso e terrificante in cui il paziente si rinchiude per affrontare il trauma e per negare i suoi istinti libidici. Il paziente arriva al punto di scambiare il sogno con sé stesso, tanto che emerge sin dalle prime battute dell’analisi il racconto di un sogno che sembra “non finire mai”. L’analisi riesce quindi a porre fine a questo stato dissociativo strettamente collegato al sogno perchè, come affermato da Winnicott (1971), il paziente riesce a distinguere tra fantasia e realtà, sogno e realtà, dissociazione e realtà, riacquistando la connessione con il mondo esterno.
Il secondo argomento che Kahn discute è quello dell’attualizzazione dello
spazio-onirico. L’analista deve essere in grado di distinguere tra il processo del
sognare e lo spazio analitico in cui il sogno si attualizza. Riprendendo la
definizione freudiana di sogno come appagamento di un desiderio, Khan (1972),
ribadisce che il sogno è una capacità strettamente connessa alle funzioni dell’Io
di usare la simbolizzazione (concetto base del freudiano lavoro onirico).
Khan illustra quindi il caso clinico di una ragazza di ventitre anni, in analisi da tre anni; descritta dall’autore come un caso che corrisponderebbe oggi alla diagnosi di disturbo borderline. La ragazza porta il seguente sogno in seduta:
Nel mio sogno sono nella mia stanza e Peter mi sta scopando. Mi rendo conto di quello che sta accadendo e finisce.
Khan è impressionato dall’incipit del sogno “Nel mio sogno”; esso indica uno spazio specifico del sogno. La ragazza nel corso delle associazioni fatte al sogno arriva a capire, mediante il sogno stesso, che nello spazio onirico è stato possibile per lei attualizzare l’esperienza del senso del Sé e della sua istintività che era stata, fino a poco prima agita verso l’esterno.
Il sogno è definito dunque da Kahn come un processo biologico della psiche umana che si configura come il risultato di uno sviluppo adeguato della persona, facilitato da cure ottimali e holding ambientale durante l’infanzia.
Per Khan (1972) il sogno è un nuovo spazio transizionale in cui la persona ripone i propri contenuti psichici. Se non si riesce a sviluppare tale capacità – secondo l’autore – il risultato sarà la tendenza all’acting out, così come un eccesso di senso opposto (dissociazione), porta l’individuo a chiudersi nel proprio mondo onirico, senza riuscire a rivolgere lo sguardo al mondo reale.
L’attualizzazione dei contenuti inconsci nello spazio del sogno permette una efficace elaborazione mediante l’uso della simbolizzazione.
Nell’ultimo lavoro sul sogno, Al di là dell’esperienza onirica, Khan (1975) esprime una nuova ipotesi: “bisognerebbe distinguere tra l’esperienza onirica e il significato del testo onirico che viene ricordato. La mia esperienza clinica mi ha insegnato che il sognare è un’esperienza psichica del tutto diversa da quella fornita dal testo onirico rievocabile” (pp. 48-49).
L’autore segue l’esempio di Starobinski nel saggio Hamlet et Oedipe (1970) che aveva affermato: “l’inconscio non è soltanto linguaggio, è drammaturgia”, e ribalta il concetto espresso da Pontalis (1955) “il soggetto che parla è l’intero soggetto” per affermare che “il soggetto che sogna è l’intero soggetto” (Khan, 1975, p. 50). L’autore vuole chiarire il ruolo del Sé nel sogno:
Esiste un’esperienza onirica della quale nel testo onirico non vi è traccia; si tratta cioè di due eventi che non sono né complementari né antitetici. Nell’esperienza complessiva di sé, da parte di un individuo, possono a volte sovrapporsi, oppure restare separati e privi di rapporti. Ma non dobbiamo dimenticarci che l’esperienza onirica esiste e influenza il comportamento dell’individuo, anche quando non viene riconosciuta né descritta (con parole o con immagini); e che si deve intervenire sull’assenza di un’esperienza vissuta in una persona, senza cercare di articolarla nell’ambito del processo secondario.
(Khan, 1975, p. 52).
Ciò che Khan intende dire è che mediante l’esperienza onirica, il paziente può esprimere parti del proprio Sé che sarebbero altrimenti irraggiungibili. Questo genere di esperienza, è in grado di arricchire la vita della persona; così come la sua assenza, al contrario, la impoverisce.
Khan illustra quindi il caso clinico di una ragazza di ventitre anni, in analisi da tre anni; descritta dall’autore come un caso che corrisponderebbe oggi alla diagnosi di disturbo borderline. La ragazza porta il seguente sogno in seduta:
Nel mio sogno sono nella mia stanza e Peter mi sta scopando. Mi rendo conto di quello che sta accadendo e finisce.
Khan è impressionato dall’incipit del sogno “Nel mio sogno”; esso indica uno spazio specifico del sogno. La ragazza nel corso delle associazioni fatte al sogno arriva a capire, mediante il sogno stesso, che nello spazio onirico è stato possibile per lei attualizzare l’esperienza del senso del Sé e della sua istintività che era stata, fino a poco prima agita verso l’esterno.
Il sogno è definito dunque da Kahn come un processo biologico della psiche umana che si configura come il risultato di uno sviluppo adeguato della persona, facilitato da cure ottimali e holding ambientale durante l’infanzia.
Per Khan (1972) il sogno è un nuovo spazio transizionale in cui la persona ripone i propri contenuti psichici. Se non si riesce a sviluppare tale capacità – secondo l’autore – il risultato sarà la tendenza all’acting out, così come un eccesso di senso opposto (dissociazione), porta l’individuo a chiudersi nel proprio mondo onirico, senza riuscire a rivolgere lo sguardo al mondo reale.
L’attualizzazione dei contenuti inconsci nello spazio del sogno permette una efficace elaborazione mediante l’uso della simbolizzazione.
Nell’ultimo lavoro sul sogno, Al di là dell’esperienza onirica, Khan (1975) esprime una nuova ipotesi: “bisognerebbe distinguere tra l’esperienza onirica e il significato del testo onirico che viene ricordato. La mia esperienza clinica mi ha insegnato che il sognare è un’esperienza psichica del tutto diversa da quella fornita dal testo onirico rievocabile” (pp. 48-49).
L’autore segue l’esempio di Starobinski nel saggio Hamlet et Oedipe (1970) che aveva affermato: “l’inconscio non è soltanto linguaggio, è drammaturgia”, e ribalta il concetto espresso da Pontalis (1955) “il soggetto che parla è l’intero soggetto” per affermare che “il soggetto che sogna è l’intero soggetto” (Khan, 1975, p. 50). L’autore vuole chiarire il ruolo del Sé nel sogno:
Esiste un’esperienza onirica della quale nel testo onirico non vi è traccia; si tratta cioè di due eventi che non sono né complementari né antitetici. Nell’esperienza complessiva di sé, da parte di un individuo, possono a volte sovrapporsi, oppure restare separati e privi di rapporti. Ma non dobbiamo dimenticarci che l’esperienza onirica esiste e influenza il comportamento dell’individuo, anche quando non viene riconosciuta né descritta (con parole o con immagini); e che si deve intervenire sull’assenza di un’esperienza vissuta in una persona, senza cercare di articolarla nell’ambito del processo secondario.
(Khan, 1975, p. 52).
Ciò che Khan intende dire è che mediante l’esperienza onirica, il paziente può esprimere parti del proprio Sé che sarebbero altrimenti irraggiungibili. Questo genere di esperienza, è in grado di arricchire la vita della persona; così come la sua assenza, al contrario, la impoverisce.